08 giugno 2011

"Il branco" di Andrea Carraro

di Gianni Quilici

L'inizio: un gruppo di ragazzi della periferia romana, aggressivi e sbandati, ammazza le giornate al bar tra partite di flipper e di biliardo. Un giorno due di loro caricano in macchina due ragazze tedesche che fanno l'autostop, con la complicità dello sfasciacarrozze, le conducono in una baracca dove le violentano...

Leggo “Il branco” e mi colpisce da subito la forza che emana.
Stranamente penso dapprima a Fenoglio (forse per l'intensità), poi naturalmente a Pasolini (per il sottoproletariato romano e l'utilizzo del dialetto) ed anche a Verga (per ragioni stilistiche).

Leggo a fatica, è doloroso continuare di fronte allo scenario che pagina dopo pagina si lascia presagire e a cui immaginativamente non desidero partecipare: lo scenario di uno stupro, ispirato, come è noto, da un fatto realmente accaduto, diventato poi film omonimo di Marco Risi.

Capisco però che Andrea Carraro non ha alcun compiacimento, anzi sento un forte senso di moralità nel rappresentare quel mondo così come è, nei fatti e oltre di essi.

La chiave del romanzo è innanzitutto Raniero, che non soltanto vede, partecipa, ma anche sente, pensa, ragiona, cercando, a volte, di oltrepassare, senza riuscirci, quell'universo, quell'ambiente.
Raniero, con una famiglia (un padre magistralmente descritto nella sua autorità priva di ragione, una madre succube), senza lavoro, avendolo egli lasciato, perché lo riduceva stanco morto, con la schiena a pezzi e la polvere di travertino nei polmoni, con una ragazzina con la quale ha un tenero rapporto. Raniero, che soprattutto vive la ricerca spasmodica dell'identità, nel confronto-scontro con il branco dei coetanei con cui si vede al bar, va a ballare...

Il “branco” è l'altro fondamentale protagonista del romanzo. Come in ogni branco che si rispetti c'è un capo con una serie di gerarchie sulla base dell'età, del carattere specifico, delle alleanze fluttuanti, ci sono dei codici a cui doversi conformare. Innanzitutto il bisogno di essere considerati “maschi” con la donna come preda e valore della propria mascolinità, in una perenne conflittualità per affermarsi nelle dinamiche contro l'amico-nemico e inversamente per non essere calpestati, derisi.

Su questo materiale bruciante e difficile Carraro segue due direttrici,che continuamente si incontrano e si scontrano.

Per un verso si fa voce collettiva, diventa, cioè, quei personaggi, quelle psicologie brutali e irrisorie, spietate e esaltate, minacciose e schiamazzanti. La sequenza dello stupro finale -visto a distanza dagli occhi di Raniero- è una scena infernale del più desolante e atroce spettacolo: la gente del paese, adulti e anche notabili, accorsa al richiamo dei ragazzi, che va e viene, chiacchiera e ride nel chiarore rarefatto dei fari delle macchine, mentre nella baracca la tragedia delle due ragazze picchiate, umiliate, violentate con la faccia stravolta dal terrore “ma anche con una febbrile volontà di resistere fino allo stremo delle forze”, sta raggiungendo il punto di non ritorno.

Per un altro verso questi fatti sono filtrati da uno sguardo-pensiero fluttuante e contraddittorio di Raniero che è, suo malgrado, complice e nauseato, confuso e dolente, che desidera-vagheggia un'altra esistenza, ma che non ha esperienze, strumenti, parole, forza per opporsi, per fare scelte diverse. E', più di ogni altro, una vittima, la vittima, che, come spesso succede, paga e pagherà più di tutti.

Ho ri-sfogliato due libri. Il primo, “Cento romanzi italiani (1901-1995)”, curato da Arnoldo Colasanti, il secondo, “Costellazioni italiane 1945-1999, in cui tre (giovani) critici, Massimo Onofri, Emanuele Trevi, Silvio Perrella scelgono ognuno 50 libri della seconda metà del 900. Nessuno segnala questo romanzo. Non ho alcuna autorità, sono lettore senza regole. Tuttavia mi sorprende.

Andrea Carraro. Il branco. Alberto Gaffi Editore, 2005. Euro 7,00.



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