di Silvia
Chessa
Giorgia
Filanti ha debuttato, con il testo Psicosi
delle 4.48 (di Sarah Kane), diretto da lei stessa con Enrico Morcacci, il
19 Settembre, al Teatro Lo Spazio, di Roma.
Sull'opera
di Sarah Kane, è doveroso spendere due parole, per coloro che, come me, non la
conoscevano abbastanza bene fino ad oggi (o non la conoscono affatto), malgrado
la sua diffusione ed i riconoscimenti ufficiali che ne attestano la grandezza e
specificità.
Sarah Kane,
scrittrice e drammaturga britannica, è autrice di cinque testi teatrali, dei
quali, questo, "4.48 Psychosis", è, a buon diritto, considerato il
suo testamento spirituale ed è, di fatto, un sogno-delirio incubo dove si assaporano
e si scandagliano le sue visioni, fobie, allucinazioni .. quelle di un'anima
devastata e di una mente dissociata con lampi di rovente lucidità.
Poemetto
dolorosissimo, dunque, e massacrante che suscita di solito reazioni estreme, in
quanto è pertugio aperto sulla sensibilità di Sarah ma, in generale, sul
panorama contemporaneo della psicosi (Sarah Kane è morta, suicida, a 28 anni,
nel 1999).
In questa
opera ella ci appare ora bambina, vulnerabile, indifesa, preda di autoaccuse,
ora rabbiosa e violenta come una erinni, protagonista di un attacco al mondo
delle convenzioni, delle falsità. - (“Ti ho creduto, ti ho amato, non è
perderti che mi addolora,quanto le tue fottute stronzate mascherate da
annotazioni mediche”)-, e degli orrori
vari ("il fantasma maligno della morale comune"); orrori che forse
uccidono più delle private delusioni alle quali non sappiamo dare soluzione o
convivibilità ("sono un fallimento come persona", "sono
colpevole", "vengo punita") e di certo acuiscono lo stato di
estrema sofferenza di un'anima che già patisce di suo (l’abbandono da parte
della persona amata… l'estenuante ricerca della figura paterna che, pur
assente, la compenetra e le è dentro, e non solo geneticamente o
epidermicamente: c'è senza liberarla, trasuda e impregna l'aria ma senza averla
mai abbracciata, cercata, protetta, inclusa nei suoi pensieri di padre vacante,
ma dalla figlia inseguito, interrogato in interiori dialoghi e domande..).
Si trapassa,
con la spada insanguinata di parole acuminate, e si radiografa, la Kane, coi
suoi occhi aguzzi e mordaci, in questo funesto testo. Poi, elegge il suicido, e
muore. Muore in un momento di massima energia e forza vitale - (“la pollastra
balla ancora, la pollastra non si ferma”). Forza che pervade le sue alte grida
a se stessa, frutto di un ego auto-ostile, e parimenti grida al mondo, altro da
sé ma altrettanto deludente, falso ed ostile.
Massima
vitalità, dunque, ma, allo stesso tempo, l'apice del negazionismo esistenziale,
radicale rifiuto delle convenzioni e manipolazioni del mondo in generale e
della scienza psichiatrica, in specifico (che le ripete come un mantra, senza
beneficio, il trito e ritrito "non è colpa tua", oppure le prescrive
veleni farmacologici atti ad ottunderle la mente)
Nella
versione teatrale proposta da Giorgia Filanti, sotto la direzione di Enrico
Morcacci, la scenografia si presenta essenziale, quasi di beckettiana memoria,
utile ad convogliare il fulcro dell'attenzione nel cuore del dramma.
Il senso di
inquietudine, cifra marcante dell'opera, è suscitato con immediatezza
acustico-visiva mercè la proiezione integrale del video del brano Chandelier, di Sia, laddove estetica e
contenuto (immagini, musica e testo) che evocano perfettamente spettri, abusi
(one two drink..) ed arcaiche paure
inscenate dalla prodigiosa talentuosità di una danzatrice bambina, la quale,
come un folletto impazzito, esplode il suo talento in una ambientazione tetra e
claustrofobica, potendo, altresì, vantare una espressività mimico-facciale
impressionante. Impressionante come ogni elemento di questo video, scelto
magistralmente per introdurre lo spettacolo.
Nel corso
della sua ottima performance, Giorgia ha caricato di rabbia la rabbia, di
dolore il dolore, di provocazione ogni provocazione, assumendo in sé e
scandendo ogni sillaba di un testo già forte che trasuda traumi e sofferenze,
ma anche punte di raro humour noir. -(“Non mi sono mai uccisa prima quindi non
cercate precedenti.”)
Ha speso
largamente ogni sua energia fisica, anche con ripetute corse attorno al
pubblico (additato, accarezzato ..coinvolto senza filtri e reso partecipe fino
all'inclusione nell'opera stessa); e, levandosi di dosso ogni pudore o riserva,
ha svestito ed incarnato rabbia e disperazione, allargando lo sguardo in
fissità deliranti accecate di lucida follia..
