04 febbraio 2014

" Di là dal cuore" di Giorgio Bassani



di Davide Pugnana

Ma cosa mai riflette nella corte,
con le sue mille lastre la finestra
della chiesa, ove luce, riverbero e silenzio
si mischiano, si bevono, s’appannano, s’esaltano
in colori fantastici, come fa un vecchio vino.
(R. M. Rilke, Béguinage, II )


La raccolta di saggi letterari è certamente un “genere” più popolare e fortunato rispetto alla monografia. È un’affermazione della critica sociologica? No. Lo dicono la bilancia delle vendite e gli scaffali delle librerie. Se chiediamo ad un bibliotecario di provincia quali siano le preferenze degli utenti in fatto di saggistica probabilmente ci aprirebbe il registro puntando l’indice sul lungo elenco dei saggi misti: le miscellanee comprese tra le duecento e le trecento pagine, punteggiate di articoli, saggi brevi, recensioni, ricordi d’infanzia, note autobiografiche. Mentre di fronte al romanzo promettiamo a noi stessi di leggerlo per intero, non fosse altro che per discuterne il giovedì sera al club dei lettori, un saggio monografico di rado alimenta una fede altrettanto fervida e ostinata. Perfino nel caso in cui dovessimo trascegliere un’opera nell’elenco di una bibliografia universitaria, che, per esempio, accolga le Operette morali e lo Zibaldone, d’acchito punteremo al secondo, pregustando l’avventura di un viaggio per l’alto mare aperto del pensiero, all’insegna della varietà e della sorpresa. Le ragioni di questa inclinazione del gusto a favore delle “miscellanee” risiede (ma è un’ipotesi!) nel desiderio latente del lettore di esorcizzare l’angoscia della banalità, cercando (e talora trovando) lungo strada un complice di genio: uno scrittore o uno studioso che affronti, nel suo “diario di lettura”, un comune manipolo di testi e di amori letterari che figurano nella nostra libreria. Così, sapere che Claudio Magris ha letto Elias Canetti e Hoffmansthal; che Pietro Citati tiene a portata di mano le Confessioni di Sant’Agostino e le lettere di Abelardo ed Eloisa; che Pasolini ha disegnato l’affresco della poesia dialettale del Novecento o che Primo Levi ha letto più di una volta Tartarin de Tarascon e a sua volta ci ha dato un meraviglioso resoconto delle sue “giornate di lettura” ne La ricerca delle radici, dà al lettore il sapore di una conferma; una sorta di beneplacito apposto come un sigillo scarlatto sulla giustezza e profondità delle sue scelte. Si potrà muovere l’obiezione che gli autori sopracitati siano tutti “classici” e che la loro presenza nel canone di formazione e di gusto di qualsiasi studioso sia oltre che scontata, necessaria. Sta bene. Ma non dimentichiamo che sul loro arcipelago i lettori hanno bisogno di sentirsi un po’ meno soli e confusi. Hanno bisogno di tendere un occhio alla luce intermittente del faro. L’esempio, forse, più celebre è la raccolta stilata da Italo Calvino sui “classici” che andrebbero letti e riletti per tutta la vita: l’Odissea, l’Anabasi, le Metamorfosi, la Storia naturale di Plinio, l’Orlando furioso, Candido, la Certosa di Parma; e poi Dickens, Tolstoj, Twain, Henry James, Pasternak, Gadda, Borges, Queneau, Pavese, Fenoglio, passando per Cyrano, Galileo e Girolamo Cardano.        

Se diamo retta a questa ipotesi, credo che nessuna raccolta italiana di saggi come quella di Giorgio Bassani rafforzi il nostro desiderio di appartenenza alla “Repubblica delle Lettere”. Di là dal cuore - la cui materia è mutuata e arricchita da aggiunte dal precedente Le parole preparate e altri scritti di letteratura -  è il più intimo e palpitante documento autobiografico di Bassani: la sua storia interiore affidata all’esperienza, ai suoi amori, umani e letterari; a quei narratori e poeti che hanno punteggiato la sua adolescenza; a storici dell’arte e registi cinematografici; a libri preziosi come totem; a temi storici e ricordi di un vissuto che, travalicando il particolare fatto personale, si svelano come ‘eventi’ buoni per tutti. Bassani trasforma così la sua raccolta di saggi sull’arte e sulla letteratura in un “giardino”: un “giardino” accessibile e luminoso, come quello dei Finzi-Contini, nei cui confini minacciati dalla violenza della Storia le grida, i giochi e la giovinezza dei protagonisti scorrono fluidi e smaglianti sotto il cielo levigato di Ferrara.

