07 ottobre 2016

"Psicosi delle 4.48" di Sarah Kane diretto da Giorgia Filanti e Enrico Morcacci




di Silvia Chessa

Giorgia Filanti ha debuttato, con il testo Psicosi delle 4.48 (di Sarah Kane), diretto da lei stessa con Enrico Morcacci, il 19 Settembre, al Teatro Lo Spazio, di Roma.

Sull'opera di Sarah Kane, è doveroso spendere due parole, per coloro che, come me, non la conoscevano abbastanza bene fino ad oggi (o non la conoscono affatto), malgrado la sua diffusione ed i riconoscimenti ufficiali che ne attestano la grandezza e specificità.

Sarah Kane, scrittrice e drammaturga britannica, è autrice di cinque testi teatrali, dei quali, questo, "4.48 Psychosis", è, a buon diritto, considerato il suo testamento spirituale ed è, di fatto, un sogno-delirio incubo dove si assaporano e si scandagliano le sue visioni, fobie, allucinazioni .. quelle di un'anima devastata e di una mente dissociata con lampi di rovente lucidità.

Poemetto dolorosissimo, dunque, e massacrante che suscita di solito reazioni estreme, in quanto è pertugio aperto sulla sensibilità di Sarah ma, in generale, sul panorama contemporaneo della psicosi (Sarah Kane è morta, suicida, a 28 anni, nel 1999).

In questa opera ella ci appare ora bambina, vulnerabile, indifesa, preda di autoaccuse, ora rabbiosa e violenta come una erinni, protagonista di un attacco al mondo delle convenzioni, delle falsità. - (“Ti ho creduto, ti ho amato,  non è perderti che mi addolora,quanto le tue fottute stronzate mascherate da annotazioni mediche”)-,  e degli orrori vari ("il fantasma maligno della morale comune"); orrori che forse uccidono più delle private delusioni alle quali non sappiamo dare soluzione o convivibilità ("sono un fallimento come persona", "sono colpevole", "vengo punita") e di certo acuiscono lo stato di estrema sofferenza di un'anima che già patisce di suo (l’abbandono da parte della persona amata… l'estenuante ricerca della figura paterna che, pur assente, la compenetra e le è dentro, e non solo geneticamente o epidermicamente: c'è senza liberarla, trasuda e impregna l'aria ma senza averla mai abbracciata, cercata, protetta, inclusa nei suoi pensieri di padre vacante, ma dalla figlia inseguito, interrogato in interiori dialoghi e domande..).

Si trapassa, con la spada insanguinata di parole acuminate, e si radiografa, la Kane, coi suoi occhi aguzzi e mordaci, in questo funesto testo. Poi, elegge il suicido, e muore. Muore in un momento di massima energia e forza vitale - (“la pollastra balla ancora, la pollastra non si ferma”). Forza che pervade le sue alte grida a se stessa, frutto di un ego auto-ostile, e parimenti grida al mondo, altro da sé ma altrettanto deludente, falso ed ostile.

Massima vitalità, dunque, ma, allo stesso tempo, l'apice del negazionismo esistenziale, radicale rifiuto delle convenzioni e manipolazioni del mondo in generale e della scienza psichiatrica, in specifico (che le ripete come un mantra, senza beneficio, il trito e ritrito "non è colpa tua", oppure le prescrive veleni farmacologici atti ad ottunderle la mente)

Nella versione teatrale proposta da Giorgia Filanti, sotto la direzione di Enrico Morcacci, la scenografia si presenta essenziale, quasi di beckettiana memoria, utile ad convogliare il fulcro dell'attenzione nel cuore del dramma.

Il senso di inquietudine, cifra marcante dell'opera, è suscitato con immediatezza acustico-visiva mercè la proiezione integrale del video del brano Chandelier, di Sia, laddove estetica e contenuto (immagini, musica e testo) che evocano perfettamente spettri, abusi (one two drink..)  ed arcaiche paure inscenate dalla prodigiosa talentuosità di una danzatrice bambina, la quale, come un folletto impazzito, esplode il suo talento in una ambientazione tetra e claustrofobica, potendo, altresì, vantare una espressività mimico-facciale impressionante. Impressionante come ogni elemento di questo video, scelto magistralmente per introdurre lo spettacolo.



Nel corso della sua ottima performance, Giorgia ha caricato di rabbia la rabbia, di dolore il dolore, di provocazione ogni provocazione, assumendo in sé e scandendo ogni sillaba di un testo già forte che trasuda traumi e sofferenze, ma anche punte di raro humour noir. -(“Non mi sono mai uccisa prima quindi non cercate precedenti.”)
Ha speso largamente ogni sua energia fisica, anche con ripetute corse attorno al pubblico (additato, accarezzato ..coinvolto senza filtri e reso partecipe fino all'inclusione nell'opera stessa); e, levandosi di dosso ogni pudore o riserva, ha svestito ed incarnato rabbia e disperazione, allargando lo sguardo in fissità deliranti accecate di lucida follia..

