Finito
di leggerlo, attendevo uno spunto per recensirlo, cercavo una suggestione, un
solco dove inserire un pensiero. Intendiamoci, il romanzo è inevitabilmente
scritto bene; McEwan è un rovistatore ordinato e zelante dell’uso della
scrittura e incasella tutto con una precisione che in qualche caso, diventa
quasi asfittica. E’ un elaboratore lucido della consistenza umana con tutte le
sue intime declinazioni e in questo romanzo, le espone servendosi della voce di
un neurochirurgo, della sua famiglia e sullo sfondo, di una città: Londra.
Un
giorno, un giorno solo per raccontare la vita di Henry Perowne, attraverso avvenimenti che
portano in scena le scelte, i dubbi interiori, la fragilità e i malori della
società con i continui cambiamenti che modificano il microcosmo di ogni
individuo.
Sfilano così sotto agli occhi, riflessioni sulla guerra, sulla
politica, sul consumismo, sul rapporto con i media: “Fa parte dei tempi, questo imperativo a sentire come vanno le cose del
mondo, a unirsi alla totalità del pubblico, a una comunità fondata sull’ansia.
L’abitudine è andata aumentando in questi ultimi due anni (il romanzo si
colloca temporalmente due anni dopo l’Undici Settembre); certe scene mostruose e spettacolari hanno conferito un valore di
portata diversa all’informazione. La possibilità che si ripetano è come un filo
che tiene legati i giorni”.
Sull’amore
fedele e corposo per la moglie, avvocato e punto di riferimento della sua vita;
sulla musica, con un figlio chitarrista blues e naturalmente, sulla
letteratura: la figlia sta per pubblicare la prima raccolta di componimenti
poetici, passione ereditata da nonno, suo suocero e poeta affermato che vive in
ritiro in Francia. In mezzo una partita a squasch, dopo una settimana nel
reparto di neurochirurgia di un ospedale londinese dove lavora, la visita alla
madre Lily, ricoverata in una clinica con la memoria frantumata, una cena
familiare da preparare.
Tornano
tutti i temi cari a McEwan, con l’aggiunta di una clinicizzazione dei
comportamenti attraverso la visione, raziocinante e medica del protagonista che
elabora continuamente le azioni in funzione della complessità del cervello e
torna l’incidente, che rompe la pianificazione del quotidiano invertendone le
certezze. L’imprevisto che diventa pretesto per rovesciare l’inquadratura di
un’esistenza quasi perfetta è un meccanismo che lo scrittore usa spesso nei
suoi romanzi, per introdurre nella narrazione un punto di rottura,
indispensabile per condurci nel lato oscuro e lì si conficca come un ago, che
smuove e accede a quello che c’è sotto, oltre.
Se
in “Espiazione” la lettura è stata faticosa, qui in qualche maniera, lo è
ancora di più nell’ossessiva dilatazione del tempo, nella scansione di ogni pensiero,
ogni azione che si dipana nello svolgimento di un sabato di programmato riposo;
mentre tu apri e chiudi il libro nei giorni, il romanzo resta quasi paralizzato
su una filigrana eccessiva, seppur a volte veri spiragli di ricchezza della
trama per il lettore, ed anche qui, la spinta dello scrittore è stata
necessaria per arrivare in fondo.
Alla
fine resta il dubbio, come spesso accade quando leggo un testo tradotto; quanto
ho perso oppure, quanto si è aggiunto alla mia lettura rispetto all’originale e
quanto, la traduttrice Susanna Basso, ha lavorato sulla stesura riscrivendo, in
buona sostanza, il libro.
La
traduzione è un tema che mi appassiona; un autore come Ian McEwan certamente
misura ogni parola, ogni suono di un vocabolo per renderlo così come desidera e
l’inglese ha suoni e tinte differenti dall’italiano. Quanto di quei suoni, di
quei colori, vengono persi in una traduzione?
Ian McEwan. Sabato. traduzione
di Susanna Basso. Einaudi,
2005
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