Affronta di petto la
questione. E la questione è: l'impossibile fondersi di anima e corpo, malgrado
il loro essere intrinsecamente connessi. La decisione di congedarsi dalla
esistenza e dagli altri (espressa in parole, parolacce, gesti estremi e finali ..) mista alla
richiesta, urlata, di essere, dagli altri, vista, guardata. Cosa che significa
essere accettata, riconosciuta, amata.
-"Vaffanculo,
vaffanculo, vaffanculo per rifiutarmi non essendo mai lì, vaffanculo per farmi
sentire una merda, vaffanculo per dissanguarmi di vita e d'amore, vaffanculo a
mio padre per avermi distrutto la vita, e vaffanculo a mia madre, per non
averlo lasciato, ma più di tutti, vaffanculo dio, che mi costringe ad amare una
persona che non esiste"-
..e poi..
-"Guardatemi
scompaio
Guardatemi
scompaio
Guardatemi
guardatemi
guardate"-
L'umanità,
oggi e sempre, è piena di creature sofferenti, malate nella mente oppure nel
corpo, ove mai si riuscisse a scinderli, creature, come la Kane, di acuta
sensibilità, le quali stanno scomparendo, ma, finché non lo sono, credo ci chiedano di non essere
invisibili, giacché l’invisibilità è morte peggiore di quella corporale, bensì
di essere viste, guardate, fissate bene, tenute a mente.
Il teatro,
sede di catarsi per eccellenza, rende possibile la catarsi dello sguardo
proprio nell’altrui e tangibile la metamorfosi della malattia, del singolo, e
della società (individuo e società che sono connessi, anch’essi, come corpo e
mente, ed, attualmente, sono ammalati entrambi).
La malattia
trasforma il corpo di una donna-emblema del male di vivere e della società
sconfitta, lo raggomitola, lo atterra, lo ingabbia nei suoi deliri kafkiani,
nel suo proiettarsi immaginificamente in uno scarafaggio
-
“Come
se fossi scivolata come uno scarafaggio sugli schienali delle loro sedie” - , poi ne attacca la mente, vi si insidia come
un tarlo, la percuote, la scuote febbrilmente..ma non del tutto, se quella
mente, colpevolizzata dalla società (che nega lo sguardo per dirigerlo altrove,
vergognandosi dei suoi membri, meno belli e sani, o cerca di acquietarli con
false paroline, vuote di vera comprensione), ancora si concede di disquisire e
puntualizzare le differenze fra similitudine e metafora, suscitando in noi
rispetto e tenerezza.
Come lo
suscita ogni apparente incongruenza o corto circuito emotivo.. la razionalità
che rema nel naufragio dell'irrazionale.
Una
performance teatrale, quella di Giorgia, coraggiosissima e viscerale, che
lascia giustamente scioccati (come si
dovrebbe prefiggere chi resuscita e rianima quest'opera), benignamente
'disturbati'.
Forse, se si
vuole trovare un motivo di perfettibilità alla
sua resa, avrei voluto assistere ad un grammo di malinconia, ad un
millimetro di cedimento, ad un barcollio della schiena, un bisbigliato, un impaccio imprevisto o disagio del corpo
(che è tonico, tutto nervi e scattosità come nel testo-testamento è esposto con
smaccata autoironia -"la pollastra ancora balla"- ..ma sappiamo anche
che sta destinandosi a scomparire...ed io lo avrei decomposto, argentato,
insomma trasfigurato per un attimo..); questo accorgimento avrebbe alluso ad una
vecchiaia precoce, che poi sarebbe la stanchezza del cuore, altro caposaldo
dell'opera, o il traballare di una volontà che sebbene granitica è pur sempre
umana dunque scalfibile, come ineffabile
e tremante è il dolore
-“tremo
senza ragione e inciampo nelle parole e non ho nulla da dire sulla mia
"malattia" che in ogni caso consiste semplicemente nell'essere
consapevole che nulla ha senso perché sto per morire”-
Ecco, forse, qui per rendere appieno tutta la gamma
delle emozioni coinvolte in questa tragedia contemporanea e struggente, da
togliere il fiato, ed al fine di ottenere un coinvolgimento totale e fatale,
toccando tutte le corde del pubblico, poteva bastare un incrinarsi della voce
dell’attrice protagonista..o qualcosa di tenero, vago ed incerto, atto a tradurre,
in atto, e compensare, ogni eventuale manchevolezza o intraducibilità di un
testo come questo, che si potrebbe al limite anche considerare come un’opera
compiuta ma mai rivisitata in quanto, essendo appena precedente alla morte
dell’autrice, non poté essere oggetto di perfezionamenti o rimaneggiamenti, da
parte dell'autrice stessa.
Piccoli
accorgimenti, semmai, da inserire in una lodevole interpretazione, che ho
trovato appassionante e coinvolgente, quasi spericolata, nel tuffarsi e
condurci, a picco, nel vortice di
delirio e dolore.
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