di Gianni Quilici
Ho letto questo
romanzo di Peter Handke accompagnato da una sensazione: quella di rimanerne
continuamente fuori, senza percepire quella intima connessione e condivisione,
che ci tocca poeticamente, intellettualmente o almeno narrativamente.
Mi sono chiesto
quale potesse essere la ragione, essendo il romanzo ben scritto e fuori da qualsiasi banalità.
Partiamo dalla
storia. Scrive l’io narrante di essersi imbattuto in Don Giovanni, eterno
fuggiasco, inseguito da due motociclisti
e capitato per caso nel suo giardino inselvatichito della sua locanda, sulle
rovine dell’antico convento di Port-Royal, a sud di Parigi.
Don Giovanni
racconterà al suo ospite, durante questi sette giorni in cui rimane lì ospite
nella locanda, alcune delle sue peripezie amorose. Da questi racconti il
narratore conclude che tutti quanti (i Don Giovanni del teatro e dell’opera e
della cosiddetta realtà primaria) erano falsi…anche quello di Molière, anche
quello di Mozart.
Che siano falsi è
una boutade narrativa come tale accettabile. E’ sicuramente vero, però, che il
Don Giovanni di Handke è assolutamente diverso dal Don Giovanni tradizionale.
Infatti questo Don
Giovanni racconta in modo molto analitico con dettagli visivi e percettivi
minimalisti a scapito dell’avventura tumultuosa, l’avventura che corre dietro
l’istinto libidico, senza dimenticare il calcolo della seduzione, e che
comunque deborda oltre i limiti delle convenzioni.
Leggiamo l’inizio di uno dei tanti racconti di Don Giovanni, attraverso la mediazione del narratore:
“ Ciò che a Don
Giovanni rimase della giornata sul fiordo, insieme alla donna norvegese: il
tavolo di legno all’aperto; la luce sull’acqua, alla sera, che invece di
spegnersi si rischiarava progressivamente, come per sempre; la luna quasi
identica alla luna del giorno prima a Ceuta e a quella del giorno prima ancora
a Damasco; i bacini rossi-e-gialli e lisci come specchi della lingua di
ghiacciaio da poco disciolta; lo stare seduti lì; l’essere totalmente
occhio-e-orecchio; il leggere leggere, sfogliare pagina dopo pagina, fino al
giorno seguente…”
Cosa non mi persuade ed anzi mi infastidisce?
Che questo sia un racconto ricco di dettagli descrittivi e percettivi molto
sottili, dietro cui si intravede lo sguardo contemplativo di un intellettuale-poeta,
e per chi lo ha letto, la scrittura e lo stile di Peter Handke.
Non solo, ma i
racconti di Don Giovanni, sempre attraverso la mediazione del narratore, si prestano a riflessioni di una sottigliezza al
limite del sofismo.
“Il suo essere in
viaggio era al tempo un costante arrivare, così come nell’essere arrivato lui
si pensava ancora in viaggio. E dal tempo delle donne si vedeva protetto al di
là del tempo delle cifre; finché era in vigore nulla poteva succedergli; anche
le sue varie fughe era parte di quella grande sospensione; ogni volta erano di
nuovo fughe tranquille, addirittura rilassate, con gli occhi spalancati. Tempo
delle donne significava sempre che si aveva tempo. Si era nel tempo. Inseriti
nel tempo” e così via.
Si potrebbe
obiettare: “Ma questi non sono Don Giovanni… questi sono ciò che il narratore
ricava da ciò che Don Giovanni racconta”
Infatti. E’ nella
mediazione che lo scrittore austriaco non è riuscito a farsi Don Giovanni. Non
c’è riuscito, perché non ha recuperato per niente il Don Giovanni della
tradizione, interagendo con lui e scavandolo, facendo emergere aspetti e facce
inedite rispetto a quelle già rappresentate. Lo ha saltato e, in questo salto,
ciò che appare è invece lui, Peter Handke.
Peter Handke. Don Giovanni (raccontato da lui stesso). Garzanti.
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