di Mirta Vignatti
Era da tempo che cercavo di confrontarmi con la difficile scrittura di Antonio Moresco. Vi giravo intorno incuriosita dalle asperità del personaggio: un mix di polemista, battitore libero, camminatore che parte da Milano per arrivare a piedi fino a Napoli (Scampia), colui che ha lottato per più di vent'anni per farsi pubblicare i libri, “colui che ha il mondo (editoriale) in gran dispitto”.
Certamente Moresco si è cucito addosso negli anni un alone di “clandestinità”, di agitatore, di sovvertitore della calma piatta nella quale versa da anni l'establishment culturale italiano, di cultore del dissenso come nessun altro. E questo -dopo gli anni della militanza nell'estrema sinistra- a forza di prese di posizione alternative, fondando riviste nel web e poi uscendone per contrasti con i compagni di strada (“Nazione Indiana”), attivando il sito e il blog “Il primo amore” e continuando la sua funzione di “provocatore” con i suoi libri, dolorosi, spiazzanti e “diversi”. Tipologie intellettuali simili o accostabili almeno in parte a quella di Moresco potremmo trovarne nel mondo letterario italiano, e non sono tutti figli o figliastri di Pasolini: Guido Ceronetti, per esempio, Walter Siti, o Sebastiano Vassalli, o -in qualche modo- Ascanio Celestini ed Emanuele Tonon, per non fare che i primi nomi che mi vengono in mente. Ma Moresco, proprio grazie alla sua scrittura personalissima e al senso che egli dà allo scrivere, va ad occupare un posto tutto suo, ed in splendido e voluto isolamento.
La lettura de
“Gli incendiati” mi ha rivelato infatti una cifra stilistica e una
poetica di questo scrittore difficilmente riscontrabili in altri suoi
contemporanei italiani. Vi ho trovato in certe parti qualcosa che mi ha
portato reminiscenze del troppo presto dimenticato Guido Morselli (“Il
comunista” e soprattutto “Dissipatio H.G.”), e anche nella stessa
vicenda personale ed esistenziale di Morselli vedo molti punti di
contatto con Moresco: i continui rifiuti editoriali, il dolore cosmico,
le delusioni che porteranno Morselli al suicidio mentre in Moresco
fortunatamente solo rabbia e scrittura aggressiva. Come in “Dissipatio
H.G.”, ne “Gli incendiati” c'è l'evocazione di mondi estraniati,
allucinati, onirici con uno sguardo inizialmente visionario e surreale.
L'incipit fa subito pensare al Mersault di Camus o all'Autodidatta di
Sartre, e quindi il punto di partenza è la solitudine, il vuoto
esistenziale, lo sconcerto trasmesso dalla realtà. Ma subito dopo -in un
romanzo costruito senza cesure, senza capitoli, con una velocità di
scrittura e una contaminazione di generi che lascia il lettore senza
tregua- con l'apparizione della dea ex-machina (la misteriosa bionda
circassa dai denti d'oro) si entra già in un clima da incubo, da
disturbato e disturbante sogno- delirio.
E qui viene il nodo da
sciogliere. E' un libro riuscito questo di cui stiamo tentando di dar
conto? Penso che probabilmente “Gli incendiati” non piacerà a molti.
Direi addirittura che magari è stato scritto anche per non piacere,
perché il “mi piace” e il “non mi piace” sono categorie che non
interessano a Moresco. Credo che a lui interessi soprattutto smuovere il
lettore, spiazzarlo, mettergli in discussione le certezze, anche quelle
canoniche della pagina ben scritta, di accettabile comprensibilità e
con le parole giuste al posto giusto. La letteratura in tempo di crisi,
per Moresco, non può non essere interfaccia a tutti i cortocircuiti
della crisi: la disonestà, l'opportunismo, la violenza, l'osceno,
l'immoralità, il dio denaro, l'odio, la sopraffazione. E poiché il
nostro mondo in crisi è governato dal caos (i “Canti del caos” sono la
summa della poetica di Moresco), lo scrittore non può che rappresentarlo
con una scrittura che si fa anch'essa caotica, nella grammatica, nelle
immagini e nell'accumulazione di sequenze.
“Gli incendiati”, da un punto
di vista narrativo, procede infatti per sequenze quasi filmiche: dopo
la fuga dal mondo dei suoi simili (e non trova di meglio che rifugiarsi
in un Hotel con annessa spiaggia e popolato da turisti e bagnanti) il
protagonista-narrante continua la sua fuga per salvarsi da un incendio
improvviso, di valenza fortemente allegorica e in un clima da girone
dantesco. E' questo il momento in cui viene avvicinato dalla bionda
circassa dai denti d'oro. Prima c'era stata una successione di immagini
fatte della stessa materia dei sogni: possono venire in mente certi
frammenti da “La città delle donne” a “La voce della luna” di Fellini
(ma in quest'ultimo caso la fonte più diretta mi sembra il testo da cui è
stato tratto il film, “Il poema dei lunatici” di Ermanno Cavazzoni).
Poi prende corpo la figura femminile, la bionda misteriosa dalla
pronuncia straniera, e da qui in poi c'è un mix di generi e una saga di
citazioni che va dal “Kill Bill” di Tarantino (la donna ricorda per
certi versi Uma Thurman, ma ha anche qualcosa della Lisbeth Salander del
Millennium o della Aomame di M. Haruki) a “Eyes wide shut” di Kubrick
(la scena dell'orgia in villa, qui frequentata da ricchi e depravati
russi), passando attraverso “Prima della pioggia” di Manchevski per
quanto riguarda le scene di guerra e di violenza nei Balcani. Il viaggio
verso Est è un pellegrinaggio attraverso l'odio e la violenza, per
Moresco insiti nell'uomo, e si conclude con scene surreali di
combattimenti tra vivi e morti, in un clima funereo probabilmente
ispirato dalle atmosfere infernali e allegoriche de “Il trionfo della
morte” di Peter Brueghel il vecchio, ancorché noto -in palinsesto-
rimandi a certi fumetti noir di scuola latino-americana e anche a certe
scene futuribili di Moebius e di altri autori di “Metal hurlant”. (E
questi accostamenti di sacro e profano, di alto e basso, sono movimenti
tipici della scrittura di Moresco).
Una scrittura che attraversa paesaggi e ferite, archetipi, mostra figure e allegorie senza volerle spiegare, spalanca porte sul vuoto e sulla violenza che potrebbero essere il nostro futuro; una scrittura fauve, si potrebbe definire, che privilegia toni e colori forti, carnalità ed eccessi, che scardina grammatiche e repertori lessicali consueti, e abbozza una sintassi del delirio sconquassando le stesse regole della visionarietà. Le ultime pagine sono cosmiche e paniche al tempo stesso, e colgono il lettore con il fiato in gola, dopo averlo accompagnato attraverso il caos per tutto il libro; qui la metafora del fuoco chiude la sua circolarità acquisendo una dimensione assiologica e -se vogliamo- dantesca, in quel “tornare a riveder le stelle”.
Un libro dunque anarchico, eretico,
sovversivo, “incendiato” e incendiario, che tenta di dar conto
dell'insostenibile pesantezza dell'esistere descrivendola dal punto di
vista del proprio personale caos interiore. Un libro da leggere
nonostante tutte le perplessità che potrebbe trasmetterci. Da leggere
proprio perché lascia nella mente del lettore quesiti, dubbi, stimoli,
voglia di capire: aria fresca per le nostre menti.
Antonio Moresco, “Gli incendiati”, Mondadori 2011.
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