30 marzo 2017
"Giuliano Briganti e la “maniera” della critica d’arte italiana" di Davide Pugnana
29 marzo 2017
“Cafè parigino” foto di Willy Ronis
27 marzo 2017
"I bulli di Mugnano e l'invito al "Giffoni Film Festival" di Mimmo Mastrangelo
Ma intorno a quest'ennesimo caso di violenza minorile si è inserita una proposta rivolta da Claudio Gubitosi, direttore del Giffoni Film Festival, ai bulli di Mugnano. Il patron della più importante vetrina internazionale del cinema per ragazzi ha invitato i responsabili del brutale gesto a seguire nelle vesti di giurati le giornate della prossima edizione del Festival.
Una proposta che ha destato subito delle critiche in quanto si premierebbe questi ragazzi invece di farli pentire della violenza fisica riversata su un loro coetaneo. Dal canto suo Claudio Gubitosi, nell'invitare, naturalmente alle giornate di luglio del GFF anche il ragazzo vittima delle vessazioni, ha voluto così motivare la sua iniziativa: "E' solo un'opportunità che da padre vorrei dare a questi ragazzi per fargli conoscere la bellezza del rispetto per gli altri, la comprensione delle differenze. A Giffoni si rispettano le regole e potrebbe essere questo un buon motivo per creare un cortocircuito tra il mondo reale e quello virtuale, per far emergere i valori positivi che ogni ragazzo e ragazza ha , ma che, purtroppo, sempre più spesso non domina e non governa...".
Al cospetto di quanti hanno manifestato avversione e disappunto, chi scrive pensa che quella di Gubitosi sia una presa di posizione sì forte (e probabilmente pure discutibile), ma è coerente con la sensibilità, il sentire e i valori di una personalità pubblica che promuove nel mondo la cultura per tramite delle narrazioni filmiche. Il suo non lo si può far passare come un atto di perdono, un'assoluzione, piuttosto è un affronto al muro che alza la violenza e fa perdere una prospettiva del rispetto verso l'altro.
Il direttore del GFF chiama i bulli al compromesso, a (ri)stabilire un patto di coesione, a fare i conti con la propria coscienza, a ripiantare la radice di un dialogo sulla strada del ravvedimento. Quello di Gubitosi è un atto cristiano (e anche sanamente laico), padre David Maria Turoldo l'avrebbe attestato in "un canto d'amore da fratello a fratello", da Abele a Caino che abbatte la barriera della non-comunicazione e lascia intravedere un raggio di luce sulla cui scia possano tornare a camminare i bulli di Mugnano. Portare loro Giffoni non è un premio o una vacanza a gratis, è provare a farli comprendere, a strapparli ad un loro torpore interno ed evitare che il male, ancora una volta, trovi sfogo all'esterno nella maniera più sbagliata.
“Sandro Penna a cento giorni dalla maturità” di Davide Pugnana
L'infantilismo lirico di Penna è tra le più belle cifre letterarie del Novecento italiano, direi che è quasi una marca. Marca che torna alla luce dopo esser rimasta, per molti inverni, un seme sotto la neve.
In effetti, prima di Penna ce n'eravamo quasi dimenticati e dobbiamo falcare molte bracciate a ritroso per ritrovarne la scaturigine. C'era il sapiente, ma tutt'altro che innocente, contenutismo naïf del Pascoli, nel quale l'occhio appuntato sulle forme visibili della natura e tuffato nel microcosmo degli affetti domestici, covati in un sublimato nodo oscuro, trovavano ricomposizione (o smaterializzazione) in versi tesi e vibranti, simili a "finissimi sistri d'argento": lamelle musicali che, sfiorate dalle dita del poeta veggente, portavano dal laggiù di nebbie e campane la voce dei morti carica di promesse e verità.
C'erano le auliche - seppur travestite di modesta sprezzatura - regressioni/rinascite gozzaniane tra genealogia e memoria, tra la polvere degli oggetti desueti del salotto tardo ottocentesco e la lallazione protololitica del "mam-ma" e "co-cot-te" che sembra fare il verso alla lingua dantesca che vuol dar fondo a tutto l'universo con le sillabe di "mamma o babbo". Poi più nulla: il poeta-fanciullo tace ritroso tra l'orfismo di scavo nel porto sepolto, alla ricerca della parola dotata del peso specifico del mercurio, e la scabra prosodia montaliana, dantesca ancora una volta nelle sillabe piervignesche dei ciottoli espulsi dal mare dell'essere ed erosi dalla luce malinconica del mezzogiorno, tra biche di rosse formiche e case dechirianiane sferzate da venti oracolari, tenute sospese in un tempo senza ombra di lancette.
