“Il
fatto che noi crediamo che un essere partecipi a una vita sconosciuta in cui il
suo amore ci farà penetrare, è, di tutto quello che l’amore esige per nascere,
ciò che più gli importa”.
Proust, “Un
amore di Swann”
di Angela Palermo
Mi piace partire da questa citazione di un
capolavoro proustiano per esprimere qualche pensiero sul primo romanzo di
Gianni Quilici, “Non è che l’inizio”,
in quanto l’essenza del romanzo (o il suo scopo essenziale?) sembra proprio il
voler far entrare il lettore all’interno di una vita per molti versi
sconosciuta anche al protagonista che la vive; e in questo risiede il fascino
di questo “racconto di una vita”, costruito sulla magia anti-dualistica dell’essere e dell’esserci, vissuta con meravigliata assurdità dal giovane supplente
protagonista: un post-adolescente dal cuore stravagante, pazzo, indocile, che
teme l’insegnamento perché ne sente tutto il peso gravido di responsabilità
sociale.
L’atmosfera generale che si respira leggendo,
anche grazie alle bellissime foto di scorci lucchesi inserite tra le pagine, è
piacevolmente esistenzialistica, di un esistenzialismo dichiaratamente
sartriano e accesamente pasoliniano.
Ma “Non è
che l’inizio” è anche il racconto di una dirompente passione politica
tradita ma mai spenta, che permea ogni azione del protagonista, che al lettore risuona quasi come un monito a
fare, a impegnarsi, a reinventarsi, a esser-ci:
“Non è vero che è tutto pronto. E’ vero
che sono pronte le idee, i percorsi, gli strumenti necessari. Soprattutto, ho
una grande energia dentro, ma non voglio scaricare nel vuoto (…). Lascio nel
mio impegno molte riserve. L’incertezza diventa l’alibi per non fare” (pag.
39).
All’interno di questa proustiana vita
sconosciuta, il nostro protagonista tenta di penetrarci e di farci penetrare,
soprattutto attraverso una perturbante tensione erotico-sessuale che a tratti
imbarazza il lettore per le descrizioni iper-realistiche, al limite del
voyerismo. Vediamo il protagonisa
abbandonarsi puntualmente al piacere con trasporto, vittima consapevole di
passioni violente con donne che sono al contempo amiche, amanti, confidenti,
che quasi sempre si prestano alle sue fantasie sessuali senza apparente
felicità, senza il vero calore dell’amore: “Vuole,
astrattamente vuole, pensai. Come me” (pag. 22).
E’proprio
questo, credo, l’asse portante della
soggettività del protagonista: enigmatica, inquietante, paradossale, che
attraverso un sesso raccontato senza alcun pudore, con una giocosità sempre al limite
tra l’erotico e il trasgressivo, mette spregiudicatamente sul tappeto spinose
questioni di carattere etico, dimensioni interiori con forti valenze culturali
e filosofiche.
Le sue prepotenti passioni sessuali sono assimilabili
a quelle di un libertino post-litteram
che ha orrore della monotonia, dell’uniformità, che ricerca attraverso il sesso
e la “sessualizzazione”, una molteplicità vitale irriducibile da dominare. Ma
si capisce subito, dall’intonazione lirica con cui l’autore ne parla, che il
primo a essere sedotto, rapito, travolto, dal flusso ininterrotto della molteplicità
delle sue passioni, è proprio lui, l’autore.
Malgrado tutto questo, non riesco a non
percepire una sensazione un po’ perversa che mi turba, pur nella consapevolezza
che l’erotismo libertino, un po’ come il bambino in Freud, è polimorfo: è cioè
per essenza trasgressivo e “perverso”. Il divino marchese de Sade ci ha
insegnato -e la psicoanalisi freudiana
gli ha dato ragione- che la ricerca erotica del libertino, quando è totalmente
estranea alla tenerezza e al sentimento, genera violenza e prevaricazione,
attiva componenti aggressive e distruttive. Non è mai il caso del protagonista
del romanzo di Quilici che, pur muovendosi in una dimensione di libertinaggio a
tratti spersonalizzante e spersonalizzata, mantiene sempre in vita, attraverso
l’incontro erotico, il principio di
individuazione e di riconoscimento
dell’Altro, evitando di aprire quella frattura radicale tra il Sé e l’Altro, così ben descritta da de Sade che ha vivisezionato la
dimensione scissa del libertino che abbandoni pericolosamente i circuiti della
passione amorosa, a favore del piacere esclusivo della carne e della seduzione.
Non è mia intenzione addentrarmi in tassonomie psicologiche
del personaggio protagonista del romanzo, ma se ho richiamato de Sade e il
libertinismo perverso, è soltanto per esprimere un po’ di amarezza nei
confronti di un romanzo che anela a dirci che può esservi spazio per una
visione che considera la relazione
amorosa come esperienza umana complessiva: tale, cioè, da includere, sullo
sfondo di una fusione tra erotismo e passione politica, anche la creatività, la
passione dell’intelletto con le sue avventure, le attività della ragione, ma
che alla fine appiattisce questo suo enorme potenziale, sulla carne. E anche se
quella che possiamo considerare la cifra più elevata di questo romanzo, il suo “differenziale
sadiano”, ci porta alla fine a considerare la passione amorosa come armonia tra
sensi, cuore e ragione, ammantata di propositi morali e pedagogici, in netto e
irriducibile contrasto con ogni logica della scissione, ritroviamo comunque una
visione dualistica del piacere e dell’amore, scopertamente ostile all’autore
stesso che, privando il sesso del buio piacere del segreto e dell’intimità,
della sua dimensione essenzialmente spirituale, di una spiritualità che io
considero in senso spinoziano, lo riduce a un atto del puro sentire, privandolo di quella dimensione catartica essenziale che appartiene solo alla sessualità
fusa col sentimento amoroso.
È davvero necessario, a spiegare i caratteri paradossali
dell’amore, la presenza costante, nel testo, di una chiara menzione delle pratiche sessuali
che lo rendono accessibile al protagonista?
O non sono piuttosto le sue caratteristiche
intrinseche -il suo essere abitato dalla scissione, il suo essere votato alla
mancanza- a renderlo così pericolosamente indescrivibile anche a Gianni Quilici,
perché più vicino alla malinconia e alla morte, di quanto egli osi ammettere
nel suo romanzo?
Nessun commento:
Posta un commento