La storia della critica d’arte
del Novecento è punteggiata di formidabili bagliori che segnano, a loro volta e
di pari passo con le opere che interrogano, ulteriori scatti di accelerazione
espressiva. Ci sono “letture” di singole opere d’arte o di poetiche abbracciate
nella loro totalità che hanno, su colui che le attraversa, l’effetto di
un’operazione di cataratta. Questi miracoli di coerenza e profondità marcano un
prima
e un dopo nella storia personale di ogni lettore; essi,
al pari della metafora kafkiana del libro rivelatore come ascia scagliata sul
mare di ghiaccio, tracciano una linea dalla quale non si può più tornare
indietro.
Nell’ambito della critica d’arte, tocca la questione Giovanni Testori
allorché sostiene che vi sono scritture d’arte la cui potenza lascia sull’opera
una cifra indelebile, simile ad una pellicola sacra, o ad una seconda pelle
depositata per sempre dentro lo sguardo dei posteri come la più sicura garanzia
della presenza del genio nell’atto critico. E’come se una resistente cortina di
parole avvolgesse l’opera d’arte figurativa, costringendo qualsiasi lettore, a
sua volta, a portarne nella memoria la loro indelebile traccia: “Un grande
critico, avvicinandosi ad un quadro, subisce come un risucchio, viene aspirato
dentro il quadro, fino a lasciare sul quadro, sul pittore, sul momento storico,
la sua impronta. Così chi, successivamente avvicina quell’opera, quell’artista,
quel periodo o scuola, non può fare a meno di riconoscervi anche
quell’impronta. […] Se vai a vedere Caravaggio. a un certo punto senti che su
quel quadro si sono impresse le parole di Longhi e solo le sue. Questo è quello
che chiamo un grande critico“, scrive Testori ricordando la lezione
di Roberto Longhi.
Nella linea longhiana, marcata da forti chiaroscuri, si sono
formati alcuni dei più grandi scrittori d’arte del Novecento italiano: pensiamo
alla prosa vertiginosa di Francesco Arcangeli, allo stesso Giovanni Testori;
alle pagine trepide e poeticissime di Roberto Tassi sui pittori ‘dei cieli’ tra
Otto e Novecento,o a quelle di Cesare Brandi nei suoi diari di viaggiatore. Per
oscuri e familiari vincoli genetici e per un segreto accordo dialettico maestro
/allievo, per questa compagine di giovani storici dell’arte essere stati
allievi di Longhi significò attraversare un’esperienza doppiamente estetica che
coinvolgeva, da un lato, la ricerca di un metodo di indagine storico-artistica
unita all’educazione prassistica dell’occhio al riconoscimento del fatto
figurativo, e, dall’altro, poneva l’accento sull’importanza della resa verbale.
Ancora oggi, nessun lettore di Longhi o di Arcangeli può rimanere immune dalla
seduzione della loro scrittura, o, meglio, dal loro esser stati scrittori
di opere d’arte. Ogni allievo di Longhi, diretto o indiretto, di
prima o seconda generazione, ad un certo punto aveva chiaro di fronte a sé lo
sforzo di approssimazione verbale all’opera d’arte figurativa che il maestro
cercò lungo tutta la sua vita: quell’abito verbale giusto, quella ricerca dell’
“equivalenza” che permettesse di tradurre, spiegare e restituire oggetti che
nascevano da un processo eminentemente visivo e in quel linguaggio risolvevano
la loro natura espressiva. La questione della spaccatura tra parola e immagine
accompagna come una sfida ogni storico dell’arte.
