Ecco finalmente un bel romanzo, scritto bene da chi sa
davvero scrivere bene. Qualcuno potrebbe rilevare che lo sviluppo di una
microstoria familiare che cavalca tutto il Novecento e si fa specchio di vicende
della Storia maggiore non è una novità come spunto narrativo, e infatti anche a
me il primo paragone che è venuto in mente è stato quello con “Mille anni che
sto qui” di Mariolina Venezia.
In entrambi i romanzi si raccontano generazioni che si succedono
nello stesso arco di tempo, entrambi ambientati in territori marginali del
meridione d'Italia (la Calabria ionica nel libro di Abate e la Basilicata in
quello della Venezia) e con tipologie simili di famiglie patriarcali e
contadine che consentono ai due autori di offrire una prospettiva della Storia
dal '900 ai giorni nostri, vista attraverso gli occhi di quelle classi
deprivate e subalterne.
Ma se in tutti e due i casi la lettura è parimenti
coinvolgente e suggestiva, mi sembra di poter notare che ne “La collina del
vento” la materia narrativa sia stata trattata in maniera meno antropologica e
più “politica”, sottolineando sempre Abate quel male endemico del suo
territorio: prima i soprusi dei grandi latifondisti, poi a seguire le
prepotenze e le violenze dei gerarchi locali, la criminalità, le speculazioni
edilizie, il potere diffuso della 'ndrangheta. Il tutto in un territorio
magico, baciato da una natura benigna e custodito amorevolmente dalla famiglia
Arcuri, i cui esponenti si oppongono con le unghie e con i denti ai diversi
tentativi di usare a fini speculativi quelle terre.
La scrittura di Abate trasuda del grande amore che egli
nutre per la sua collina. Si percepiscono i colori e gli odori del Rossarco, si
sentono il vento soffiare e i rumori del lavoro agricolo su quei terreni a
volte duri e pietrosi; si condivide l'entusiasmo degli Arcuri quando si dà
inizio a saggi archeologici alla ricerca della mitica città della Magna Grecia,
i cui resti vengono in superficie quando la terra viene dilavata dalle piogge:
monete antiche, vasellame, resti umani ecc.
Grazie a questo afflato, la collina e le generazioni degli
Arcuri acquisiscono la forza, la valenza e la dimensione del mito: Abate
sceglie di riportare in maniera “verista” i dialoghi dei suoi personaggi, ma lo
sguardo retrospettivo di chi racconta li nobilita e trasfigura. La scrittura si
fa poetica, ispirata e tesa, ed emergono a tutto tondo le forti tempre degli
esponenti di quelle generazioni (uomini e donne), custodi di un territorio di
cui si coltivano i sogni ma non si tacciono i mali, che sono quelli che possono
far identificare questo sud di Abate con qualunque altro sud del mondo.
La rondine bianca, tanto cercata e che sul finire si vede
volare alta nel cielo, è il simbolo della unicità e della verginità di quella
collina e di tutto quel territorio che -senza valori etici ed ecologici
condivisi- rischiano l'estinzione a forza di scempi, speculazioni e falsi miti
del progresso.
Personalmente non credo molto ai premi letterari,
immaginando quante pressioni ed interessi possano esservi dietro (vedi Strega),
ma nel caso de “La collina del vento” il Premio Campiello 2012 mi sembra sia stato
davvero ben assegnato.
E, guarda caso, lo stesso Premio Campiello fu vinto -e con le stesse
motivazioni- dall'ottima Mariolina Venezia nel 2007 proprio per il suo “Mille
anni che sto qui” che si citava all'inizio.Carmine Abate, “La collina del vento”, Mondadori 2012
Nessun commento:
Posta un commento