di Gianni Quilici
La prima
tentazione: lasciare perdere, inesorabilmente chiudere. Perché lo stile
dell’ultimo Bernhard fatto di periodi
lunghi, dove un fatto viene lasciato e ripreso più volte, creando una
circolarità ossessiva, mi aveva respinto, pur avendo letto notevoli romanzi
simili, come per esempio “Perturbamento” e “Cemento”.
Ho invece
continuato la lettura ed ho capito ben presto che mi sbagliavo. Bernhard è uno
scrittore dialettico, un tipo di dialettica negativa e ossessiva.
Dialettico, perché
questo nucleo narrativo iniziale, apparentemente statico, si articola e nello
stesso tempo si approfondisce. Si articola, cioè il romanzo diventa storia
anche avvincente; e si approfondisce, perché scolpisce i caratteri dei
personaggi nel loro nucleo più profondo.
Questo movimento
narrativo e penetrante esprime una visione dell’uomo e dell’esistenza spietata,
di un nichilismo che nessuno salva, neppure l’io narrante.
L’io narrante è
uno studioso di scienze naturali, che vive in una casa orribile, in un luogo
orribile dell’Austria, è malato, misantropo,
apatico, fallito come studioso e senza uno scopo, ha pensato per tutta
la vita al suicidio, senza però avere il coraggio di eseguirlo. E in uno stato
spaventoso si reca dal suo unico amico Moritz, agente immobiliare, per
rovesciare su di lui tutto d’un colpo e nel modo più brutale la sua vera
situazione psicologica, finora a lui nascosta… quando appare una coppia matura,
lui, uno svizzero ingegnere famoso che costruisce centrali nucleari, lei persiana.
Fin dal primo momento lo studioso è affascinato dalla donna….
Progressivamente,
attraverso questa prosa circolare che accumula musicalmente e ossessivamente fatti
su fatti, Thomas Bernhard ci fa capire e sentire i protagonisti: l’abilità nel
suo lavoro e la forza di carattere di Moritz, la crudeltà implicitamente
disumana dello svizzero, la meschinità e la malvagità della padrona dell’hotel
e di tutto l’ambiente circostante, il masochismo autodistruttivo della persiana.
L’io narrante sembra salvarsi dalla sua “infermità psicoaffettiva”, grazie al
rapporto benefico con la donna persiana . Nel suo raccontare, però, il protagonista
non dice tutta la verità, non è spietato con se stesso come lo è stato
inizialmente. Vittima di un ambiente carnefice, anche lui diventa un carnefice.
Il romanzo finisce con un sì, (lo Ja tedesco, titolo del romanzo) pronunciato
dalla donna ed è un sì, che diventa l’ultima estrema lapidaria affermazione di
negazione della vita.
Un romanzo di
grande spessore analitico e anche visuale. Perché questa prosa è’ talmente maniacale,
che non solo i personaggi, ma l’ambiente e i vari habitat( il campo tristissimo, su cui dovrà essere
costruita la casa della coppia, l’hotel, le voci della gente) rimangono e ben
si incidono nell’immaginazione.
Quale potrebbe
essere il limite di “Ja”? Ho pensato per un attimo alla donna persiana, un
personaggio più letterariamente simbolico che reale, per molti versi, speculare
all’io narrante. Però è l’io narrante che la vive e che ce la racconta secondo
la sua percezione e i suoi sentimenti, non è lo scrittore. Perché, ci si può
chiedere, un rapporto tra i due, che inizialmente è intenso, diventa poi
insopportabile? Lo scienziato narrante non lo analizza, ce lo dice come fatto,
che sembra non avere cause. Perché il suo interesse per la donna è svanito.
Quindi questa figura rimane indefinita, diventa comunque la visione del mondo
di Thomas Bernhard, orribile, nichilista.
Thomas Bernhard.
Ja. Traduzione di Claudo Groff. Ugo Guanda editore. Pg. 103. Euro 12,00.
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