Lo stesso Heinrich
Wolfflin nell’incipit di una sua celebra conferenza si chiedeva se le
opere andassero davvero “spiegate” e se, all’intrusione delle parole, non fosse
da preferire l’osservazione silenziosa di quel sistema di segni perfettamente
autonomo nella sua grammatica visiva: “Devono davvero essere spiegate le opere
d’arte? Non è forse una caratteristica dell’arte figurativa quella di spiegarsi
da se stessa, cosicché chiunque possa leggerla? Naturalmente, finché si tratta
del contenuto oggettivo, l’esigenza è senz’altro ovvia. Un quadro rappresenta
qualche cosa, un edificio serve ad uno scopo, una macchia ha un significato; e
tutto ciò deve essere spiegato. Ma la forma, della quale qui ci si deve unicamente
occupare, non parla dunque da se stessa? Per comprendere un disegno giapponese,
non occorre che io abbia imparato il giapponese. Una figura medievale dice a
chiunque immediatamente qualche cosa, nonostante i secoli che ci separano da
essa. Una scultura sarà, in generale, sentita come un modo di comunicare molto
più definito che non la parola scritta, che conserva sempre il più alto grado
di plurivalenza. […] Anche ammettendo che le cose stiano così, il vedere è
tuttavia qualcosa che deve essere appreso.”
Wolfflin va al cuore
della figurazione artistica sottolineando la specificità del suo linguaggio: un
linguaggio che parola non è. Lo ribadirà Henri Focillon in un passaggio
icastico come un’aforisma di Vita delle forme: “Il segno
significa, mentre la forma si significa.” Dal canto
suo, Roberto Longhi nutriva fiducia nelle possibilità espressive della parola
messa di fronte al difficile compito di “tradurre” un sistema di segni ad essa
opposto, e, nel 1950, dopo aver sottoposto a verifica il suo stile e
conquistate prove importanti di scrittura, condensò il sugo di questa
esperienza sul campo nel primo articolo di Paragone,
coniando la definizione-sigla di “equivalenza verbale” , una
maniera per circoscrivere un tipo di approccio speciale all’opera figurativa,
che, se continuava a nutrire il solco della tradizione ekphrastica, nel
contempo vi aggiungeva come una nuova declinazione, non dimenticando che ogni
descrizione non è un’isola in sé conchiusa, ma partecipa di un sistema di
relazioni: “L’opera d’arte, dal vaso dell’artigiano greco alla Volta Sistina
è sempre un capolavoro squisitamente “relativo”. L’opera non sta mai sola, è
sempre un rapporto […] È dunque il senso dell’apertura di rapporto che dà
necessità alla risposta critica. Risposta che non involge solo il nesso tra
opera e opere, ma tra opera e mondo, socialità, economia, religione, politica e
quant’altro occorra. .. Tutto perciò si può cercare nell’opera purché sia
l’opera ad avvertirci che bisogna ancora trovarlo, perché ancora qualcosa manca
al suo pieno intendimento“.
Questa fondamentale lezione di Longhi
lavorerà, come un lievito fecondo, nella ricerca e stesura dei saggi di maggior
impegno di Briganti. E Briganti stesso si trovò ad affrontare il problema di
‘come’ scrivere di pittura. Anch’egli non fu indenne da quella violenta e
struggente lotta tra immagine e parola sulla quale si articola la linea degli
scrittori d’arte del Novecento di scuola longhiana; una linea dove gli stili
prosastici dei singoli storici dell’arte finiscono per costituire una koiné di
appartenenza, un’aria di famiglia e, nel contempo, una varietà di registri
espressivi che, a tutti gli effetti, per qualità e tenuta, possiamo rubricare
tra le fila dei testi di storia della letteratura italiana del Novecento.
Nell’orbita longhiana prenderà corpo una vera e propria “maniera” della critica
d’arte italiana, la cui vicenda può esser seguita e ricostruita nel vario
dipanarsi degli stili di scrittura degli allievi di Longhi e, successivamente,
di Arcangeli.
Scrivere l’opera d’arte figurativa malgrado la sua
irraggiungibilità e inafferrabilità verbale, nonostante l’imperfezione
costitutiva di ogni “equivalenza” – ecco la grande battaglia che ogni scrittore
d’arte vive quotidianamente nel suo laboratorio di decifrazione visiva. Una
cadenza malinconica, come di chi scrive per narrare un amore lontano, penetra
anche nella scrittura foucaultiana, di fronte alla descrizione verbale de Las
Meninas: “Ma il rapporto da linguaggio a pittura è un rapporto infinito.
