di Gianni Quilici
Assolutamente da leggere per chi ama parole che, senza parere, ti entrano dentro.
Canto alla durata è infatti un libro inconsueto, che avviluppa in sé prosa-filosofia-poesia in una comunicazione che in ultima analisi è “poetica”.
Della prosa ha la colloquialità che non cerca la misura del verso in tutte le sue innumerevoli peculiarità, ma la trova semmai nella intensità e visionarietà della sua scansione.
Della filosofia ha la ricerca della definizione di ciò che si possa denominare “durata”, quel tempo unico su cui Peter Handke si arrovella per tutto il testo.
Della poesia c'è, innanzitutto, l'intenzione, dichiarata, da subito, dall' autore stesso, all'inizio del “canto”.
Scrive, infatti, Peter Handke:
“E' da tempo che voglio scrivere qualcosa sulla durata,
non un saggio, non un testo teatrale, non una storia -
la durata induce alla poesia.
Voglio interrogarmi con un canto,
voglio ricordare con un canto,
dire e affidare a un canto
cos'è la durata.”
Così leggendo ho pensato in un primo momento che lo scrittore austriaco cercasse la poesia attraverso la definizione di ciò che è la durata, che interpretasse senza rappresentare, che ne sortisse, quindi, un canto concettuale. Non è così. Ben presto si comprende che Handke per comunicare la poesia della durata ha l'esigenza di ragionare e insieme di raccontare, di far vedere, di far percepire “attimi” “situazioni” “luoghi” in cui l'istante della durata si compie.
Tre esempi.
Il primo è una sorta di dichiarazione d'amore per la durata, che si potrebbe definire con un bisticcio di parole dichiarazione d'amore per la ricerca dell'amore.
“E io,
affinchè da me nascano i momenti della durata
e diano espressione al mio volto rigido
e mettano nel mio petto vuoto un cuore
devo assolutamente esercitare
un anno dopo l'altro
il mio amore.
Restando fedele
a ciò che mi è caro e che è la cosa più importante,
impedendo in tal maniera che si cancelli con gli anni,
sentirò poi forse
del tutto inatteso
il brivido della durata
e ogni volta per gesti di poco conto
nel chiudere con cautela la porta,
nello sbucciare con cura una mela,
nel varcare con attenzione la soglia,
nel chinarmi a raccogliere un filo.
Come si legge, qui c'è un tempo, un atto, un io e un contesto: grande, ma più spesso minimo.
Ma il punto di partenza è l'io. E' l'io che vede, percepisce, sente, tocca, agisce, scolpisce...
Per questo Handke sottolinea la parola “esercitare”.
L'esercizio dell'amore, che, attraverso sé, entra in intimo contatto con “altro”: un suono, una musica, un movimento, un oggetto, una persona, una contemplazione.
Il secondo esempio, qui soltanto accennato, è il luogo della durata.
“Mi sono educato
ad attendere la durata
senza la fatica del pellegrinare.
Eppure il semplice starsene a casa non basta;
io devo andare incontro alla durata.
Andare incontro a ciò che mi è caro
o dirigermi in quel senso
mi dà fiato(...)”
Il terzo esempio è una delle visioni di una “durata”.
“Nel silenzio di questi laghi
so cosa faccio
e sapendo cosa faccio
so chi sono.
Sto sulle loro rive
con occhi e orecchi aperti
e lascio che cali la sera.
Vari sono i rumori degli uccelli acquatici
grazie ai quali il silenzio diventa più vasto.
Io imparo dal silenzio”
La durata è la sensazione di vivere, l'essere presenti con il cuore e la coscienza, sentire se stessi immersi in.
Peter Handke è uno degli scrittori del secondo '900, che più ha prestato attenzione, in modo spesso ossessivo, al minuscolo, col rischio talvolta di rimanere troppo dentro quei dettagli, di risultare solipsistico, poco comunicativo.
In questo caso fa del dettaglio (la durata) una poetica e la comunica nel suo processo: sia riflettendoci che rappresentandola.
Ha ragione nella post-fazione Hans Kitzmuller quando scrive: “Passato sinora inosservato, quasi come un testo minore di Peter Handke, questo Canto alla durata si rivela invece, a una lettura più attenta, una delle riflessioni centrali di un grande autore”.
Peter Handke. Canto alla durata (Gedicht an die Dauer). Traduzione e postfazione di Hans Kitzmuller. Einaudi. Pag. 61.