Lo psicoanalista
francese Didier Anzieu (Melun, 1923; Parigi 1999), il cui contributo più noto
alla psicoanalisi è il concetto di “io-pelle”, si è occupato anche, e a più
riprese nel corso della vita, del “processo creativo”. La sua opera più
completa sull’ argomento è Le corps de l’oeuvre (1981), ma è probabile che
questo interesse sia nato molto precocemente, mentre preparava la tesi che
aveva per oggetto l’autoanalisi di Freud (pubblicata per la prima volta nel
1959) o, chissà, mentre indagava, nel corso della sua stessa analisi, sulla
fissazione creativa della propria madre (che altri non era che la famosa
“Aimèe”, il primo caso descritto da Lacan). Dotato di “scetticismo, rigore e
serenità”, doti che egli ritiene essenziali in ogni psicoanalista, Didier
Anzieu è piacevole da leggere e ricco di spessore; ma sfortunatamente solo
poche delle sue opere vengono ristampate in italiano.
Il testo che segue,
traduzione di un brano tratto da L’auto-analyse de Freud (riedizione del 1975)
mi è sembrato curioso e interessante, in quanto sottolinea il ruolo dell’altro,
in qualità di interlocutore privilegiato, nel corso del processo creativo,
accostandolo niente meno che al concetto di “madre sufficientemente buona” di
Winnicott.
“Per effettuare una
scoperta o comporre un’opera innovatrice si rende necessario superare due
resistenze. La prima è una resistenza epistemologica, che i lavori di Bachelard
(1938) hanno già messo bene in evidenza: ciò che uno già sa costituisce una
forza di inerzia che paralizza e impedisce di afferrare ciò che si potrebbe trovare di nuovo.
Inventare è contraddire, è dimenticare le vecchie acquisizioni, troppo
condivise, per immergersi, da solo, in un qualche strato molto antico di se
stesso; è riportare alla memoria
un’immagine personale che si trova depositata, e far germinare da essa
la scoperta, l’opera.
E’ in seguito che
interviene la seconda resistenza, che non è senza analogia con ciò che Freud
descriverà, verso la fine della sua vita, come la relazione terapeutica
negativa (1937). Questa consiste in un dubbio corrosivo, demoralizzante, sul
valore di ciò che si sta per trovare e sulla propria capacità di portare a
termine la dimostrazione, la redazione, la composizione. Negazione dell’opera
che siamo sul punto di generare, di portare fuori da noi stessi, negazione di
sé come padre-madre possibile di questa opera che rechiamo in grembo. Si può
indovinare la natura delle angosce sottostanti: sentimenti di colpa, secondo i
“freudiani”, per il bambino concepito nell’immaginazione con uno dei due
genitori; secondo i “kleiniani”, fantasma che fa ritorno, sicuramente
interessato ad introdursi nel ventre della madre per distruggere il pene del
padre e i bambini in gestazione. Quale che sia il cammino che imbocca, è
evidente che qui, ad operare, è la pulsione di morte, pronta a portarsi in ogni luogo di creatività
nascente per distruggerla in embrione e compiere le parole del poeta (Paul
Valéry, Le cimitiére marin):
“… Rendre la lumiére
Suppose d’ombre une
morne moitié”
Se la prima resistenza
trova la sua soluzione nella solitudine, in un ripiego su se stessi nel quale è
facile distaccarsi dal pensiero comune e nel quale, ritrovando se stessi, si
finisce per scoprire ciò che si cercava, va ben diversamente per la seconda:
qui l’aiuto non può venire che da un altro. Le caratteristiche di una tale
relazione con l’altro cominciano ad essere conosciute. E’ colui con cui il
potenziale creatore “condivide il suo segreto”; così il romanziere Joseph
Conrad ha potuto produrre il meglio di sé e raggiungere una grande notorietà
fintanto che è durata la sua amicizia con Ford Maddox Hueffer; la brusca
interruzione di questa amicizia, nel 1910, coincise con un abbassamento della
sua produzione artistica.