Affronta  di petto la questione. E la questione è: l'impossibile fondersi di anima e corpo, malgrado il loro essere intrinsecamente connessi. La decisione di congedarsi dalla esistenza e dagli altri (espressa in parole, parolacce,  gesti estremi e finali ..) mista alla richiesta, urlata, di essere, dagli altri, vista, guardata. Cosa che significa essere accettata, riconosciuta, amata.

-"Vaffanculo, vaffanculo, vaffanculo per rifiutarmi non essendo mai lì, vaffanculo per farmi sentire una merda, vaffanculo per dissanguarmi di vita e d'amore, vaffanculo a mio padre per avermi distrutto la vita, e vaffanculo a mia madre, per non averlo lasciato, ma più di tutti, vaffanculo dio, che mi costringe ad amare una persona che non esiste"-
..e poi..
-"Guardatemi scompaio
Guardatemi scompaio 
Guardatemi
guardatemi
guardate"-

L'umanità, oggi e sempre, è piena di creature sofferenti, malate nella mente oppure nel corpo, ove mai si riuscisse a scinderli, creature, come la Kane, di acuta sensibilità, le quali stanno scomparendo, ma, finché  non lo sono, credo ci chiedano di non essere invisibili, giacché l’invisibilità è morte peggiore di quella corporale, bensì di essere viste, guardate, fissate bene, tenute a mente.

Il teatro, sede di catarsi per eccellenza, rende possibile la catarsi dello sguardo proprio nell’altrui e tangibile la metamorfosi della malattia, del singolo, e della società (individuo e società che sono connessi, anch’essi, come corpo e mente, ed, attualmente, sono ammalati entrambi).

La malattia trasforma il corpo di una donna-emblema del male di vivere e della società sconfitta, lo raggomitola, lo atterra, lo ingabbia nei suoi deliri kafkiani, nel suo proiettarsi immaginificamente in uno scarafaggio
-         “Come se fossi scivolata come uno scarafaggio sugli schienali delle loro sedie” - , poi ne attacca la mente, vi si insidia come un tarlo, la percuote, la scuote febbrilmente..ma non del tutto, se quella mente, colpevolizzata dalla società (che nega lo sguardo per dirigerlo altrove, vergognandosi dei suoi membri, meno belli e sani, o cerca di acquietarli con false paroline, vuote di vera comprensione), ancora si concede di disquisire e puntualizzare le differenze fra similitudine e metafora, suscitando in noi rispetto e tenerezza.

Come lo suscita ogni apparente incongruenza o corto circuito emotivo.. la razionalità che rema nel naufragio dell'irrazionale. 



Una performance teatrale, quella di Giorgia, coraggiosissima e viscerale, che lascia giustamente scioccati  (come si dovrebbe prefiggere chi resuscita e rianima quest'opera), benignamente 'disturbati'.

Forse, se si vuole trovare un motivo di perfettibilità alla  sua resa, avrei voluto assistere ad un grammo di malinconia, ad un millimetro di cedimento, ad un barcollio della schiena, un bisbigliato,  un impaccio imprevisto o disagio del corpo (che è tonico, tutto nervi e scattosità come nel testo-testamento è esposto con smaccata autoironia -"la pollastra ancora balla"- ..ma sappiamo anche che sta destinandosi a scomparire...ed io lo avrei decomposto, argentato, insomma trasfigurato per un attimo..); questo accorgimento avrebbe alluso ad una vecchiaia precoce, che poi sarebbe la stanchezza del cuore, altro caposaldo dell'opera, o il traballare di una volontà che sebbene granitica è pur sempre umana dunque scalfibile,  come ineffabile e tremante è il dolore
-“tremo senza ragione e inciampo nelle parole e non ho nulla da dire sulla mia "malattia" che in ogni caso consiste semplicemente nell'essere consapevole che nulla ha senso perché sto per morire”-

Ecco,  forse, qui per rendere appieno tutta la gamma delle emozioni coinvolte in questa tragedia contemporanea e struggente, da togliere il fiato, ed al fine di ottenere un coinvolgimento totale e fatale, toccando tutte le corde del pubblico, poteva bastare un incrinarsi della voce dell’attrice protagonista..o qualcosa di tenero, vago ed incerto, atto a tradurre, in atto, e compensare, ogni eventuale manchevolezza o intraducibilità di un testo come questo, che si potrebbe al limite anche considerare come un’opera compiuta ma mai rivisitata in quanto, essendo appena precedente alla morte dell’autrice, non poté essere oggetto di perfezionamenti o rimaneggiamenti, da parte dell'autrice stessa.

Piccoli accorgimenti, semmai, da inserire in una lodevole interpretazione, che ho trovato appassionante e coinvolgente, quasi spericolata, nel tuffarsi e condurci, a picco, nel vortice  di delirio e dolore.  
   

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