Non che la parola sia imperfetta e, di fronte al visibile, in una carenza che
si sforzerebbe invano di colmare. Essi sono irriducibili l’una all’altra:
vanamente si cercherà di dire ciò che si vede: ciò che si vede non sta mai in
ciò che si dice; altrettanto vanamente si cercherà di far vedere, a mezzo di
immagini, metafore, paragoni, ciò che si sta dicendo: il luogo in cui queste
figure splendono non è quello dispiegato dagli occhi, ma è quello definito
dalla successione della sintassi.”
Giuliano Briganti vive la sua
formazione in questo contesto. La ricerca di una scrittura aderente al testo
figurativo sarà una costante della sua produzione saggistica, alimentata
dalla vicinanza e dalla lezione di Longhi, del quale Briganti fu assistente tra
il 1941 e il 1943. Dobbiamo, però, aspettare lo scritto in memoria di
Federico Zeri, comparso in quell’arioso diario intellettuale che è Affinità,
per sorprendere da vicino, e non senza un senso di commozione, un Briganti che
si interroga sulla questione della scrittura d’arte: ” ‘Bisogna sempre
scusarsi di parlare di pittura’, diceva Paul Valéry. Non era soltanto una
regola d’educazione: posso immaginare molto bene cosa voleva dire, io che sono
quasi cinquant’anni che faccio questo mestiere. Ma Valéry aggiungeva subito che
esistono rilevanti ragioni per non tacerne. Non voglio domandarmi ora quanti
intendano ora il senso di questa ‘rilevanza’ (pochi, direi), ma è certo che
tutte le arti vivono di parole e che ogni opera, qualunque sia il rango in cui
l’ha collocata un malinteso e sempre mutevole concetto di gerarchia o il mio
romantico del genio, qualunque sia la cultura che l’ha espressa, esige una sua
risposta. Parole, dunque, in risposta ad immagini, in risposta a ‘cose’. Non è
forse la prima causa, il primo movente, di ogni opera, il desiderio che se ne
parli? E, se non su questa terra, nel regno dei morti, come avrà pensato
l’artista egiziano che seppelliva le sue nell’oscurità eterna delle tombe? Non
esistono, anzi, le opere solo perché se ne parla? […] In ogni opera
d’arte c’è questo bisogno di parole; questo bisogno che se ne parli anche in
solitario scambio ‘ con una sola anima’, come diceva ancora Valéry. […] E quel
monologo non è che il primo passo, vorrei anzi dire il primo movente di quel
genere letterario che è la critica d’arte, il cui vasto orizzonte spazia da
quel primo e solitario moto d’ammirazione, spesso esprimibile soltanto in
un’esclamazione o in un gesto di possesso […] , al colloquio, alla lezione, al
saggio, al tentativo di armonizzare tutti i discorsi che un’opera ha provocato
in chi vuol leggerla, e quindi al desiderio di metterla in relazione con un
contesto e con altre manifestazioni del lavoro e del vivere umano.“
Se esiste un’opera di Briganti che, più di altre, condensa la
lezione longhiana sul versante della scrittura e raccoglie “tutti i discorsi
che un’opera ha provocato in chi vuol leggerla”, questa è La
maniera italiana del 1961 – al cui titolo fa esplicito
riferimento il titolo di questo scritto, in forma di parafrasi metaforica.
Questo piccolo saggio portò una ventata d’aria nuova nelle stanze chiuse del
dibattito sul “manierismo”. Briganti non camminava per la prima volta su questo
terreno accidentato. I nodi problematici proposti dal ‘manierismo’
costituiscono uno dei fili rossi dell’intera produzione brigantiana, fin dai
suoi primi passi e la loro persistenza mette in luce il suo disporsi come
sistema di vasi comunicanti.
L’incunabolo della riflessione sul ‘manierismo’ va
collocato all’altezza del 1945, anno in cui Briganti dà alle stampe Il
Manierismo e Pellegrino Tibaldi (Roma, Cosmopolita) e va
seguita, negli anni, sulla scia con alcuni articoli su Paragone (ricordo Barocco.
