25 febbraio 2014

“Viaggio in Garfagnana: Cardoso” di Gianni Quilici



 12.30. Sulla strada.

 Luce d’un cielo
tra celeste e azzurro
con nuvolette chiare
Luce che dà calore
verso un futuro
un futuro inquietante
Allora?
Che tuttavia ci allarghi


foto gianni quilici
ore 12.40. Ponte del Diavolo
Mi appare nella strettoia 
veloce della strada
bello e fugace oltre ogni tempo
oltre ogni possibile misura

Ore 13. Cardoso (394 m., abit. 353).
Il paese è raccolto e compatto nella struttura medievale e sale su scalini tra vicoli lastricati in porfido, vasi di fiori e portali in pietra... Non un paese idilliaco come  certi villaggi della Francia o del Trentino molto curati, anzi, a volte, fin troppo.  Ci sono case abbandonate, altre trascurate, male intonacate, muri consunti o scialbi. Ma questi sono segni d’una storia, d’una civiltà agro-pastorale che un po’ conosco, povera e autentica, che tuttavia si mescola con il tempo e con i tempi nostri.
E comunque salendo fino alla chiesa, il vicolo si fa più stretto e tortuoso. Ecco un palazzo con il bel loggiato diviso da due arcate, ecco il panorama grande con la vallata del Serchio e sullo sfondo la catena degli Appennini; ecco il fianco della chiesa che ci  porta nella piazza.
La chiesa di S. Ginese del XIII secolo, rimaneggiata in epoca barocca, ha una facciata semplice con tettoia e porta nuova. Più in alto la torre campanaria, grande e merlata, antica torre di guardia sull’intera vallata, ha l’accesso precluso.
Nella piazza il monumento ai caduti; mi colpisce una lapide dedicata a un giovane caduto in Russia. Si vede nella foto di Elio Bianchi (qui acclusa) il terribile contrasto tra la bellezza candida della sua giovinezza e la morte, come disperso, nell’immensa, tragica, gelida pianura russa. Suonano beffarde le parole di motivazione” … per il bene del prossimo”. Quale prossimo? Hitler e Mussolini?

Nel paese una piazza con un bar. Due uomini anziani vestiti di scuro  stanno entrando,  parlando a voce alta, mentre una bimba esce e se ne va saltando alternativamente sui due  piedi, come se fosse felice. 
Dal terrazzino di una casa sbucano tre cani abbaiando e correndo su e giù lungo la ringhiera. Due di questi si annoiano ben presto; uno, invece, abbaia così visceralmente mostrandomi denti affilati e occhi cattivi, che mi viene da pensare  “devi essere tanto disperato… disperato di star così rinchiuso”. Lo guardo negli occhi, prima di puntargli contro l’obbiettivo fotografico e per qualche secondo anche lui mi guarda e tace. Capisco: abbaia non contro di me, io sono un simbolo. Abbaia contro la sua illibertà, contro i suoi spazi delimitati e angusti. E per associazione penso a questa  Italia e a tanti tragici italiani.






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