Bassani dispone la sua materia come se dovesse versare le liriche di tutta una vita nel cavo finemente lavorato di un “canzoniere”, preferendo cioè allo spirito geometrico della cronologia i nuclei tematici portanti e le stazioni di senso; illuminando le “affinità di contenuto” tra argomenti, anche distanti nel tempo e nel genere, e restituendoci il tic-tac del metronomo di un gusto accordato ed educato alla luce di maestri e autori prediletti. In questo zibaldone di duecentocinquanta pagine troviamo saggi e articoli letterari di carattere generale; acutissime analisi di opere della contemporaneità frammiste a pagine di sapore documentario e occasionale, come le due interviste apparse su “Nuovi Argomenti” e sull’ “Europa letteraria”, fino a toccare questioni sottili come il rapporto tra cinema e letteratura.

Oltrepassata la soglia del cancello, sul viale principale di questo “giardino” umanistico troviamo ad aspettarci il Romanticismo milanese di Alessandro Manzoni e Carlo Porta, ed è subito tutto un brio narrativo ad investirci grazie alla lieve e fragrante prosa bassaniana: “Mi sembra, ad ogni modo, abbastanza sintomatico, che quando venne in Italia, e cominciò nella solitudine della Roma papalina a scrivere Le anime morte, Gogol mostrasse interesse non già per il Manzoni, ma per un poeta dialettale come il Belli. Cicikov, al suono di una parola dialettale lanciatagli nella scia della troika di un malizioso contadino, si rovescia indietro, contro la spalliera della vettura, a ridere di cuore. Leggendo o ascoltando recitare i sonetti del Belli, Gogol, lo sappiamo, rideva fino alle lacrime. Avrebbe potuto ridere con altrettanto gusto delle paure di don Abbondio e dei pareri di Perpetua? Il nome di Manzoni, per una di quelle segrete corrispondenze che solcano la mente dei lettori di razza, lo ritroviamo nel saggio su Addio alle armi, al fianco di Hemingway: “La Milano del tenente Henry non è la città della peste, no. Tuttavia, sebbene sia piena di ospedali dove i soldati reduci dal fronte riacquistavano l’uso delle articolazioni offese e il gusto della vita, ha ben poco in comune con la città della speranza che accoglie e redime i profughi di Olate: Renzo Tramaglino, Lucia Mondella, e il frate Cristoforo. Ciò che Milano fu per Renzo, è stata, per il tenente Henry, Gorizia, la città testimone dell’amore e della guerra: la città della grande avventura sentimentale, insomma, della quale, a Milano, urge ormai sbarazzarsi.[…] Un amico di adolescenza soleva spesso mettermi in guardia contro gli accostamenti suggestivi, non autorizzati dalla prospettiva storica. Hemingway e Manzoni: il paragone, lo so bene, non regge che su un piano di paradosso. Ciò nondimeno, pensiamo un istante al significato che ebbe una città come Milano per i nostri più grandi romantici (Porta, Manzoni); a quel che suggeriva l’odore cavallino delle sue strade a uno scrittore, e a un uomo, come Stendhal; ed ecco, forse non sembrerà più così arbitrario immaginare che qualcosa di più urgente e più necessario del puro caso abbia condotto attorno ai bastioni di questa città straordinarie fantasie poetiche fra loro tanto diverse.” (I bastioni di Milano)