Tra queste rive, passano gli esordi di Luzi, di Gatto, di Bertolucci, di Caproni, poi di Giudici e del giovane Pasolini: un filologo travestito da cantastorie friulano. Poeti sofisticati, questi, in perpetuo dialogo con i maestri che hanno reciso il suono dal senso; instancabili passeggiatori solitari pronti ad interrogare, tra le colonne del tempio vivente, le loro 'corrispondenze' arcane e stupende. Ma il fanciullo ancora tace. Dobbiamo aspettare una piccola raccolta del 1939, firmata Sandro Penna, perché il trillo verginale torni a cantare e il pubblico assapori di nuovo l'infatilismo lirico che subito lo fa sentire "amico di Sandro".
Tra il petrarchismo di ritorno, corretto dal francessissimo Ungaretti, e il dantismo marino di Eusebio, ecco il comporre trapunto di allusività di Penna, senza segrete ambiguità, tutto traforato e traslucido, denso di filigrane semplici; quasi risolto in un (apparente, cioè voluto) ductus acquerellistico di visione delle cose, che non è deficienza di penetrazione, ma felicità naturale e visiva. Per me, è sempre stata questa la radice dell'infatilismo sapiente di Penna, che un po' lo avvicina alla "felicità" stenografica di De Pisis e un po' alla semplificazione cubitale di Rosai. Non si può che essere d'accordo con Garboli quando scrive dell' "inchiostro fresco e naturale" di Penna: "Oltre alla pura visività, c'è in Penna, che è poeta dotato di una larvale pluralità di tecniche, anche un altro sguardo da cui gli oggetti si ritraggono, per cui le immagini non varcano mai la soglia dell'anonimo [...] quello speciale entusiasmo [...] che generalmente si riserva agli artisti che sembrano stare a rimorchio, e nello stesso tempo, in virtù di un dono nativo, sembrano confermare la validità di esperienza maggiori di loro. "
Vedere gli studenti che tra cento giorni faranno l'esame di maturità e ancora non sanno cosa voglia dire l'addio agli anni del liceo, mi hanno fatto tornare in mente proprio alcuni versi di Sandro Penna che avevo quasi dimenticato: un poeta che alcuni di loro non leggeranno mai; che altri scopriranno tra qualche anno; o che, forse, non si legge nemmeno più, non so. Eppure, Penna ha fissato il senso della giovinezza in versi che scorrono come un brivido di disarmante lucidità. Il suo tono è un sibilo di vento atroce e bellissimo, simile a quello di un poeta giambico ed elegiaco precipitato in tempi moderni. Credo sia un bene non conoscere quei versi. Rimandarli a domani. Provo un certo sollievo per quella loro ignoranza: dicono che quando si vive non si scrive. O, piú semplicemente, si leggono i poeti quando si cerca un nome per ciò che si è vissuto. Eccoli, i versi per i centogiornisti:
"Ragazzi corrono sull'erba, e pare/ che li disperda il vento. Ma disperso/ solo è il mio cuore cui rimane un lampo/ vivido (oh giovinezza) delle loro/ bianche camicie stampate sul verde.
26 marzo 2017
"Mori licet cui vivere non placet" di Juli Jul Argenio
"Mori licet cui vivere non placet" non viene quasi mai messa in discussione. La condanna del suicidio, in occidente, è strettamente legata al''avvento del cristianesimo. A chiunque abbia commesso suicidio è interdetta la sepoltura cristiana. Se per il mondo pagano è accettabile la decisione di morire da parte di chi non ha più voglia di vivere e, anzi, viene connotata come espressione di libertà, col cristianesimo il suicidio è irrevocabilmente peccato, violazione del quinto comandamento, tradimento degli obblighi contratti al momento della nascita nei confronti di dio, della società e di noi stessi.
Nel 1608 il grande poeta metafisico John Donne affrontò il tema del suicidio da un punto di vista teologico. In un suo scritto del 1608-Biathanatos, J.Donne affrontò il tema del suicidio, pur non negando l'equazione: suicidio=peccato, per quanto possa sembrare paradossale, con l'esempio di Cristo.
Se Cristo ha scelto di morire, se Cristo si è dato volontariamente la morte, allora non si potrà più sostenere l'assoluta validità dell'equazione- suicidio=peccato. Per Donne, Cristo commise effettivamente suicidio e ciò sarebbe dimostrato dai passi evangelici in cui si dice "rese lo spirito" (emisit spiritum) al posto di morì. Dal Vangelo di Giovanni (10.15) *offro la vita per le pecore*, e 10.18 * nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso*. Per questo autore, tra l'altro uomo di chiesa, non fu la croce a togliere la vita a Cristo, ma Cristo a toglierla a sé stesso. Le sue argomentazioni mi sembrano molto interessanti, a prescindere dalla loro validità intrinseca.
La tesi secondo la quale il simbolo fondante del cristianesimo si sarebbe suicidato, ha fatto si che Borges dedicasse nel 1960 un suo scritto a J.Donne:
[...] l'idea barocca s'intravede dietro il Biathanatos: quella di un dio che edifica l'universo per edificare il proprio patibolo. [...]
