13 aprile 2012

"Perché la poesia di Letizia Pantani deve continuare a vivere" di Gianni Quilici



Letizia Pantani. Per me è prima di tutto un volto, un corpo. Se la penso la vedo. Se la vedo è dolore. Il dolore della sua irrimediabile assenza nel tempo di massimo transito: gioiva e soffriva, si esprimeva e si interrogava, progettava.

Ecco, ci sono in queste parole: “assenza” “irrimediabile” “ transito” ciò che non ho accettato inevitabilmente accettandola: la morte. La morte può essere naturale e perfino desiderabile. La morte di Letizia non lo è stata. Non solo per i suoi 32 anni e per la sua vita in perenne movimento, ma per “qualcosa” di più profondo: la sua poesia.

Molti l'hanno conosciuta nei movimenti, nelle piazze, nelle sedi in cui c'erano di mezzo diritti, libertà ed anche festa. La Letizia appassionata, combattiva, testarda, dialettica, generosa, giocherellona. Ma c'era una Letizia più intima, fragile, preziosa, sconosciuta. La sua poesia ce la fa conoscere e ri-conoscere.

Le e.mail come laboratorio poetico

Leggo, ri-leggo le e.mail di Letizia.

Mi colpiscono innanzitutto lo stile, essenziale, e il suo respiro.

Oggi la tecnologia perennemente in divenire abitua, senza che neppure lo avvertiamo, ad essere veloci, a consumare nevroticamente, a tenere spesso corrispondenze sciatte e superficiali, perché facili, frettolose.

Non così è per Letizia. Le sue e.mail comunicano quasi sempre delle “necessità”, che nella loro essenzialità hanno il respiro proprio della poesia.

Provo a risponderti senza troppa punteggiatura/ come piace a me” scrive, infatti, acutamente “ma andando a capo/ come a dire/ riprendi fiato metti un respiro nel pensiero/ poi seguimi ancora).

Osservazione: la prosa è vicina alla poesia, perché cerca di cogliere nella comunicazione l'essenziale e a questo dà una scansione, una musicalità.

E dialoga. Le (sue) e.mail hanno un interlocutore preciso con cui si confronta, confida, ma appunto per questo il suo interlocutore diventa in ultima analisi qualsiasi lettore, una volta che ci sentiamo presi nel giro di questo dialogo.

Sopratutto le (sue) e.mail sono una sorta di laboratorio, in cui presenta, riflette e critica le sue poesie senza alcun compiacimento, anzi con molti punti interrogativi.

Le autocritiche sono sottili e forse ingenerose, come succede quando una poetessa ancora insicura di essere tale, riflette sulla sua poesia, che è anche inevitabilmente lo specchio che la riflette.

Letizia è comunque una intellettuale, perché ha uno spiccato senso critico, forse da lei stessa sottovalutato. Si legga come riesca a sintetizzare efficacemente, a mio parere almeno, il film di Paolo Sorrentino L'amico di famiglia: “ ... denso, oleoso, ombroso ricco di contrasti,barocco nel disegnare ambienti e personaggi e lineare ...”. Oppure come colga nella pellicola di Ermanno Olmi Centochiodi la forza evocativa delle immagini del fiume in un film però “...manicheo nella sua tesi natura/cultura come tesi contrapposte e inconciliabili”.

Certamente la poesia è il linguaggio che essa sente più affine e maturo per lei; tuttavia lo strumento linguistico che Letizia sembra privilegiare è la contaminazione multimediale. Immagina, infatti, continuamente fusioni con altri strumenti: la fotografia, il disegno, la mostra, il teatro, il video.

Le (sue) poesie non sono sentite ne' come autosufficienti, ne' isolate dal resto. Vive in Letizia una fortissima tensione a progettare. Progettare per contaminare, interagire, collaborare, corrispondere. Perché al fondo non solo estetico, ma esistenziale di Letizia c'è il desiderio del gruppo, dell'ambiente, della fusione. Il gruppo che respira una medesima affinità, che crea, si sviluppa, trasforma.

La poesia

La poesia di Letizia è qualcosa di più del suo laboratorio. Più pensato, elaborato, metaforico, misterioso.

Letizia aveva disposto le sue poesie in due raccolte separate: “At/tese” ed “Esilio”, nonostante che le avesse scritte in rapida successione. Forse perché, come suggeriscono i titoli, in At/tese c'è la nebbia, ma anche l'orizzonte, la speranza; mentre in Esilio speranza si attenua.

Nebbia”, sorta di poesia in prosa, come già accennato precedentemente, è una tentazione presente nelle corde di Letizia. Quella di trovare nelle parole quell'equilibrio sottile tra prosa e poesia. Lasciare, cioè, che il discorso si dipani, senza costringerlo dentro gli imperativi del verso per poi scivolare senza forzature, verso quel senso, che si fa più vicino, intimo, poesia appunto.

