23 ottobre 2012

"La collina del vento" di Carmine Abate




di Mirta Vignatti

Ecco finalmente un bel romanzo, scritto bene da chi sa davvero scrivere bene. Qualcuno potrebbe rilevare che lo sviluppo di una microstoria familiare che cavalca tutto il Novecento e si fa specchio di vicende della Storia maggiore non è una novità come spunto narrativo, e infatti anche a me il primo paragone che è venuto in mente è stato quello con “Mille anni che sto qui” di Mariolina Venezia.

In entrambi i romanzi si raccontano generazioni che si succedono nello stesso arco di tempo, entrambi ambientati in territori marginali del meridione d'Italia (la Calabria ionica nel libro di Abate e la Basilicata in quello della Venezia) e con tipologie simili di famiglie patriarcali e contadine che consentono ai due autori di offrire una prospettiva della Storia dal '900 ai giorni nostri, vista attraverso gli occhi di quelle classi deprivate e subalterne. 

Ma se in tutti e due i casi la lettura è parimenti coinvolgente e suggestiva, mi sembra di poter notare che ne “La collina del vento” la materia narrativa sia stata trattata in maniera meno antropologica e più “politica”, sottolineando sempre Abate quel male endemico del suo territorio: prima i soprusi dei grandi latifondisti, poi a seguire le prepotenze e le violenze dei gerarchi locali, la criminalità, le speculazioni edilizie, il potere diffuso della 'ndrangheta. Il tutto in un territorio magico, baciato da una natura benigna e custodito amorevolmente dalla famiglia Arcuri, i cui esponenti si oppongono con le unghie e con i denti ai diversi tentativi di usare a fini speculativi quelle terre.

La scrittura di Abate trasuda del grande amore che egli nutre per la sua collina. Si percepiscono i colori e gli odori del Rossarco, si sentono il vento soffiare e i rumori del lavoro agricolo su quei terreni a volte duri e pietrosi; si condivide l'entusiasmo degli Arcuri quando si dà inizio a saggi archeologici alla ricerca della mitica città della Magna Grecia, i cui resti vengono in superficie quando la terra viene dilavata dalle piogge: monete antiche, vasellame, resti umani ecc.

Grazie a questo afflato, la collina e le generazioni degli Arcuri acquisiscono la forza, la valenza e la dimensione del mito: Abate sceglie di riportare in maniera “verista” i dialoghi dei suoi personaggi, ma lo sguardo retrospettivo di chi racconta li nobilita e trasfigura. La scrittura si fa poetica, ispirata e tesa, ed emergono a tutto tondo le forti tempre degli esponenti di quelle generazioni (uomini e donne), custodi di un territorio di cui si coltivano i sogni ma non si tacciono i mali, che sono quelli che possono far identificare questo sud di Abate con qualunque altro sud del mondo.

La rondine bianca, tanto cercata e che sul finire si vede volare alta nel cielo, è il simbolo della unicità e della verginità di quella collina e di tutto quel territorio che -senza valori etici ed ecologici condivisi- rischiano l'estinzione a forza di scempi, speculazioni e falsi miti del progresso.

Personalmente non credo molto ai premi letterari, immaginando quante pressioni ed interessi possano esservi dietro (vedi Strega), ma nel caso de “La collina del vento” il Premio Campiello 2012 mi sembra sia stato davvero ben assegnato.
E, guarda caso, lo stesso Premio Campiello fu vinto -e con le stesse motivazioni- dall'ottima Mariolina Venezia nel 2007 proprio per il suo “Mille anni che sto qui” che si citava all'inizio.

Carmine Abate, “La collina del vento”, Mondadori 2012

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