di Davide Pugnana
Solo le bancarelle delle fiere regalano doni librari inaspettati. Lì, in quelle effimere arche, mescolati alla buona sopravvivono autori e titoli scomparsi ormai da decenni, e mai più ristampati. I cacciatori di libri "fuori catalogo" conoscono il piacere di quell'adrenalina delle mani cacciate nel mucchio indifferenziato dei volumi, come sonde marine calate nell'ignota ricerca di piccoli e grandi corpicini dispersi. E' un lavorio nobile e sacro, parente alla lontana dello scavo archeologico.
Per quanto mi
riguarda, l'ultima immersione ha portato alla luce l'introvabile libriccino di
Franco Russoli sul museo, un'edizione Vallecchi del "Dizionario" dei
Tommaseo, le lettere di Augusto Monti e l'esile, aereo, impalpabile Moderato
cantabile di Marguerite Duras. Erano anni che non vedevo questo piccolo romanzo
dimenticato. Se avessi cercato altrove, in canali ufficiali, diciamolo pure: se
mi fossi affidato alle case editrici italiane non avrei ricevute che incerte
notizie, siglate da un definitivo e mortifero: "Ei fu."
Il continente
Marguerite Duras si è trasformato in questa terra solo per metà emersa. E' un
dato di fatto, registrabile direttamente sugli scaffali delle librerie. Il
punto dolente è che questo corpo invisibile di buona parte della produzione
durasiana, nel paesaggio editoriale italiano, non è il risultato di una
sfortuna critica o di una perdita di modernità imputabile all'opera; ossia non
è una scomparsa riferibile a dati 'oggettivi' o endogeni, quali la perdita di
tenuta espressiva o l'inattualità dei contenuti. E', al contrario, un'assenza
che ha un'origine esogena, esterna all'opera, imputabile all'interruzione di
stampa da parte della casa editrice Feltrinelli. La quale ha eliminato dallo
scaffale delle librerie gran parte delle opere più importanti della scrittrice,
riducendone la presenza ai romanzi più vendibili: sostanzialmente, L'amante e
Il dolore. Questa scelta addomestica la produzione di Duras, facendola apparire
nella falsa luce della scrittrice di romanzi d'amore al limite del bollino
"rosa".
Dove sono finite
opere potenti come Una diga sul Pacifico, Il marinaio di Gibilterra o racconti
bellissimi come Le boa e Les chantiers? Perché testi fondamentali come La vie
tranquille e Il ViceConsole, o terribili come La vita materiale, sono stati
deliberatamente esclusi? Perché, forse, non sono più di moda nell'orizzonte di
attesa dei lettori di oggi? Eppure, la scrittura di Duras è quanto di più
'moderno' ci sia: una prosa asciutta, rapida, tutta nervi scoperti, fittamente
dialogica, epifanica nel suo andare sottopelle alla natura e ai rapporti umani.
Uno stile condotto 'per via di togliere' che Tomasi di Lampedusa avrebbe
certamente collocato nel novero dei romanzieri "magri", i maestri del
non detto che, con infinita sapienza, dicono tutto con poca e avara materia. Se
quello modale fosse il fattore cruciale, allora dovrebbe scomparire anche
l'altra Marguerite della letteratura francese del Novecento, la Yourcenar, che,
per un bizzarro paradosso, figura tutta editata. Proprio lei: la scrittrice
"grassa" par excellent, con i suoi romanzi storici polifonici, colti,
raffinati e sintatticamente complessi. Non è, dunque, una questione di stazza.
Ironia a parte, la
domanda diretta e legittima è quella che ruota attorno al caparbio
"perché". Perché leggere ancora i testi di Marguerite Duras?
D'acchito verrebbe da rispondere perché è una grande scrittrice; ma la frase
suonerebbe vuota e generica, al pari di quel fraseggio dei critici d'arte che
definiscono qualsiasi stesura pittorica con pretese vagamente impressioniste
con "la pennellata veloce e luminosa" .
Per scendere al cuore
dei testi occorre interrogare le radici stesse della scrittura; non solo la
capacità di narrare, non solo la poetica che li sottende e la profondità di
osservazione della natura umana, colta in sé e nella ragnatela, storica e
sociale, dei rapporti. Occorre spingersi molto più addentro. Occorre
intraprendere un viaggio nel lievito cavo e segreto di quegli scenari
fantasmatici che si strutturano negli anni, a partire dal modo in cui i 'fatti
veri' cadono nell'inconscio dello scrittore. In quel cono d’ombre si annidano
le molle generatrici dei grandi classici.