Strana parola, che incrocia, seppur per altre vie, la questione
manierista, e, soprattutto, Una Madonna del Rosso, prova
attribuzionistica del 1953). Questo decennio di scritti sul manierismo funge da
collaudo e da cartone preparatorio per quello che sarà il saggio più organico e
compiuto del 1961, La maniera italiana. Letti congiuntamente, questi
scritti sul ‘manierismo’ formano un nucleo compatto e presentano un fitto e
coerente sistema di rimandi. Sia nello scritto su Pellegrino Tebaldi, che nelle
pagine de La maniera italiana, Briganti principia con un moto
di fastidio verso quelle definizioni vaghe e imprecise che tracciavano del
manierismo un profilo vago se non marcatamente negativo.
Confrontiamo i due
attacchi: “Molto si è scritto e discusso in questi ultimi anni intorno al
Manierismo e, a ben considerare, il risultato di quel molto scrivere e
discutere mi pare, in complesso, negativo. Dopo essere stato rivestito di
tanti significati diversi e costretto nei più vari sistemi, il concetto di
Manierismo s’è ridotto ora a qualcosa di molto elastico, di addirittura
informe. […] Dai molti lambicchi dell’estrazione sono usciti faticosamente
pochi astrusi simboli, qualche sterile polemica e numerose definizioni rimaste
senz’eco , così che a tutt’oggi si deve ammettere che Manierismo è una di
quelle parole che hanno perso il loro significato orginario , del quale solo
testimonio è l’etimo, per acquistarne uno di uso comune: parola di comodo,
dunque, e di facile circolazione.”
Ancora nel 1961, ben sedici anni
dopo: “Sempre
meno accade di dar credito alle definizioni generali e molti ‘ismi’ hanno
mostrato di vivere soltanto in astrazioni, tuttavia si ha la precisa coscienza
che il manierismo qualcosa fu, e qualcosa di grande, che esistette una ricerca,
un sentimento, una temperatura comune fin dagli inizi di quel periodo.”
Il punto di forza di questo saggio di Briganti – ma, forse, sarebbe più
corretto estenderlo ai modi generali dell’architettura dei suoi saggi – è il
perfetto equilibrio tra slarghi storici sull’epoca, introdotti da incipit
narrativi le cui campiture di largo e cadenzato respiro preparano il fondale
sul quale si muoveranno gli artisti del tempo, e quelle zone di altissima
intensità descrittiva, simili a vere e proprie isole ekphrastiche, nelle quali
Briganti, pur mantenendo tutto in relazione, fa emergere la sua ricerca
stilistica di prosatore d’arte.
Prendiamo, a campione, l’attacco lento e
solenne che segue alla ricognizione della storiografia precedente sul
“manierismo”: “Le cose d’Italia volgevano al peggio e mutavano rapidamente le
condizioni degli italiani mentre tramontava il sogno di dominio carezzato dallo
Stato pontificio che andava utilizzando ai propri fini le illusioni di un
rinnovamento dell’antico splendore romano. Sempre meno la realtà del potere
corrispondeva all’ambizione di grandezza e nell’animo degli italiani che più
direttamente erano coinvolti nei progetti ambiziosi di adornamento della curia
e delle varie corti, voglio dire negli artisti, veniva meno il sentimento di
equilibrio e di sereno dominio delle circostanze, frustrato dalle quotidiane
esperienza della vita, dalla contraddizione palese tra l’astratta costruzione
di un mondo ideale e una diversa realtà“.