Ancora ai Promessi sposi Bassani dedica uno scritto del 1956, che osserva il romanzo da un’angolazione non letteraria ma di equivalenza visiva. Per una nuova edizione cinematografica dei Promessi sposi ci porta nel cuore di una disputa che si rinfocola ogni volta che sui grandi schermi del cinema o su quelli più piccoli della televisione un regista decide di dare corpo “visivo” ad un romanzo. Quanto è legittimo trasporre un’opera che vive di parole in un medium costruito sull’immagine? Che cosa si acquista e che cosa si perde nel passaggio dalla pagina allo schermo? Come ridurre una materia larga come quella manzoniana in una narrazione filmica di due ore? Come rendere le ombre interiori dell’Innominato o le scene corali del tentato rapimento di Lucia col chiaro di luna e le campane? Come la polifonia della sommossa milanese e l’assalto al forno delle Grucce? Come il cupio dissolvi che sembra incombere sulla processione indetta per stornare dalla città il flagello della peste? Bassani sa bene che il salto dalla pagina allo schermo non è indolore. C’è nel mezzo quel processo di riduzione che abbrevia e frantuma una partitura ampia e sofisticata come la pagina manzoniana, rovesciandola in “sceneggiatura”; c’è la consistenza fisica e il carattere del personaggio: don Abbondio e Renzo acquistano un volto tangibile che, visto anche solo una volta, annullerà per sempre quegli apporti della fantasia capaci di rendere magico e inesauribile il realismo del romanzo, realismo in fieri, realismo rinnovabile ad ogni età e stagione. “Ciò premesso, - scrive Bassani - com’è mai che il film, nonostante la sceneggiatura più che discreta, l’esatta scelta degli attori, la regia attenta e sensibile, l’evidente impegno della produzione, risulti, alla fine, tirare tutte le somme, così lontano dal soddisfarci? […] Difatti, è vero, I personaggi dei Promessi sposi non sono, a rigore, dei personaggi. A differenza di un Balzac, di un Tolstoj, di un Flaubert, di un Maupassant, di un Dostoevskij, - a differenza, cioè, di quello che per solito fanno i cosiddetti romanzieri di razza -, il Manzoni non si oggettiva mai totalmente nelle sue creature. Sopra di esse, per dirla con lo Scalvini, non si apre la gran curva azzurra del libero cielo; grava un’ombra, bensì, l’ombra d’una cupola. O quella di un’altra creatura, aggiungiamo noi, dalle spalle di gigante. E questa creatura di proporzioni michelangiolesche non è che il Manzoni stesso, il quale, incombente e nascosto come un burattinaio, manovra da maestro i fili a cui sono appesi i suoi burattini.”

Bassani riserva uno degli angoli più spaziosi del suo “giardino” ai ritratti degli scrittori suoi contemporanei e dei loro romanzi. Di esemplare nitore sono i profili di Carlo Levi, di Comisso, di Soldati, Mario Tobino. Percorrere queste pagine di Bassani, con i loro giudizi ben sagomati e i loro aneddoti, equivale a contemplare una medaglia la cui effige, appena rilevata sul fondo con poverissima materia, riesce a restituirci la potenza di carattere del personaggio. Affondando l’occhio nei lineamenti di Carlo Levi cogliamo il tratto nostalgico di chi insegue un incanto, “quel rimpianto, quel rimorso di epoche magnifiche, di secoli interi e robusti, di uomini dotati di qualità fisiche e morali d’eccezione”. (Levi e la crisi) Sotto l’aria di spavalderia di Soldati, Bassani scava per mostrarci la prima educazione del fanciullo nel collegio torinese dei Gesuiti: “Ciò che è rimasto, insieme col gusto delle buone lettere, sarà se mai il ricordo del primo brivido, della prima gioia che il ragazzo provò, allora, a sottrarsi di nascosto all’assillante vigilanza del direttore spirituale, e che prelusero a quell’altro brivido e a quell’altro gioia, più grandi e più liberi, seguiti, anni dopo, alla decisione di rinunciare alla sottana sacerdotale.” (Soldati, o dell’essere altrove

Che Mario Tobino sia stato medico psichiatra è un dato biografico che non significa nulla se preso di per sé; ma affermare che il medico fosse un’identità professionale fittizia e di comodo, sorta di controfigura utilizzata da Tobino per far respirare e vivere operoso lo scrittore, suona più che un paradosso una realtà testata dalle opere. Qualcosa di questa dualità permanente ci racconta Bassani introducendo il romanzo giovanile Il figlio del farmacista: “Abolito ogni distacco critico, lo scrittore si era dato a saccheggiare la propria esistenza con una sorta di furia, insieme sensuale e moralistica: come se quello stesso delirio, da artist as a young man, di cui, certo, geniale adolescente, era stato protagonista, adesso egli intendesse nuovamente viverlo, con pari abbandono, con pari impeto, nell’atto medesimo di assumerlo a materia d’arte. Non già romanziere, dunque, ma creatura ancora ben viva, tuttora gemente e dolorante, Tobino non si rassegnava che i suoi ricordi restassero memoria, vagheggiamento elegiaco di un possesso perduto nel tempo, idoleggiata fantasticheria condotta sul filo del rimpianto, mentre, nel frattempo, a chi li esibiva, fosse dato svolgere con bella calma, con cauta finezza, la sua trama letteraria. Tutto, al contrario, doveva tornare a vivere.” (Prose e poesie di Mario Tobino). 