Questo dio ripensato da Borges, questo dio erede dell'insensato, questo dio che ci dona la vita e che nell'atto stesso di donarcela se la toglie, ci consegna l'immagine di un dio che si suicida e suicidandosi ci consegna al non senso della vita.
ps: qualche parola sul Padre che pretende la vita del figlio, la scriverò un'altra volta. Manca poco a Pasqua, ed io sono un'accanita lettrice della storia delle religioni.
Da buona atea, mi interesso di ciò che non mi interessa. In nome di tante buffonate, risparmiate gli agnellini. Se proprio non sapete rinunciare alla carne, mangiatevi un vicino di casa insopportabile . Io vi assolvo nel nome dell'agnellino, della madre pecora e del gregge

25 marzo 2017
“Cascio: viaggio nella Garfagnana” di Gianni Quilici
![]() |
foto gianni quilici |
Mattino da viaggio. Per viaggiare
bisogna aprire gli occhi. Poi la meta, vicina lontana, importa meno. Chi come
me vive nella Piana di Lucca ha una possibilità abbastanza contigua: i paesi
che si trovano sulle colline della Garfagnana a destra o a sinistra del fiume
Serchio. Ed è per me sorprendente, almeno finora, lasciare il fondovalle e
sbucare su paesi con strutture medievali dentro un paesaggio non ancora
deturpato, anche se, in buona parte, abbandonato.
Il paese di stamani, Cascio, si
trova sulle colline prima di Castelnuovo Garfagnana. La strada sale ampia e dopo 4 Km, attraverso piccole
località, si arriva nel parcheggio dove la strada termina, appena prima del
centro storico. Prima della bella porta di ingresso un cartello ci informa che
Cascio è di origine alto medievale,
sorge lungo l’antica strada che collegava Lucca con Modena, è stato libero
comune prima di essere occupata da Lucca, dalla signoria degli Estensi, di
nuovo da Lucca senza neppure opporre resistenza, tanto che, riconquistata dagli
Estensi, per punizione essi, gli abitanti, furono obbligati a fortificarsi a
loro spese, amen.
![]() |
foto di gianni quilici |
E infatti una stradina sale tra
pochi resti di mura fino ad un torrione semicircolare di pietre e di sassi, nel
quale si percepisce ancora di più la mano e la fatica umana. Accanto ad esso
una bella casa, un’entrata aperta e incorniciata, un cortile dove la ricerca
del bello vive soprattutto nella cura conservativa.
![]() |
foto di gianni quilici |
Un viottolo corre lungo quelle che
dovevano essere le mura e offre uno sguardo sui prati ora verdi, sui castagni
nudi, cataste di legna e fioriture varie nel cinguettio diffuso che si rincorre
nella mattinata di luce.
![]() |
foto di gianni quilici |
Ecco che appare dall’alto la
piazzetta del paese con la facciata della chiesa neoclassica, il bel campanile
e un’altra porta medievale, dove sono ricordati i morti delle due guerre
mondiali e (sorpresa) i morti sul lavoro. E sulla destra il prato con stand, i
tavoli con panche, dove si festeggerà domenica prossima “la festa della campagna”,
come annuncia il manifesto, “ una giornata dedicata alla riscoperta degli “erbi
boni” e all’arte della potatura del castagno, con passeggiate, mangiate e
smondinate di fine inverno. Bella notizia di paese vivo!
![]() |
foto di gianni quilici |
Più avanti il belvedere. Un luogo
contemplativo! Una panchina che volge lo sguardo sulla vallata: Gallicano,
Barga, l’Appennino, un tavolino grezzo di castagno nel praticello. Tutto il
paese poi è puntellato di fiori e di api di stoffa come inno alla primavera.
![]() |
foto gianni quilici |
Nella piazza c’è un bar ben curato. Dentro una donna. Basta una domanda:” Quanti abitanti ha più o meno questo paese?” , che inizia uno scambio interessante. Il centro ha poco più di 20 abitanti, ma considerando le località fuori, sempre Cascio è, ne fa… legge un giornalino… 420, la frazione più popolosa del comune (di Molazzana). Ma i tempi sono cambiati, eccome se sono cambiati! Lei ha 80 anni, che non dimostra per lucidità e freschezza, prima aveva anche una trattoria con marito e famiglia. Facevano anche pranzi matrimoniali. Ma c’era la passione nel fare da mangiare, c’era il piacere di vedere che la gente era contenta, che ti ringraziava! Oggi in molti posti non è più così. Si tira via, si fa tutto alla svelta. E’ tutto cambiato. Anche il bar con tutte le tasse da pagare e il resto ha poco senso. Ha poco senso continuare”. Per un attimo penso a tutta quella gente costretta a lasciare il proprio Paese e a tutti questi borghi (e sono tanti) nelle colline e sulle montagne italiche, sempre più abbandonati. Penso che potrebbero essere progettati per ripopolarli, per risanare territori, per riprendere attività produttive all’altezza dei mercati. Certo ci vuole coraggio, ci vogliono progetti, ci vogliono finanziamenti, ma questa è una strada, una sfida necessaria per il futuro.
24 marzo 2017