Lo stile è qui quello
della saggistica storica tout court che procede a
volo d’uccello sull’epoca e sulle sue dinamiche, incrociando fatti politici e
sociali, o costanti dell’immaginario; Briganti – che ne La
maniera italiana affermerà di voler porre in “relazione
fatti della storia e fatti dell’arte” – non abbandona mai
questo sguardo d’insieme e dissemina i suoi saggi di veri e propri affreschi
del periodo storico in atto, e dai quali, per lente volùte, l’occhio di falco
dello storico dell’arte stringe, via via, sulle personalità degli artisti, come
in questo passo: “Non v’è dubbio tuttavia che l’aria di catastrofe che pesava
sull’Italia per il venir meno di ogni durevole stabilità costituisse una sorta
di sfondo continuo alle nuove tendenze dell’arte, a cominciare ad un dipresso
dal secondo decennio del Cinquecento, e possa darci in qualche modo una ragione
almeno dell’inquietudine spirituale che la caratterizzano e della difficoltosa
unità del mondo che riflettono.E’ infatti in questi anni difficili e inquieti
che nasce e si configura, ad opera di artisti diversi legati d un impulso
comune e da comuni convinzioni, quella lucida e inquietante astrattezza ,
quella parata di invenzioni, di acutezze, di bizzarrie, quella straordinaria
vicenda di umori balzani, lunatici, introversi, che nel loro insieme danno vita
ad un episodio primario dell’arte italiana che da anni ormai si viene indicando
col termine di manierismo.” Il passo da brani di questa tenuta alle
vere e proprie ékphrasis è breve. Briganti introduce gli
artisti del manierismo passando da una registro ‘da storico’ ad una scrittura
ad alto tasso di letterarietà, dove l’uso di un’aggettivazione dai forti
chiaroscuri, il ricorso all’enumerazione e ad una tensione metaforica diventano
spie stilistiche che preludono alle zone più intensamente descrittive.
Briganti conquista nel tempo
la sua personale capacità di traduzione del visivo in verbale. Quella “maniera”
della critica d’arte italiana, di matrice longhiana, formerà la base della sua
prosa; ma, come i più grandi allievi di Longhi (pensiamo a Francesco
Arcangeli), Briganti trova la sua misura, il suo ritmo, la sua appartenenza a
quella terra di confine che è il dialogo tra arti figurative e letteratura in
totale autonomia rispetto all’egemonia del maestro. Le tappe di formazione
della scrittura brigantiana costituiscono un capitolo a sé e meriterebbero di
essere seguite passo passo, a partire dai saggi d’esordio e poste in relazione
con il sostrato della scrittura d’arte del tempo; ma, ai fini di questa
riflessione sullo stile di scrittura de La maniera italiana, possiamo
accontentarci di gettare uno sguardo comparativo allo scritto del 1953, Una
Madonna del Rosso, due pagine agguerrite di stringente
attribuzione.
Leggiamo come Briganti restituisce a parole questa Madonna senza
autore: “Credo
che di quei due anni poco noti di chiusa ricerca, gremiti certo di idee spinose
ed acerbe, possa dirci qualcosa questa ambigua Madonna-fanciulla, perpendicolarmente
calata in una rigorosa serpentina, creatura di un intelletto
disperatamente teso alla costruzione di complesse sigle formali ma toccato
dalla grazia arcana di una sconcertante fantasia. Immagino cosa avrebbe
scritto Huysmans sul sorriso inafferrabile di questa Madonna, sulla grazia
provocante, sottilmente perversa del fanciullo. […] A considerarla nei termini
più concreti della storia del Rosso, questa ‘imago obliqua’ , ove la frontalità
sembra annullata dall’ossessiva conquista in profondità dello spazio, questa
sottilissima apparizione prospettica di due figure che si sovrappongono lungo
un’unica linea che divide longitudinalmente la tavola per tutta la sua
lunghezza, emergendo con la profilata maestà di una nave vista da prua.”
Questa intensità metaforica, che fa ricorso ad immagini-metafora di grande
intensità poetica (è il caso della “profilata maestà di una nave vista da prua“),
sarà cifra costante della prosa brigantiana, che, ancora in queste brevi
pagine, trova lo spazio per una folgorante resa della Deposizione di
Rosso, la quale – scrive – spicca “nell’interiore contrasto fra l’improvvisa,
acerba freschezza del colore e le sagome tormentate e scarnite, quasi un
giovane, vivido involucro che rivesta una forma angolosa e consunta.”
Il gusto per la coppia di aggettivi, il ricorso al respiro lungo degli
avverbi, l’alternarsi di metafore e similitudini, la resa precisa dei colori,
sono alcune delle costanti delle ékphraseis di Briganti.
