Quando ingenuamente e
con una buona dose di incoscienza, con Angela Palermo, ci siamo messi a
scrivere una biografia psicologica di Frida Kahlo centrata sul costrutto di
disturbo post-traumatico ed i successivi perturbamenti e cambiamenti dell’identità
di quella che in virtù del suo trauma sarebbe divenuta una celebre artista, non
avevamo la minima cognizione della ricchezza e la complessità del soggetto
della nostra ricerca. In questi ultimi anni Frida è giustamente divenuta
un’icona assoluta della femminilità non solo per la sua affascinante e
perturbata arte, nè per la bellezza
meticcia del suo viso e la profondità del suo sguardo, quanto per aver toccato
e spesso anticipato di decenni a tutto campo, nella sua vita e nelle sue opere,
molti dei temi del femminismo e dell’espressività femminile. Tuttavia la sua
complessa biografia riserva ancora moltissimi lati oscuri, talora
contraddittori, che smontano in buona parte lo stereotipo della donna
appassionata e romantica alle prese con un destino ostile. Inoltre è lentamente
emersa la consapevolezza del complesso enciclopedismo che confluisce nelle sue
tele e nei suoi disegni, che li trasforma in enunciazioni visive di assunti
filosofici e religiosi e che smonta definitivamente sia l’idea di una pittrice
sostanzialmente autodidatta, autoreferenziale e naif, che l’etichetta,
affibbiatale da Breton, di “pittrice surrealista”.
Non deve meravigliare quindi che, dopo la pubblicazione di
una ricerca che ad un certo punto andava chiusa di fronte alla percezione della
sua potenziale illimitatezza, nel lavoro di presentazione al pubblico a
Viareggio e Pontremoli, e nelle successive riflessioni che ne sono scaturite,
siano venuti alla luce nuovi elementi, basati sulla scoperta delle fonti più
impensabili dell’opera di Frida, che hanno costretto ad una parziale
risistemazione interpretativa rispetto alle tesi originarie. La maggior parte
di questi elementi nuovi, rinviano ad una serie di problematiche che nel libro
sono ben individuate ma ancora non ben collegate tra di loro: quelle del
rapporto di Frida con la madre e con il materno, quella della sua impossibile
identificazione esclusiva con il femminile, quella della doppiezza e della
maschera dietro la quale si cela ogni identità, quella della riconciliazione
con la madre e con il proprio doppio omosessuale, quella, infine, del dominio
matriarcale rispetto all’universo maschile. Ciascuna di queste problematiche,
come tutto ciò che, di veramente importante, la riguarda, può essere ben
individuata nell’opera di Frida.
Cominciamo da quello che può essere, dal nostro punto di
vista psicoanalitico, considerato il quadro seminale delle problematiche
“pre-edipiche”, come si diceva una volta, di Frida: “La mia balia ed Io” del
1937 (p. 21 del libro).
La mia balia ed Io
Come già abbiamo
scritto, si tratta della rappresentazione dell’allattamento della piccola Frida
da parte di una balia india (la madre naturale, che aveva perduto la figlia
precedente, di cui Frida fu sostituta, ebbe una depressione dopo il suo parto).
La rappresentazione retrospettiva che ne dà Frida appare traumatica sotto molti aspetti: sotto
un cielo grigio solcato da una pioggia ben poco messicana la particolarità
della piccola “Io”, con indosso il vestitino del battesimo, ma col volto impassibile
ed enigmatico di molti ritratti della Frida adulta, indica infatti la
persistenza lifetime degli effetti di questo allattamento: “Io” riceve a
bocca chiusa il latte che, come la pioggia del cielo o l’acqua di una sorgente,
proviene direttamente da una fonte naturale (una ghiandola) anzi che da un seno
caldo e accogliente, individualizzato e riconoscibile. Per quanto la balia
tenga in braccio la piccola Io come la Natura Frida, e Frida Diego ne
“L’amoroso abbraccio dell’universo: la terra (Mexico), Io e il signor Xolotl”
del 1949 (p. 151 del libro), tra le due figure non appare esserci alcun
rapporto emotivo: entrambe guardano verso l’osservatore, non solo non vi è
alcun contatto oculare tra loro, ma esso è reso impossibile dal fatto che la
balia indossa una maschera precolombiana di pietra, che nel libro viene
riferita alla nera maschera del Teotihuacan del 200-600 ospitata al Museo del
Templo Mayor di Città del Messico, ma che in realtà appare più somigliante a
quella Olmeca, più antica (1000-300
a.C) ospitata al Metropolitan Museum di New York (e che
Frida avrebbe potuto benissimo aver visto nel suo primo periodo americano).
