05 ottobre 2016

L'industralizzazione in Lucchesia 1880 - 1901 di Francesco Petrini

di Luciano Luciani

Libro di grande interesse storico questo Aspetti dell'industrializzazione in Lucchesia 1880 - 1901. Il volume, risultato della rielaborazione e dell'arricchimento documentario di un saggio dallo stesso titolo apparso trent'anni fa sul n. 5 di "Documenti e studi", semestrale dell'Istituto Storico della Resistenza di Lucca, mantiene tutti i caratteri che ne determinarono, allora, il generale apprezzamento. Soprattutto il fatto che ricerche di questo genere erano - e sono rimaste – piuttosto rare. A metà del secolo scorso si contavano sulle dita di una mano gli autori che avevano affrontato i contenuti, i processi e i protagonisti della rivoluzione industriale italiana: Corrado Barbagallo, Le origini della grande industria contemporanea (1750-1850)), 1929-1930; Roberto Tremelloni, Storia dell’industria italiana contemporanea. Dalla fine del ‘700 all’Unità, 1947; Antonio Fossati, Lavoro e produzione in Italia dalla metà del secolo XVIII alla II guerra mondiale, 1951  e, il più famoso di tutti, Rodolfo Morandi, Storia della grande industria in Italia, 1959: studi di storia economica che si erano poi riversati nella ricostruzione e interpretazione della nostra vicenda nazionale unitaria,  con i lavori di Gerschenkron, Caracciolo, Cafagna,  Romeo...

Sugli esordi della rivoluzione industriale di Toscana, aveva cominciato a lavorare fra la fine degli anni Cinquanta, lo storico marxista Giorgio Mori, che non aveva mancato di cogliere l’importante novità industriale-capitalistica rappresentata dallo Iutificio di Emanuele Balestrieri: “un grandioso stabilimento” lo definisce il Mori, che occupava un’area di 150.000 mq, di cui 20.000 fabbricati che dava lavoro alla fine dell’Ottocento a circa 1500 addetti alla filatura e alla tessitura, con l’istallazione di 10.000 fusi e 300 telai meccanici: una grossa novità, non solo sul piano provinciale e regionale, ma anche nazionale. Non va dimenticato, infatti, che in quel periodo, gli anni Ottanta del XIX secolo, la quasi totalità delle industrie tessili presenta - e presenterà ancora per alcuni decenni - caratteri spiccatamente agricoli. Manifatture importanti come quelle della seta e della lana, sono ancora frazionate in migliaia di piccole aziende domestiche con impianti artigianali e modi di lavorazione patriarcali; sono sparse nella campagna e sono servite da contadini divenuti solo occasionalmente operai e il lavoro artigianale-industriale è percepito come accessorio e pronto a essere disertato non appena le attività agricole e i lavori campestri lo richiedano.


Cogliamo meglio, quindi, tutto il peso e tutte le novità dell’iniziativa economica del Balestreri, così ben raccontata da Petrini che divide il suo lavoro in due parti: ”Vita e opere di un imprenditore”; “Aspetti della condizione operaia nel Comune di Lucca”.
 

Partiamo dal primo punto.
Chi è Emanuele Balestreri? È un uomo del Risorgimento, di seconda generazione risorgimentale; troppo giovane  per la poesia, del nostro processo di unificazione nazionale - il ’48 ; il ’59, la spedizione dei Mille - in età, però, per la prosa risorgimentale: il difficile avvio dell’Italia unita; la dolorosa presa di coscienza dei suoi numerosi e gravi problemi: la questione meridionale; la questione sociale; la questione cattolica…