Artemisia non fu un romanzo buono per un paio di generazioni e poi scomparso; né ebbe bisogno dei restauri ideologici del femminismo che vide nella pittrice secentesca Artemisia Gentileschi una tra le prime a sostenere “colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e a una parità di spirito tra i due sessi”. Bassani capì subito la sua statura di capolavoro; si impegnò a ripulirlo dalle scorie ideologiche e a ricondurlo alle reali intenzioni della scrittrice. Artemisia è, prima di tutto, un frutto perfettamente formato del grande albero del romanzo storico italiano, quello stesso sul cui tronco, ancora nel Novecento, cresceranno le opere di Maria Bellonci e Marguerite Yourcenar. “Allo stato attuale, il libro è questo, e più. Infatti, oltre ad essere una narrazione compiuta della vita di Artemisia Gentileschi, dall’infanzia fino alle soglie della vecchiezza; oltre a restituire un’immagine vivacissima dell’Europa secentesca: è anche, per molti riguardi, un autoritratto della scrittrice, la quale ha voluto intrecciare al racconto della vita lontana ‘virtuosa di pittura’ alcuni elementi non secondari della propria vicenda di donna as an artist.” 

Così per il Gattopardo di Lampedusa, di cui Bassani fu lo scopritore dopo la stroncatura di Elio Vittorini. Nella prefazione al romanzo Bassani delinea un ritratto indimenticabile del suo incontro con Giuseppe Tomasi: “Era un signore alto, corpulento, taciturno: pallido, in volto, del pallore grigiastro dei meridionali di pelle scura. Dal pastrano accuratamente abbottonato, dalla tesa del cappello calato sugli occhi, dalla mazza nodosa a cui, camminando, si appoggiava pesantemente, uno lo avrebbe preso a prima vista, che so?, per un generale a riposo o qualcosa di simile.[…] Quando gli fui presentato, si limitò a inchinarsi brevemente senza dire una parola.” (Prefazione al Gattopardo)

Ma il ritratto più intenso della raccolta è quello dedicato al suo maestro degli anni universitari, a Bologna, lo storico dell’arte Roberto Longhi, di cui Bassani riporta la celebre battuta: “Critici si nasce; poeti si diventa”. Ed è proprio nell’orbita di Longhi che prende vita e si forma quella vivace e felice officina bolognese nella cui fila si raccolsero allievi del calibro di Francesco Arcangeli, Alberto Graziani, Attilio Bertolucci, lo stesso Pier Paolo Pasolini. Come appariva Longhi? “Difficile immaginare un tipo più diverso dagli altri professori, anche fisicamente. Alto, simpatico, elegantissimo, con un viso dai tratti molto asimmetrici, di una espressività eccezionale: più che a un professore, a uno studioso, Longhi faceva pensare a un pittore, a un attore, a un ‘virtuoso’ d’alta razza e d’alta scuola, insomma a un artista. Non c’era nulla in lui dell’enfasi curialesca della tradizione carducciana imperante all’università di Bologna, di quell’unzione accademica che per tutto l’anno precedente mi aveva riempito di venerazione e di noia, nessuna posa erudita, in lui, nessun sussiego di casta, nessuna boria didattica e didascalica, nessuna pretesa che non riguardasse l’intelligenza, la pura volontà di capire a far capire; e per questo, non per altro, ci si sentiva a un certo punto osservati dai suoi occhi nerissimi che lustravano, piccoli e malinconici come per febbre, dietro il taglio spiovente del pince-nez e delle grandi palpebre brune (occhi da spadaccino italiano del Seicento, mi sorpresi un giorno a pensare bizzarramente). E se quello stesso sguardo che aveva frugato sardonico e affettuoso in te, ti arrestava, subito dopo, diventando a un tratto freddo, altero, e ristabilendo per così dire le giuste distanze, anche a questa operazione immediatamente successiva di distacco ci si acconciava volentieri, senza soffrire di delusioni di sorta, perché era ancora una volta l‘intelligenza, l‘oggettiva necessità di comprendere che così volevano.” (Un vero maestro) E’ con questo doppio sguardo che, anche noi, dal nostro tempo, dobbiamo continuare a leggere i saggi di Giorgio Bassani. A incantarci nei viottoli del suo giardino.       


Giorgio Bassani, Di là dal cuore, Mondadori, Milano, 2003, pp. 398, euro 7,80
Giorgio Bassani, Le parole preparate e altri scritti di letteratura, Einaudi, Torino, 1966, pp.248


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