Il grimaldello per capire il côté sommerso della scrittura di Duras è un saggio italiano, uscito quindici anni fa per i tipi casa editrice pisana ETS. Pur essendo molto restio a gerarchie e classifiche, devo convenire che Marguerite Duras un'arte della povertà. Il racconto di una vita, sia il più bel saggio italiano sulla scrittrice francese. In questo caso, il primato non va solo al 'come' è scritto, alla tensione della prosa saggistica tenuta sul filo di confine di registri stilistici diversi (una vena saggistica trepida e lucidamente malinconica, intervallata da snodi narrativi e incursioni di realismo visionario). Il punto di forza di questo lavoro è anche la qualità della ricostruzione dell'itinerario di Duras: il tipo specifico di ricerca e di scavo nelle carte e nei testi di Duras; il modo stesso in cui i documenti vengono intrecciati l'uno con l'altro, all'interno del sistema-Duras e alla luce della storia, con l'obiettivo di non inciampare - e, quindi, di attentamente evitare e criticare - nella mera cronaca biografica, di gusto saintbeuviano e positivista. Gli stessi strumenti psicoanalitici, messi in campo come chiavi ermeneutiche, non peccano di autoreferenzialità, né sboccano nello scabro referto clinico, ma sono tenuti rigorosamente al servizio della verità del testo: essi devono interrogare l'inconscio del testo, sviscerarlo laddove ciò che era vissuto si è fatto scrittura.
Per questo motivo, il
saggio di Norina Fornasier è un viaggio dedicato a quanto di più fondo, oscuro
ed intimo si muove sotto la ricerca di Duras: quella verifica della vocazione
che avvicina, in un accostamento imprevisto e spiazzante, Duras a Proust.
Basti, tra i molti
che punteggiano il saggio, un passo che racchiude lo splendore e l'alto tenore
di questa ricerca: "A lei, la più proustiana forse tra gli scrittori del
nostro secolo, che condivide condivide con Proust la passione della vita allacciata
alla morte e la volontà di 《investire tutto》, a lei, destinata a scrivere dopo l'Olocausto e
compagnadell'Angelo della Storia di Klee, è in qualche modo affidato affidato
il affidato il gesto opposto a quello proustiano: svuotare quel regno
dell'abbondanza in cui niente doveva andare perduto, svuotare quella frase
proustiana che si apre continuamente su se stessa, si apre larga e si dilata
per contenete e ospitare il più possibile del mondo, con la sua bellezza e il
il suo orrore, le sue luci e le sue ombre, tutta quella ricchezza dolorosa che
è la vita sedotta dalla morte. Duras scrive con lo stesso stupore proustiano, e
ama e patisce accettando di essere privatalei, l'artista, di questo 'secolo
breve' della 'felicità' proustiana. Lei scrive 《nell'infelicità
meravigliosa di scrivere》e accetta di
sposare soprattutto il dolore e di accogliere l'ombra mentre la luce rimane,
nella sua opera, come un'invocazione e un'attesa. E così, mentre Proust riempie
la 'casa del linguaggio' di parole 'materne' che seducono la morte nutrendola
con tutti i nomi della vita, così che alla fine, quasi vinta, accetti di
confondersi con essi, allo stesso modo, animata dal medesimo desiderio
proustiano, Duras svuota questa casa di tutte, o quasi, le sue ricchezze."
Il sottotitolo del
saggio, “il racconto di una vita”, può trarre in inganno, richiamando il
lettore nei confini di un genere vagamente romanzesco quali sono le vite
d'artista. È questa la prima pietra d'inciampo da evitare. Non ci troviamo al
cospetto di una biografia dello scrittore. Certo, i primi due capitoli, dedicati
all'analisi delle origini e dell'infazia di Duras, possono avvallare questa
suggestione; ma è sufficiente percorrere le prime cinquanta pagine per
ritrovarsi in uno scenario tutt'altro che cronachistico. In questa lunga
soglia, dedicata alle scaturigini della vocazione di Duras alla scrittura,
accadde qualcosa di strano: ci troviamo a compiere una sorta di movimento in
obliquo che va a tagliare i dati storici e biografici in modo del tutto
inaspettato. Laddove ci si aspetterebbe una crononologia dei fatti troviamo
atmosfere, luci ed ombre, suggestioni sinestetiche, in uno sprofondamento
memoriale che mette in moto un'identificazione assoluta e viscerale dell'autore
con il suo oggetto di studio, accordando tutto il testo su una valenza e un
sapore intimamente proustiani, fin dall'incipit, in quel suo rievocare, sotto
il morso di una luce aurorale, isole remote del vissuto di Duras: “Le sue
radici sono lontane, immerse nelle terre paludose dell'Indocina”.