maschere Teotihuacan e Olmeca
Non è quindi possibile conoscere il vero volto della balia,
che sembra assolvere una funzione, quella dell’allattamento, come un rito
naturalistico necessario, anonimo e impersonale. La piccola Frida cresce dunque
come le piante che sono fertilizzate dall’acqua del cielo, alimentata dalla
ghiandola di una balia india, scura ed anonima e tutto questo sembra fare di
lei un essere molto più vicino alla Natura che non all’umanità: un essere che,
da adulto, si ritrova ad interrogarsi ripetutamente, anche attraverso il suo
lavoro di pittrice, sia sulla questione della propria identificazione
femminile, sia su quella che vi si connette strettamente, della capacità
generativa che a lei, a causa del suo trauma, ma non solo, verrà traumaticamente
a mancare. In quanto femmina infeconda, incapace di perpetrare la catena
genealogica così ben rappresentata in “I miei nonni, i miei genitori e Io (La
mia famiglia)” del 1936 (p.23), Frida resta una perenne bambina che si
racchiude nell’utero della casa Azùl senza poter mai diventare veramente
adulta, cioè madre (secondo i criteri culturali dell’epoca del cattolicissimo
Messico.
La mia famiglia
In ultima analisi l’infertilità, dovuta sia al grave
incidente subito a 19 anni che le lesionò l’apparato genitale, ma anche,
secondo la documentazione medica ritrovata, ad un ipo-ovarismo e ad una
possibile sifilide silente, è forse il principale dei traumi di Frida, come
giustamente sottolinea anche Diego commentando il terzo aborto di lei (p. 39);
il carattere traumatico di questo evento è esplicitamente riversato, al rischio
di oscenità, in tre delle tele più celebri e perturbanti di Frida, tutte e tre
del 1932, due sulle circostanze del suo aborto (p. 40), ed una, quella più
perturbante in assoluto di tutta l’opera kahliana, “La mia nascita” (1932)
(pp.108-9), nella quale si vede la testa compressa di Frida adulta uscire dal
canale del parto del corpo morto della madre (nella realtà deceduta da poco
tempo), coperta dal sudario ma anche ritratta come Madonna addolorata alla
parete. Associando l’immagine della celebre statua atzeca della divinità
partoriente Tlazolteoltl, la maternità è in questo quadro connessa alla
divinità anche in senso pagano..
La mia nascita |
Divinità partoriente
La soluzione fondamentalmente partenogenetica e
autorigenerativa di questo quadro non appare sufficiente a risolvere la
complessualità materna di Frida, che rappresenta il vero filo rosso di tutta la
vita di Frida ed alla quale dovremmo riferirci per comprendere gran parte della
sua opera, se non tutta, spogliata dalle metafore che la permeano e la
mascherano in superficie, come un contenuto manifesto di un sogno.
Ad esempio, tutte le sue vicende sentimentali, in primis
la complessa storia con Diego, ma un po’ tutti i suoi investimenti romantici,
fusionali, nei quali si è gettata sia con i suoi amanti che con le sue amanti,
ed una diffusa ninfomania (simile a quella della protagonista del film di von
Trier, 2015) che, stando a voci e testimonianze, permeò la sua vita soprattutto
nei periodi di crisi e separazione da Diego, acquistano un senso unitario come terapia di un trauma originario, quello
dell’allattamento, che non le aveva consentito né di sviluppare la capacità di
un rapporto emotivo duale e di un attaccamento sicuro, né un’identificazione
univocamente femminile con la propria madre e come madre. Risulta così chiaro
l’esito finale del rapporto con Diego come quello di una madre che tiene in
braccio il proprio figlio – massimamente espresso in “L’amoroso abbraccio dell’universo”-, senso
ultimo di un rapporto già ampiamente marcato dalla doppia e reciproca fisicità
bisessuale, i grandi seni di lui, i baffi di lei ad esempio (p.44-45); questo
amore così osannato dai patiti degli amori romantici non è in realtà altro che
la risoluzione di un danno pre-edipico: inizialmente Diego aveva svolto per
Frida la funzione di madre e di “contenitore” in grado di restituirle
un’identità ed una unitarietà, mentre alla fine svolge la funzione del figlio
che lei non ha mai avuto: il ruolo di Diego è dunque transitato, in
Frida, da quello di contenente a
quello di contenuto. Ma anche tutti
gli altri amori fusionali e romantici di Frida, ad esempio quello con Josè
Bartoli, scoperto recentemente dopo la pubblicazione delle lettere che lei gli
scrisse negli anni 1946-1949,
ha esattamente la stessa funzione: non a caso lei gli
scrive in una lettera d’amore: “Tienimi
dentro di te, ti prego. Voglio essere la tua casa, tua madre, la tua amante e
il tuo bambino. Ti amerò dal panorama che vedi, dalle montagne, dagli oceani e
dalle nuvole, dal sorriso più sottile e qualche volta dalla più profonda
disperazione.”