Masud Khan (1970)
studia la relazione tra Freud e Fliess alla luce della relazione di Montaigne
con La Boétie, che, continuando
interiorizzata anche alla morte del secondo,
permise al primo di concepire Les Essais, contrapposta alla serie di relazioni maschili
e femminili che furono necessarie a J.J. Rousseau per portare a termine Le
Confessioni, opera nella quale l’autocritica si alterna con l’auto-elogio senza
sfociare, contrariamente a Montaigne, nell’acquisizione di processi psichici
universali. Masud Khan parla di una “funzione catalitica” che si compie grazie allo scambio intellettuale e affettivo
con un amico privilegiato.
Questa funzione è
incontestabile e, salvo poche eccezioni, necessaria ad ogni grande creazione.
Il partner può essere dello stesso sesso o del sesso opposto; la relazione con
lui, sempre in qualche modo erotizzata, può o non può soddisfarsi sul piano
delle relazioni sessuali: questi sono solo fattori associati. L’essenziale
risiede in qualcosa di difficile definizione, che manca di un concetto
adeguato, ma che si può descrivere come l’immediatezza di comprensione del
partner di fronte alle rappresentazioni mentali che il potenziale creatore trae
dal proprio fondo e prova a comunicargli. Con lui, lui solo, quest’ultimo non
deve, come davanti alla sua pagina bianca o come col resto dei suoi
contemporanei, lottare per esprimersi e per farsi comprendere. Questo amico
entra d’emblé nelle particolarità idiosincrasiche dell’organizzazione delle sue
sensazioni, delle sue immagini, dei suoi affetti; talora vi ritrova egli stesso
il proprio vissuto; talora, e ciò è ancora più prezioso, egli è convocato in
una zona del proprio essere di cui non era cosciente, nella quale ragiona
attivamente, intensamente, favorevolmente ai propositi del genio creatore, e a
partire dalla quale invia di ritorno a costui un’eco amplificata e arricchente
di quella voce interiore che gli sussurrava, ancora incerta e balbettante, le
premesse di qualche scoperta.
L’amico privilegiato
incarna per il creatore il polo di minor resistenza, e il feed-back regolatore
che proviene da questo amico attenua nel
creatore quella resistenza interna che ogni progetto di creazione contiene al
massimo grado.
Come rendere conto di
questo fenomeno in termini psicoanalitici? L’espressione “risonanza
fantasmatica” adottata da certi psicoanalisti
pratici di metodi di gruppo, per definire le congiunzioni profonde che
si stabiliscono subitaneamente tra due persone in un contesto collettivo, resta
ancora troppo descrittiva. Che si tratti di un gioco reciproco di
identificazioni e di proiezioni è ben evidente, ma resta oscura la risposta a
queste domande: quali identificazioni, quali proiezioni, quale gioco? La
nozione di “identificazione proiettiva” non ci sembra sufficiente, anche se si
avvicina molto al processo osservato. Il meccanismo del fenomeno transizionale,
di cui si deve la scoperta a Winnicott, ci sembra più adeguato. Il creatore si
sente direttamente compreso dal suo amico come il piccolo lo è, intuitivamente,
da sua madre. Quasi incapace di dissociare dal principio di piacere un
principio di realtà (senza di che non sarebbe inventivo) e avendo bisogno di
affidare a qualcuno in cui ripone totale fiducia il compito di procedere, al
posto suo, alla prova di realtà, egli elegge il suo partner a tramite e
intermediario tra questa realtà e lui stesso, mentre, allo stesso tempo, si
procura un va e vieni di onnipotenza fantasmatica in una sorta di commutatività
narcisistica.
Per portare a termine
una creazione, quando si è dominati dal dubbio distruttore, non è forse
necessario ritrovare l’illusione primaria, permessa da una “madre
sufficientemente buona”, di avere pieno potere sul mondo? Tra l’autore e
l’amico, l’opera nasce come uno spazio transizionale.”
Didier Anzieu L’auto-analyse de Freud, Presses
Universitaire de France, 1975, pp. 159-162.
18 luglio 2011 dal blog di “Bartolomeo
Di Monaco”
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