Ma è possibile raccogliere in una tematica la poesia di Letizia? No, perché essa rappresenta il flusso dell'esistenza nella sua mutevolezza ed articolazione. E' una poesia che si potrebbe definire, in modo generico, dialettica e complessa. Nella forma e nei contenuti.

E' dialettica, perché vive di opposti: rivolta-regressione, illuminazione-oscurità, amore-solitudine, felicità-angoscia, storia-natura.

C'è la sfida verso le norme e le convenzioni, ma anche il desiderio di rinchiudersi nel guscio a cercare carezze e calore. Ci sono ricordi d'amore che esplodono come tempeste destrutturando anima e corpo. C'è una vita da carcerati sotto occhi cattivi ed una vita da carcerieri pronti a far male. Ci sono intese che diventano illuminazioni, ricerca di un nuovo sé, senza però che un orizzonte sia definito. Ci sono alternative apparenti come lampi nel buio e c'è bisogno di reinventarsi ogni mattina.


E' una poesia complessa nella fusione tra contenuti e forma. Letizia, nonostante che la sua pratica poetica fosse recente, dimostra, infatti, una notevole maturità espressiva di linguaggio.

Prendiamo una delle poesie più belle, “Scriptoria”, quella da cui abbiamo tratto anche il verso che dà il titolo a questo libro .

Sei la mano che cura

la ferita del tempo

e cascata che scroscia

liberando il pensiero

sei fiore che sboccia

sulla nuda scogliera

ed un vento che batte

ripulendo la mente

dall'unto dei giorni


Sei tamburo che rulla

nella viscera nuda

ed il passo di danza

del giullare di corte

sei la mano protesa

nel solstizio del giorno

e ossessione dell'oltre

che ritorna reale

dopo questa commedia

Colpisce ad una prima lettura la musicalità.

E' una poesia da leggere e rileggere a voce alta, da declamare. Scriveva Hans Georg Gadomar (massimo esponente dell'ermeneutica di matrice heideggeriana) “comprendere vuol dire anzitutto soffermarsi lungamente e ripetutamente sul linguaggio, saggiarne, esplorarne le possibilità di senso”. E “Scriptoria”, infatti, è intensa ed insieme musicale. Questo ritmo incalzante è dato dalle anafore (il verbo “sei” ripetuto matematicamente e ossessivamente quattro volte, due per ogni strofa, a cui si collega -dilatandolo- la congiunzione “e”), che danno a “Scriptoria” quella concatenazione musicale, altamente teatrale, che si ritrova in diverse altre poesie, sopratutto nella più disperata e magnifica “Solitudine di un naufrago”.

Colpiscono pure l'uso e la forza delle metafore. E questa poesia ne è piena. E tuttavia, anche senza comprendere fino in fondo il plurisenso delle metafore, la loro estensione simbolica, la poesia funziona lo stesso. Per la forza della parola nel suono ora forte, ora sensuale, ora musicale (cascata che scroscia, fiore che sboccia, sei tamburo che rulla, nella viscera nuda). Per la visionarietà, la dinamicità e la sonorità delle immagini.

C'è infine, sottile, lo spessore dialettico dei contenuti. Da una parte attimi di palpitante amore-protezione-esaltazione; dall'altra in un solo verso, alla fine, come una micidiale

stoccata, l'illusione di tutto quanto (“e ossessione dell'oltre/ che ritorna reale/dopo questa commedia”).

Scriviamolo chiaro: la poesia di Letizia non è, quindi, la solita raccolta, di chi ha qualche buon sentimento da spargere in un ambiente che la conosce e che le vuole bene (le amicizie, i parenti). E' poesia vera e, a volte, grande poesia, che rappresenta una crisi individuale e insieme sociale, con intarsi lessicali e metaforici inusitati e qualche volta suggestivamente enigmatici, con una sonorità e una visionarietà accorate e tambureggianti. Una poesia da non disperdere nell'oceano soffocante di carta di tanti velleitarismi poetici.

Letizia Pantani. Sei tamburo che rulla.


1 commento:

Fabian ha detto...

Sig Quilici, Io mi chiamo Fabian, sono dall'Argentina e ho conosciuto
Letizia mentre abitavo a Firenze negli anni 2000-2003. Stimavo molto
Letizia, era una grande lottatrice
e quando rientrai in Argentina qualche volta li aveva scritto una email. A Maggio, dopo 8 anni saró di nuovo in Italia e mi piacerebbe passare da Lucca per avere il libro di poesie di Letizia. Se questo è possibile e come farlo li lascio la mia email di contatto.
Un saluto, Fabian
carlos.fabian.cerro@hotmail.com