Nel disegno complessivo di un saggio sulle arti figurative, le ékphraseis creano
una curva ascendente, un crescendo, una sorta di clou del
discorso argomentativo che potenzia, in senso espressivo, la sua densità
stilistica ricorrendo a strumenti retorici propri della letteratura,
quest’ultima intesa – scrive Mengaldo – come “sfruttamento ‘poetico’ delle
risorse della lingua”. Questa cassetta degli attrezzi, secondo quanto ci
descrive Mengaldo (in Tra due linguaggi. Arti figurative e
critica) comprende l’uso di similitudini e metafore; coppie o terne
di aggettivi, spesso accostate con effetto insolito e prezioso oppure
divaricante e ossimorico, tese sempre a “definire in modo più sfumato e insieme
preciso, più screziato e nuovo un dettaglio, connotandone nello stesso tempo la
risonanza nel riguardante”; frasi nominali, brevi o brevissime; accenni di
prosa con cadenze e modulazioni da prosodia poetica; e, soprattutto, le “figure
stilistiche regine dell’ékphrasis“: l’elencazione/accumulazione e
l’analogia. Attraverso questi due dispositivi retorici, lo scrittore d’arte
narra l’immagine; ci restituisce lo scorrere dell’occhio sull’opera, il suo
movimento percettivo palmo a palmo. In questo processo, la punteggiatura stessa
diventa l’equivalente di un solfeggio verbale delle singole registrazioni
visive: ogni virgola, ogni punto, ogni inciso tra parentesi, crea un ordito che
pone al riparo dal rischio della semplice frantumazione impressionistica; e in
questo telaio gli elementi della traduzione per verba si
cristallizzano nei loro momenti più alti, evitando la dispersione caotica per
affermare il loro valore interpretante. La sottile
analisi morfologica di Mengaldo ci aiuta a spingerci più addentro ad alcune
punte di diamante della “maniera” della critica italiana ed è attraverso i suoi
elementi costitutivi che possiamo apprezzare la specificità del dettato di
Briganti.
La maniera italiana è riccamente pervasa da mirabili descrizioni di opere
manieriste, introdotte gradualmente da fascinosi elenchi snodati ora su episodi
e stranezze biografiche; ora su aggrondate atmosfere psichiche e tic
malinconici; ora su bizzarre figure ritratte. Così, senza quasi averne
coscienza, presi nelle spirali dell’enumerazione, tra nomi di artisti e
mobilissime geografie, ci ritroviamo calati nell’immaginario dei pittori
manieristi: “E va da sé che stranezze maggiori , per non dire altro, le
sottintende il loro mondo figurativo di ambigui adolescenti, fanciulle
androgine, vecchi demoniaci e spiritati che nei promiscui atteggiamenti
rivelano un erotismo quanto più represso tanto più esasperato.” Passando
per le vicende di Leonardo e Michelangelo, ci avviciniamo alle parti
ékphrastiche del saggio. Un primo assaggio è la rapidissima descrizione
congiunta delle opere giovanili di Rosso e Pontormo: “Una foga
improvvisa, popolare e quasi grottesca, articola la folta schiera degli
apostoli, che precludono come un muro incombente l’orizzonte,
nell’Assunzione del Rosso; uno spirito acuto e irrequieto, una guizzante
fiammella di bizzaria, traluce dagli occhi pungenti dei personaggi che
circondano il gruppo della Visitazione del Pontormo.” In poche
righe, troviamo raccolti tutti gli elementi primari dell’ékhprasis,
come la terna di aggettivi (improvvisa, popolare, grottesca)
; la similitudine (come un muro incombente) e la cadenza da prosa
poetica (una
guizzante fiammella di bizzarria/ traluce/ dagli occhi pungenti/ dei personaggi).
