Nella storia del romanzo poliziesco la Grande Svolta avviene a ridosso degli anni Trenta, grazie alle opere di Georges Simenon che riescono a compiere una duplice operazione: riscattare il romanzo poliziesco dalle critiche, tanto facili quanto diffuse, di imbecillità stilistica ed emanciparlo dalla fama di essere una letteratura dai contenuti solo violenti e volgari. Il lascito più importante del torrentizio letterato francese è stato, infatti, quello di essere riuscito a far leggere il poliziesco anche a quel pubblico colto che si era sempre vantato di non aver mai letto una pagina di letteratura ”di genere” e di opere “paraletterarie”.
Georges Simenon (Liegi, 1903 – Losanna, 1989) è stato uno scrittore destinato a influenzare il romanzo poliziesco per oltre mezzo secolo e a esercitare sulla sua trasformazione un peso pari, se non maggiore, a quello dello scozzese Arthur Conan Doyle (1859-1930), il “babbo” di Sherlock Holmes e del dottor Watson suo aiutante e cronista, e dello statunitense Dashiell Hammet (1894-1961), creatore dell’investigatore Sam Spade, in pagine ammirate dai contemporanei, non ultimo da Ernest Hemingway, per una scrittura diretta e incisiva. Anche Simenon è un “forzato della penna” - come i grandi scrittori d’appendice, Balzac, Zola e, si parva licet, Maurice Leblanc e la coppia Allain-Souvestre rispettivamente inventori di Arsenio Lupin e Fantomas – ed è autore di non meno di cinquecento romanzi, solo settantasei dei quali - insieme a ventotto racconti - appartenenti alla serie di Maigret. Oggi, comunque, il letterato belga è conosciuto universalmente e quasi esclusivamente per essere il creatore del celeberrimo commissario parigino della Prima Brigata Mobile, uno dei più noti personaggi della narrativa cosiddetta “gialla”.
Gran parte del fascino, ancora attuale, di Maigret non risiede solo nella malinconia di cui è intriso il personaggio, ma soprattutto per il suo metodo d’indagine: quel suo calarsi nell’atmosfera del delitto, quel sapersi immedesimare nei pensieri e nei sentimenti della vittima e del colpevole anche quando quest’ultimo non ha ancora un’identità, fin quasi ad appropriarsene in virtù di uno specialissimo rapporto empatico che il commissario parigino riesce a stabilire sempre, tra lui, imperterrito cacciatore della verità, e la sua preda, l’autore del crimine.
Simenon si fa apprezzare più nel definire le ambientazioni che nello strutturare le trame. I suoi interni provinciali e piccolo borghesi, le sue atmosfere familiari, i suoi bozzetti di vita urbana e rurale, sempre improntati a un grigio e pacato naturalismo, tendono a persistere nella memoria più a lungo di tante cervellotiche architetture delittuose. “Io non penso mai”, dice talvolta Maigret; “Io non tiro conclusioni”; o anche “Io non ho idee”. Talvolta la consegna del colpevole alla giustizia è del tutto secondaria e Maigret sembra rassegnarsi al ruolo di poliziotto proprio perché non può proprio farne a meno. Dalle prime inchieste Pietr Le Letton, 1929, L’affaire Saint-Fiacre, 1932, Le testament Donadieu, 1937, Maigret è rimasto immutato come la sua Parigi, anche se nel corso dei decenni il personaggio si è fatto più maturo e amaro: la miseria morale lo turba nel profondo come un elemento che mortifica la dignità dell’uomo e ne accentua un sentimento di solitudine esistenziale di fronte all’ennesima vicenda che gli ripropone, ancora una volta e una volta di più, il tema della tossica invincibilità del male.