Questo
attraversamento di taglio degli scenari lontani del romanzo di formazione
durasiano ci conduce nei diversi heimat della scrittrice: luoghi, persone, nomi
che, nelle loro ignote risonanze inconsce, costituiranno, per sempre, la
materia dolorosa e terribile della sua ricerca di verità. E non sono solo i
sostantivi fisici e familiari ad essere messi in gioco. Lungo questo viaggio di
paziente ricucitura e di ostinato ascolto, sono disseminati dettagli che
spalancano tutto un mondo di percezioni sensoriali, prossime a diventare
simbolo o luogo di intensità della parola poetica, così come ci immaginiamo
possano entrare negli occhi di un artista che ancora non ha coscienza piena
della sua vocazione: “la domenica mattina, quando il cielo era tinto di grigio,
di quel grigio che solo il cielo del Nord conosce”; “l'aria fredda [che]
odorava d'inverno”, le immense risaie, le terre alluvionali, le prime parole
messe per iscritto, la mescolanza dell'amore e della morte nell'episodio del
giovane vietnamita e della lebbra a Mékong: “Qui, in questa terra abbagliante
di contrasti, la memoria comincia a tessere la sua trama e disegna i confini di un regno di suoni, colori, di
immagini incoruttibili ed eterne, le radici dell'opera futura.”
Se fossimo costretti
ad usare il termine biografia – questo genere non sempre affidabile della
saggistica - per dare un nome a queste pagine viscerali su Duras, il termine
acquisterebbe la sua giusta luce se corretto con il complemento di
specificazione aggiuntovi da Nabokov: “dello stile”. Biografia dello stile è,
infatti, la definizione più esatta del saggio di Norina Fornasier. Lo
dimostrano tanto le pagine sui nodi di origine, quanto quelle sull'infanzia che
si aprono su un “paese d'acqua” e l'acqua, assieme alla foresta, sarà
l'elemento simbolico che permeerà di sé l'intera ricostruzione dei luoghi della
scrittrice, “luogo di godimento, di fusione, di passività felice” e “trama
fantastica di un paesaggio che è il rovescio del mondo”: Vinh Long, il maestoso
e leggendario fiume Mékong, vicino al quale si dispone la famiglia di Marguerite.
Punto di forza del
saggio è l'assoluta centralità dei testi:, la loro presenza, il loro
rincorrersi e intrecciarsi, è un dato costante e inderogabile, come il più
fidato dei testimoni, come la più fidata delle porte per nominare gli
invisibili meccanismi del sottosuolo. È da questa voce dei testi che Norina
Fornasier costruisce la sua analisi dell'infanzia e della formazione di
Marguerite Duras, dalle pagine memorabili su Saigon, alle dinamiche feroci e
struggenti del rapporto con la madre e il fratello; dagli anni della scuola al
trasferimento in Francia, come assistessimo al passaggio da un mondo di natura
ad un mondo di civiltà. Troppo brevi sono lo spazio della recensione e la
pazienza del suo lettore per poter citare interi passi segnati a lapis durante
la lettura; tuttavia voglio trascriverne almeno uno, capace di dare il polso
della bellezza di questa ricostruzione profonda delle radici durasiane, dal
punto di vista esclusivo e interiore della biografia dello stile :
“Sulla veranda ormai
abbandonata, di fronte a loro è il Siam, immenso e oscuro, con le sue foreste
che nascondono gi animali feroci che lei [Duras] ha imparato a conoscere. Un
silenzio avvolge le cose, il corpo è teso nello sforzo di raccogliere tutto: le
immagini, i profumi, i suoni, il soffio del vento caldo sono raccolti e
custoditi nello scrigno della memoria. Quando le terre natali diventaranno
lontane e il sentimento dell'esilio disegnerà nuovi confini, la memoria
condenserà in poche immagini capitali l'intreccio del vissuto, e l'opera
diventerà la nuova terra. Il testo si costituirà come un tessuto in cui il
ricordo è la trama e l'ordito è l'oblio. L'oblio che non è assenza
irrimediabile ma, come anche Freud e Proust ci raccontano, presenza che si è
allontanata solo momentaneamente da sé.”
In viaggio con l'opera apre la seconda parte del saggio e si configura
come la verifica e la dimostrazione di tutto l'ascolto poroso e paziente dei
primi capitoli. L'analisi serrata delle opere è il banco di prova, testi alla
mano, dell'intreccio pazientemente ordito a partire dagli scenari fantasmatici
dell'infanzia di Duras.Si va da Una diga sul Pacifico a L'aprés midi di M.
Andesmas, passando per i testi chiave di Duras, nella misura breve dei racconti
(Le chantiers, Le boa) e in quella lunga (Il marinaio di Gibilterra, il sublime
Moderato cantabile). Sono queste anche tra le pagine più narrative del
libro.