Proprio alle Deposizioni di Rosso e Pontormo sono dedicate
alcune delle pagine più alte de La maniera italiana. Le
descrizioni delle due pale d’altare mostrano la scrittura brigantiana al suo
grado più intenso di letterarietà e confermano definitivamente, pur
nell’ originalità di risultati,la sua appartenenza alla “maniera” della
scrittura d’arte italiana, e non solo longhiana. Vale, quindi,la pena
leggerle per intero, a partire da: “quella sconcertante formidabile Deposizione”
del Pontormo in Santa Trinita a Firenze: “Non so qual richiamo non dico allo spirito
della Riforma ma ad ogni sorta di sentimento religioso possa recuperarsi in un
siffatto dipinto che rivela piuttosto come un doloroso languore per forme di
un’estenuata bellezza in quel lento annodarsi di corpi che scivolano
insensibilmente sulla spirale della prospettiva nella rarefatta atmosfera
contro il cielo di pietra dura. I volti attoniti, sofferenti, in apparenza commento
tradizionale del dramma sacro della Deposizione, esprimono una tristezza così
disperata e languente che non può dirsi certo cristiano dolore: una tonalità
sottile e nuovissima di sentimento, così come nuova e sottile è la tonalità dei
colori chiarissimi e acerbi, colori d’erba spremuta e di succhi di fiori
primaverili; pervinche, rose, violette, giallo di polline, verde di chiari
steli.” Non meno vertiginosa per invenzione metaforica e analogica
è la restituzione delle forme e della tavolozza di Rosso: “Ma il
passo definitivo verso l’indipendenza più rischiosa ed estrema […] il Rosso lo
compie nel ’21, quando dipinge la grande Deposizione per Volterra, senza dubbio
il suo capolavoro. […] Difatti il metodo di Andrea del Sarto che col
chiaroscuro ‘gradina’ la forma nel progressivo e razionale sfaccettarsi
dei piani è ora condotto dal Rosso a una sorta di violentazione cubista, ad una
ossessione di angoli, di spigoli, di scheggiature che riducono le figure a
sigle essenziali, a disumane parvenze cristalline rivestendole tuttavia
di colori allegri e acerbi , accesi riflessi di rubini, di topazi, di smeraldi
sotto un cielo levigato e pesante come un incubo di ardesia azzurra.”
Lo si sente ripetere spesso:
questo libro l’avrei voluto scrivere io. Diciamocelo pure: quale lettore non
coltiva in silenzio, davanti a se stesso, questa velleità? Inizia e finisce
sempre così: a un certo punto si stilano liste ascetiche come il diario di un
anacoreta; tre, quattro titoli al massimo, tenuti a distanza sulla scrivania, immersi
per metà nell’ombra, venerati, temuti e adorati come idoli. Ognuno ha i suoi. A
me è capitato studiando l’opera di Longhi e Francesco Arcangeli, di
Giuliano Briganti e di Carlo Ludovico Ragghianti. Certo, non avrei mai scritto
quel centinaio di pagine folgoranti su Morandi né l’ariosa monografia dedicata
al calibrato e pausato vedutismo di Gaspar Van Wittel; né l’esuberante affresco
a volo di falco sull’opera di Pietro da Cortona; e, forse, nemmeno il saggio
sull’inconscio notturno dei cosiddetti “pittori dell’immaginario“,
questo territorio lampeggiante di indicibile fascino. Né avrei mai scritto quel
manipolo di incredibili pensieri visivi su Tono Zancanaro. Di Briganti,
però, avrei voluto scrivere queste sessanta pagine del 1961 sul manierismo. Queste sì.
E ogni volta che, come in questo articolo, ne ripercorro palmo a palmo il
piccolo spazio, in ogni punto del testo io mi trovi vorrei che fosse la mia
penna ad aver disegnato quei giri di frasi nati per essere, da subito,
diamanti. Vorrei che l’abilità di saperle raccogliere in unità e in sfumature
linguistiche sempre più sottili e profonde fosse la mia. E vorrei anch’io saper
sospingere una materia così complessa verso calibrati giudizi sull’epoca
storica e sulle personalità, senza gli ingolfi vuoti della retorica,
sbrigliando il dettato in righe e righe condotte senza inciampi di
punteggiatura. Ma non avrei voluto scrivere La
maniera italiana solo per il metodo e la prosa. Quelle
sessanta pagine le avrei scritte così, e in nessun altro modo, solo per far
“parlare” la “lingua” delle opere come riesce a fare Briganti: senza
allontanarsi di un millimetro dal loro centro; dritto al loro cuore geometrico
con la finezza e l’acutezza di sguardo di un maestro orologiaio, il quale sa
sempre, in ogni punto egli si trovi, dove mettere le mani.
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