Genovese, volontario in marina a 20 anni, Balestreri torna claudicante dalla III guerra d’indipendenza. Liberale crispino, appartiene a quell’area politica che aveva abdicato rispetto alle aspirazioni repubblicane per abbracciare la monarchia e che, dopo  il passaggio del potere della Destra alla Sinistra storica, era arrivata al governo del Paese, che avrebbe mantenuto sino al marzo 1896, all’indomani della tragedia di Adua con le definitive dimissioni del Crispi. Il tempo dello statista siciliano coincide, più o meno, col tempo dell’esperienza dell’imprenditore genovese e della sua avventura industriale a Lucca. Alcuni caratteri li accomunano: entrambi spregiudicati nei rapporti economici e politici, tutti e due autoritari e dirigisti costituiscono un mix di nuovo e di vecchio. Balestreri realizza un’azienda all’avanguardia per la modernità degli impianti (quattro motrici per fornire energia all’intero stabilimento; una lavorazione a ciclo completo, la luce elettrica per il lavoro notturno), ma vive con disagio tutti i vincoli propri di un rapporto col territorio e più in generale l’intero sistema delle relazioni politiche, sociali, culturali col Morianese e con Lucca. Per esempio, quando ha bisogno dell’acqua per le sue attività industriali, in maniera del tutto unilaterale se la prende, togliendola all’agricoltura e ai contadini della zona, dando vita così a un interminabile contenzioso col territorio, i suoi abitanti e i suoi rappresentanti. Una polemica insanabile che finirà per logorarlo anche presso i suoi stessi colleghi, quegli industriali lucchesi, che non lo amano granché e che hanno accettato,  obtorto collo, la presenza della sua manifattura: un’industria che per le sue esigenze produttive disfaceva e non poco vecchi equilibri, ne produceva e fondava di nuovi, creava interessi diversi da quelli tradizionali e consolidati. Profondo il sentire ant-Balestreri di  larghi strati del conservatorismo e del moderatismo lucchesi che, infatti, non permetterà mai all’industriale genovese di intraprendere una significativa carriera politica. Né va meglio a Balestreri l’impresa di rendere Ponte a Moriano una “città-sociale”, sul modello di quelle realizzate da un altro industriale del tessile, Alessandro Rossi, proprietario della Lanerossi che nel Veneto, a Schio, modifica addirittura la struttura urbanistica della città; costruisce nuovi quartieri abitativi per gli operai e impianta strutture sociali - asili nido per i figli delle lavoratrici; scuole tecniche; un teatro, ben quattro linee di collegamenti ferroviari con i paesi vicini per la mobilità dei lavoratori - che trasformano  la cittadina in uno straordinario polo industriale centro del progetto filantropico-paternalista del Rossi.
Ben più modesti gli interventi sociali del Balestreri a Ponte a Moriano: le abitazioni operaie dette “Le Torrette” a Ponte a Moriano; una Società operaia di mutuo soccorso con pochi operai, però, e tanti maggiorenti a presiederla; una Scuola serale per i figli dei soci; una discussa Cooperativa di Consumo tra gli operai e gli impiegati della fabbrica. Niente di paragonabile, forse anche perché estranea agli orizzonti ideologici dell’industriale genovese, all’esperienza totalizzante e interclassista di Rossi nel Veneto.


In questa prima parte del lavoro, Petrini, sta bene attento a mantenere le giuste distanze dal Balestreri: non ci si identifica, come accade spesso in tante biografie e a non pochi biografi che di sovente finiscono per “innamorarsi” del personaggio oggetto di studio. A Petrini, con l'industriale genovese, non succede: di lui conosciamo le luci, le ombre e anche le zone più in ombra: la sua passione per le donne; un temperamento impulsivo che non disdegna le reazioni violente ai torti, veri o presunti, subiti. E, per meglio delinearne il carattere e la percezione diffusa di questa prorompente personalità, in tempi e ambienti diversi l’Autore utilizza, quando possibile, anche le fonti orali: le voci del villaggio operaio che si sono tramandate di padre in figlio, sono diventate lessico familiare e senso comune.


Una scrittura, quella di Petrini, documentata e controllata: una ricostruzione storica documentata sine ira ac studio: un atteggiamento equanime, obbiettivo… Che giustamente, almeno a mio parere, s’incrina nella seconda parte del libro "Aspetti della condizione operaia nel Comune di Lucca" quando l'Autore espone le cifre, i dati, terribili, tragici degli interminabili orari di lavoro, dei salari da fame, delle pessime condizioni igienico-sanitarie, delle malattie professionali e sociali diffuse, della deprivazione complessiva – anche culturale, anche umana, – a cui furono sottoposte generazioni soprattutto di donne e fanciulli tra la sostanziale indifferenza di autorità, istituzioni, intellettuali.

Questi dati, queste cifre debbono essere state per l’Autore un doloroso pugno nello stomaco che Petrini ci gira pari pari. Il moralista che è in lui s’inalbera, s’indigna: e lo dimostrano sia la scelta degli argomenti che illustrano le condizioni materiali di vita del proletariato lucchese, sia la costruzione delle sequenze di testi argomentativi, sia la selezione delle citazioni. Un climax, quello compiuto dall’Autore in questa sezione del libro, che ottiene il suo punto di maggiore dolorosa intensità nella storia di una vita operaia spezzata: quella di Ester Fenili, operaia dello iutificio, che nel 1901, a poco più di 30 anni, si dà la morte per sfinimento, per stanchezza, per la tristezza di una vita non degna di essere vissuta. Con i pochi materiali a disposizione, Petrini ricostruisce una povera storia di una vita povera: povera al limite della miserabilità, ma soprattutto senza speranza, senza prospettiva, senza sogni.


Stasera è l’ultima che vengo a casa tua è il titolo dell’ultimo capitoletto di questo segmento di libro, pagine particolarmente partecipate, intense, commosse in cui davvero Francesco Petrini mi è sembrato all’altezza di quanto auspicato da Gramsci proprio cento anni fa: “Il proletariato non vuole predicatori di esteriorità, freddi alchimisti di parolette, vuole comprensione intellettuale, simpatia piena d’amore”.

Francesco Petrini, L'industralizzazione in Lucchesia 1880 - 1901, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca 2016, pp. 175, Euro 16,00

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