foto di Isabella Eugenia Monti
di Davide Pugnana
Lo studioso Gerard Genette ha educato intere generazioni di studenti universitari e di critici appassionati sulla centralità strategica delle 'soglie' nei testi letterari. In quei dintorni del testo, su quei margini o bordi; nelle pieghe laterali, negli incipit nulla era lasciato al caso: l'autore vi disseminava i primi grimaldelli per l'accesso al testo. Una di queste soglie è il titolo dell'opera. La storia della letteratura si sa è lastricata di titoli memorabili; e la stessa storia dell'arte costruisce le sue periodizzazioni, le sue "età", i suoi affreschi storici, i suoi snodi e cesure innovative di poetica, attraverso titoli; titoli dentro i quali si condensa un'intera epoca o brucia la febbre rivoluzionaria di un nuovo linguaggio.
Ad esempio, quando si intende restituire l'eccezionalità della fioritura neoclassica francese e romana, pittorica e plastica, non si delineano solo estetiche complesse e carriere individuali; ma si dice: sono gli anni del "Giuramento degli Orazi" e del "Monumento funebre di Clemente XIV". Tanto basta. Per questo non si finirà mai di lodare la portata creativa di un buon titolo.
Ed è proprio riandando con la mente alla riflessione genettiana sulle 'soglie' che ho trovato particolarmente significativa la scelta del titolo di alcune sculture in bronzo di Giuseppe Bergomi, attualmente esposte nell'articolata mostra antologica di Pietrasanta, per metà dislocata nella luce diurna e spaziosa di Piazza Duomo e per l'altra negli interni del complesso di S.Agostino.
La scultura alla quale si riferisce questa nota è collocata all'esterno. Il titolo spesso contiene la prima chiave d'accesso, o, meglio il germe concettuale dell'intuizione estetica. E mai titolo fu più eloquente di "Cronografia di un corpo"(2012). Un titolo che strepita e attira il passante. Mi sono chiesto: Perché un titolo così impegnativo e al limite dell'intellettualistico per una scultura figurativa? Perché scomodare una branca della scienza storica, qual è la 'cronografia'? Perché Bergomi ha scelto un termine di matrice scientifica, ben sagomato e rotondo nella sua radice di senso, e non ha inventato uno di quei bei titoli gassosi, orfici e vaghi che incontrano il gusto dell'arte contemporanea?
Cronografia non è parola che, una volta letta, si dimentichi facilmente. Non è una parola disinfettata. E' un lemma che evoca molto più di ciò che significa alla lettera; e Bergomi non è artista da piroette gergali applicate all'arte plastica. Non riuscivo a dargli un senso nel contesto della mostra. Forse, dovevo assecondare il potere evocativo di "Cronografia", l'effetto di straniamento che certo l'autore cercava di ottenere, togliendo questa parola dal suo contesto d'origine (la ricerca storica) e calandola in uno scenario semantico nuovo (il linguaggio plastico).
L'interrogativo fondamentale da cui dovevo partire era un altro. E se l'incidenza della parola risiedesse nell'originalità del passaggio? Che cosa è successo nel passaggio dalla narrazione degli eventi storici alla figura umana? Che cosa ha guadagnato in arricchimento il termine "cronografia"?
Certo, Bergomi si spingeva più a fondo. Cercava di restituire il peso del corpo dentro l'esistenza fluida. Ma per farlo aveva bisogno di ancorarsi ad una parola e sul suo cammino ha trovato "cronografia": voleva che diventasse parola 'implicata'; implicata con la condizione umana in sé. Non gli interessavano le vaste campiture della Storia, la loro ampiezza che talvolta è anche dispersione; né la linearità che assume cronos quando ci sta dietro le spalle, con il suo inesauribile catasto di date, nomi, movimenti da sistemare a mosaico.
Scegliendola per le sue figurazioni, Bergomi ci fa sentire l'inavvertito precipitare del tempo umano, il suo stillicidio sopra i corpi umani: la perfetta materia anatomica che oscilla, si espande, si chiude, si allunga, si erge, si geometrizza; che 'occupa' lo spazio e il tempo della superficie del mondo, con un peso specifico che gli anni spoglieranno o aumenteranno, fino al denudamento assoluto che uno scabro verso di Brodskij definiva 'prestito di polvere'.
E come i corpi, un nudo silenzio orizzontale è la stessa superficie dove Bergomi poggia le sue figure: una lastra-landa senza consolazioni; senza l'oggettualità esuberante del mondo moderno che mette a tacere il nostro horror vacui; senza intrusioni che distoglierebbero la percezione contemplativa dell'umano scorrere nel tempo.
Di che natura è il tempo di Bergomi? Che profilo assume la sua concezione 'cronografica' di questo difficile stato esistenziale? Bergomi scegli una corolla di corpi disponendoli entro una composizione che, in gergo artistico, si definisce "paratattica" (in particolare nella lettura dei basso e altorilievi): si costruisce una sequenza di figure senza che tra esse si sviluppi narrazione, senza fili apparenti né legami; ma mostrandole isolate nel loro attimo irripetibile, nell'assolutezza della loro posa e della loro pienezza plastica. Un tempo paratattico è un tempo fatto di intervalli, di strappi, di feritoie; di pause rotte e singhiozzanti o di silenzi; è tempo della memoria o tempo dell'attesa di Godot. E non importa se le figure della serie scoprono la solita donna o il solito uomo, moltiplicati in pose diverse. Il loro essere-dentro- il-cronos li priva di ogni scorza di civiltà. Quelle di Bergomi non hanno maschere né abiti civili; hanno dimenticato il loro ceto sociale; hanno smarrito la cifra della loro identità, del loro vissuto, persino il loro nome ha poca importanza (rinunciano a offrirsi come ritratti).
Sono corpi immersi nel lavorio inavvertito del tempo, gettati nella vita biologica; sono segni. Corpi-segni. Corpi-alfabetici. Sono "grafie" dentro il "cronos". E in quanto segni, questi corpi di Bergomi si ri-scoprono: gettati, o portati, fuori dal tempo della Civiltà tornano al tempo dell'origine, che immaginiamo immobile, o punteggiato da istanti assoluti ed epifanici. Diventano segni creaturali e adamitici; biblicamente nudi.
Da artista figurativo, Bergomi sapeva di dover giustificare la presenza di un nudo-archetipo replicato in varie pose e mostrare al pubblico quasi senza significato apparente. Con un titolo pregnante, doveva legittimare una scelta estetica che di per sé snudava il fianco alla prima delle critiche: ecco un artista che fa sfoggio di bravura e scaltrezza nella modellazione del nudo, schiavo del suo virtuosismo anatomico. "Cronografia di un corpo" è titolo che non svia il pericolo della critica; fa molto di più: ci ricorda chi siamo sotto la luce di un tempo denudante e circolare. Corpi-segni ridonati alle pieghe del grembo che ci accoglie, nella sua durata.
1 commento:
Una veste leggera, di lino dі bisso da portare rigorosamente ѕotto la tunica, perio nota fіno dai tempi dellа tarda romanità е avevа come
caratteristica ill fatto Ԁi essere molto lunga e sorattutto nascosta.
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