Ancora un appunto merita di essere fermato. Questo saggio non è solo una biografia dello stile di Duras, o, ancora meglio, per richiamare un binomio proustiano, una serrata analisi della sintesi tra “visione” e “stile”. Esso racchiude anche una piccola antologia portatile; una sorta di diario di letture tenuto in filigrana come una mappa di segni luminodsi che molto ci dicono sull'esperienza dell'autrice. Non c'è sezione che non abbia sulla soglia il testo di un altro autore: la voce ora di un poeta, ora di un filosofo, ora di un narratore, ora di uno studioso che, con la loro intuizione delle cose, riescono, per forza di corrispondenze impreviste, ad illuminare zone inespresse dei testi di Duras. Il nome chiave è quello del Rilke poeta, la cui presenza si dipana come un filo rosso dentro ogni capitolo, a testimoniare una lunga frequentazione e una segreta consonanza di visione con l'autrice del saggio. E con Rilke, Emily Dickinson, Nabokov stesso, Kafka, Nietzsche, il bellissimo passo di Sant'Agostino sul tempo.
Ci sono recensioni
che scaturiscono di getto, senza nessun diaframma e altre che, per molti anni,
rimangono, stupefatte e intimidite, nella lunga e sacra scia d'ombra del libro
che non si sa, o non ci si autorizza, a nominare fno in fondo. Questa
recensione ha atteso ed è cresciuta dentro di me per dieci anni. Dieci anni
lungo i quali infinite volte, nella mente e sulla carta, ho provato a scriverla
senza successo; senza cioè che le parole dessero una pur minima traduzione
della sostanza profonda dell'opera e, attraverso questo, del rapporto
commovente e viscerale che mi teneva, e mi tiene legato a questo
libro-madeleine, come in un'aura senza tempo.
Solo oggi la sproporzione tra la piccolezza delle mie parole e il senso
di questo saggio si è assottigliata quel tanto che mi ha permesso di mettere
per iscritto la mia esperienza di lettura e una zona del mio vissuto irrigata
di malinconia e nostalgia. In questo saggio magistrale si condensa tutta una
stagione di vita, ore e giorni che ne illuminano ogni pagina e ogni suono di
parola.
Ed è su un ricordo
personale, che illumina e racconta una parte di vita e di lavoro dell'autore
del saggio, voglio concludere questa
riflessione. Il 2006, nell’ambito della francesistica pisana - evidentemente in
un torno d’anni particolarmente fecondi – non sapevo sarebbe arrivato
l'incontro più importante della mia vita, quello con Norina Fornasier, il cui
stile e pensiero non assomigliava a nessun altro ascoltato e appreso in ambito
accademico fino a quel momento. Poetessa (Infanzie, Kolibris edizioni, 2012),
studiosa e traduttrice di Baudelaire, esperta di scritture femminili del
Novecento; autrice del più bel saggio italiano su Marguerite Duras (Marguerite
Duras un’arte della povertà, ETS, 2001), Norina Fornasier sapeva leggere il
romanzo francese realista dell’Ottocento con lo stupore intatto e appassionato
di una matricola. Profonda conoscitrice di Freud (e di un metodo psicoanalitico
trasferito sulle opere letterarie senza fumisterie interpretative) e della
natura umana, Norina Fornasier ci parlava di Flaubert dal di dentro del
processo creativo, non solo facendo ruotare le lezioni sulla verità del testo;
attraversando la selva dell’epistolario e degli stadi redazionali di Madame
Bovary; intrecciando l’analisi dei romanzi ad una più vasta rete di discipline
ausiliarie (la storia, la psicoanalisi, la stilistica, l’antropologia, le
pagine di Marx sull’ascesa del capitalismo e sul romanzo come moderna epopea
borghese); ma ci portava soprattutto nel cuore segreto dei romanzi smontando e
rimontando, sotto i nostri occhi, il meccanismo dello stile, l’uso dei dettagli
quotidiani incendiati di ‘realismo visionario’ (ricordo l’analisi dell’irreale
berretto di Charles Bovary nel primo capitolo), ricostruendoci, passo passo,
gli occhiali del romanziere sul mondo, sull’uomo e sulla vita in provincia di
Emma, dal cui angolo di terra Flaubert finiva per cogliere lo spirito della
provincia tout court. Norina Fornasier faceva lezione pensando come un
romanziere, sedotta dal desiderio, forse, che qualcuno di noi avrebbe un giorno
seguito quella strada con coraggio e ostinazione; o, chi, già incamminato, non
l’avrebbe tradita grazie alla resistenza etica e al mestiere di scrivere
esemplati da Flaubert. Nessuno riuscì a farmi capire il profondo senso
dell’apprendistato creativo e il lavorio della malinconia che lo divora e
alimenta, come le lezioni di Norina Fornasier su Flaubert, e, più tardi, su
Baudelaire e Proust.
Nori Fornasier,
Marguerite Duras, un'arte della povertà. IL racconto di una vita, ETS, Pisa,
2001
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