Come molti, anch'io mi crògiolo nel desiderio di poter conversare con scrittori del passato. Che so, sedere qualche ora dimenticando il cadere silenzioso del tempo, in una stanza foderata contro i rumori del mondo, come quella di Proust. Un po' come racconta Woody Allen nel film "Midhnight in Paris": una sera Hemingway, un'altra Dalì, un'altra Mallarmé e via così, ogni notte una reverie diversa.
Nella realtà, avrei voluto conversare con alcuni scrittori liguri che avevo dietro l'angolo; ma per un soffio, li ho persi: Edoardo Sanguineti, Giovanni Giudici, per dirne un paio. Quelle parole che avrebbero riempito un pomeriggio o una serata non esisteranno mai se non nei dialoghi immaginari della mia mente.
Mi chiedo spesso di che cosa avrei parlato se Paolo Bertolani mi avesse dato appuntamento una mattina di qualche anno fa, lassù alla Serra. Avevo scoperto la sue raccolte nemmeno a Sarzana (dove sarebbe stato facile trovarle), quanto alla biblioteca della Normale di Pisa, vicino alla voluminosa produzione di Attilio Bertolucci. Di che cosa avremo parlato se ci fossimo incontrati? Forse di quei classici che, per puro caso, condividevamo senza saperlo. Avremo parlato della guerra descritta da Tolstoj, degli scintillanti occhi grigi di Anna Karenina; del mistero sacro che Dostoevskij ha chiuso nel principe Miskin; dell’erotismo esasperato e seducente di Emma Bovary; del mondo assurdo di Kafka e del suo romanzo America; dell’ “imprescindibile” Leopardi (l'aggettivo era di Paolo); del suo amato Faulkner e della sua abilità di “creatore di atmosfere”; dei saggi di Poe sulla poesia, dell’esotismo avventuroso di Salgari e degli oscuri Sonetti a Orfeo di Rilke, ricreati nella geniale traduzione di Pintor; sicuramente di Dante, di Porta e del microcosmo affettivo di Pascoli; del verso materico di Baudelaire e del misterioso silenzio creativo di Rimbaud; dell’America reale di Whitman e di quella immaginaria di Pavese; della poesia metafisica di Eliot e Montale, dei soggiorni liguri di Pound; e poi dei narratori che amavamo: Verga, Fenoglio, Gadda. Senza dubbio gli avrei chiesto di parlarmi di prestigiosi interlocutori, gli amici Vittorio Sereni, Franco Fortini, Attilio Bertolucci, Mario Soldati. Certo,forse avremo parlato di tutta questa bellezza.
Ma io lassù alla Serra ci sarei salito per farmi leggere quei suoi versi stupendi, inframezzati da strofe mozzafiato, rarefatti ed esatti come haiku. Ricordo, tra le tante, quella pennellata sui paesi in lontananza: "dove i paesi non sono più che incerte notizie di luce". Eccolo lì, Paolo, tutto in un verso. Ho avvertito subito come la sua verità stesse proprio nella profondità del suo radicamento tra quei sentieri, quei muri scrostati, quelle gole aperte sul mare e quei sassi franosi; come, cioè, il heimat nascesse da una sua irriducibilità a qualsiasi geografia astratta. Respirare l’aria mossa della Serra; lasciarsi intridere dalle sue brezze improvvise o scaldare dell’arsura dei suoi soli; sedersi tra le sue pietre secche o nei suoi uliveti falciati di fresco, perdersi tra la sue viuzze e i suoi sentieri, era l’esatto pendant delle immersioni quotidiane nella poesia di Paolo, tra le sue pieghe chiare e segrete, tra le sue faglie di luce e d’ombra, tra le sue apparizioni e i suoi intimi rifugi. Stare alla Serra voleva dire abitare, al contempo, nel corpo vivo del mondo e nella verità della poesia, potersi nutrire di cose semplici e di parole sapienti, procedere tra la terra e i sogni.
Alla Serra, Bertolani scrisse questa struggente poesia in dialetto, dedicata al "suo" Machado:
<
avanti de dormìme ‘nte ‘n mae
de vèti e de pien, ma donde i vèti
la fan da padrón,
er me Machado de luse e de pasiénsa,
chi me fa ‘n técio carmo e resénte
co’ ‘e sé parole lingée.>>
(Traduzione: "Il mio Machado che gli dico ciao, / che non mi toglie mai il saluto / prima di addormentarmi in un mare / di
vuoti e di pieni, ma dove i vuoti / la fanno da padroni, / il mio Machado di luce e di pazienza, / che mi fa un
tetto calmo e resistente / con le sue parole leggere")
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