di Ilaria Sabbatini
(adattamento dell’articolo Hajj, il grande viaggio: da Marsiglia alla Mecca nel cuore dell’Islam, in «La porta d’oriente », anno 1, numero 3, pp. 139-145)
Primo lungometraggio del regista marocchino Ismaël Ferroukhi Le grand voyage è un percorso filmico per panorami in movimento, un diario visivo che racconta il pellegrinaggio islamico del hajj ponendosi a fianco dei protagonisti. Film pluripremiato, nonostante i riconoscimenti rimane un lavoro poco noto che varrebbe la pena sdoganare dall’etichetta di intellettualismo perché racconta l’antinomia dell’immigrazione tra recupero d’identità e necessità d’integrazione ma alla fine restituisce la questione della differenza culturale ad una dimensione universale e condivisa.
Il taglio inequivocabilmente documentaristico, rappresenta il primo tentativo di riprendere dal vero il grande pellegrinaggio alla Mecca. Perché di questo si tratta: del quinto pilastro dell’Islam che spicca tra i grandi riti islamici per i valori culturali e sociali di cui è portatore.
Viaggio alla Mecca è la stiracchiata traduzione italiana di Le grand voyage, titolo originale che non solo rende giustizia all’ampio respiro del film ma sopratutto rispetta la precisione del riferimento cultuale. Ferroukhi usa l’evento come una sorta di aleph borghesiano per osservare e raccontare il mondo religioso islamico. Non si tratta, infatti, di un pellegrinaggio tout court come si tende a semplificare parificandolo ai riti del mondo occidentale cristianizzato, ma del hajj, il grande pellegrinaggio che si compie solo nel mese di Dhū ’l-hijja in contrapposizione alla ‘umra, la visita, il piccolo pellegrinaggio.
La storia non è solo quella di un road movie di gusto mediorientale, come molte recensioni anche autorevoli hanno semplificato. Tutto è, questo film, tranne che un road movie perchè ogni evento si può leggere nella prospettiva della trascendenza: c’è una differenza sostanziale tra viaggio e pellegrinaggio, che dipende non solo dal fine ma anche dalla semantica stessa dell’andare.