Amare per Frida
significava essenzialmente “essere
contenuta” oppure “contenere”
fisicamente e affettivamente.
L’amoroso abbraccio dell’Universo
La trasposizione di Diego, come prototipo di oggetto d’amore
e contenitore materno più a lungo tenuto legato (da cui era impossibile
separarsi) da Frida, a figlio, non è avvenuta, come si sa, senza traumi né senza conflitti, come
rotture, scenate, tentativi di suicidio, impossibilità sia di stare separati
che di stare insieme in un rapporto monogamico: questo amore romantico è in
effetti, come tutti gli amori romantici, fonte di una drammatica conflittualità
sadomasochistica che è abbastanza ben raccontata nel libro e di una lotta di
potere nella quale alla fine Frida prevale.
E’ forse a questo punto che possiamo introdurre un altro dei
temi più importanti per comprendere Frida, il predominio della femminilità e
delle divinità femminili matriarcali rispetto all’elemento maschile, che in
ultima analisi è ridotto ad accessorio, a contenitore o a contenuto della
femmina.
Per comprendere meglio questa interpretazione seguiamo la
pista che potremmo definire, “egizia”, sulla quale ci immettono sia il celebre
“Mosè o Il disco solare” del 1945 (p.151), sia i ritratti dei diari, nei quali
lei e Diego si fondono come in un monumento egizio, col nome di Neferunico e
Neferdòs (p.65).
Mosè o Il disco solare
Il “Mosè” di Frida sarebbe stato ispirato dalla lettura del
“romanzo storico”di Freud “Mosè e la religione monoteistica: tre saggi”
(1934-38), una delle sue ultime opere, nel quale il vecchio psicoanalista
rivendica la nascita e l’origine egiziana di Mosè e il sorgere del monoteismo
come una continuazione naturale dell’unico breve periodo di monoteismo nel
Pantheon egiziano, istituito da Amenofi IV (poi Ekhnaton o Akhenaton) e da sua
moglie Nefertiti: la religione di Atòn o Dio Sole, la cui energia si
manifestava nei raggi solari. Prima di Freud già Abraham nel 1912 aveva
dedicato un saggio a Amenofi IV nel quale enfatizzava il tema del parricidio
simbolico da lui perpetrato rispetto a Amenofi III, che ancora sosteneva il
politeismo, del quale fece scalpellare via tutte le immagini (Pagano 2013).
Sebbene i 18 anni di regno di Ekhnaton siano stati a loro volta oggetto di una
radicale, successiva, iconoclastia, restano diverse immagini soprattutto di
Nefertiti nell’atto di adorare il Sole nel tempio di Atòn a Akhet-Atòn (poi
Amarna).
Nefertiti
La corrispondenza
formale del Sole e dei raggi solari forniti di mano al loro estremo con
quelli dipinti nel Mosè di Frida Kahlo è innegabile, al punto di dover pensare
che la pittrice li abbia copiati o, meglio, citati. Nel Mosè compare anche Nefertiti,
nelle figure di destra rivolte verso il Sole, all’incirca nella metà del
quadro; accanto a lei è raffigurato Mosè adulto, fornito di terzo occhio, che
già compare nella fronte del neonato abbandonato alle acque del fiume nella
cesta ricoperta da una pelle animale, secondo la tradizione mitica più
consolidata.
Già nel libro avevamo scritto come la coppia
Nefertiti-Ekhnaton voleva rappresentare, nella rivisitazione di Frida, una
sorta di unicum androgino totipotente composto nella realtà da lei e da Diego.
Tuttavia delle vicende convulse di questo periodo storico antico le poche
tracce rimanenti sono quasi esclusivamente
legate a Nefertiti, “la bella che viene da lontano” (era infatti di
origine siriane) che, contrariamente a Ekhnaton, fu risparmiata dalla
successiva iconoclastia, e forse considerata di natura divina (Vandenberg
1975).
Sul senso generale del Mosè si rinvia a quanto scritto nel
libro a pp.150-2. Qui ci basta aggiungere che in basso a destra è citata la
balia de “La mia balia ed Io”, secondo una pratica di autocitazione evidente in
altre opere di Frida, come ad esempio in “Ciò che l’acqua mi ha dato” del 1938,
una sorta di antologia di molti suoi
altri quadri, oppure in “Senza speranza” del 1945 nel quale lo stesso
agglomerato di carni morte che riempiva la pattumiera metropolitana in “Il mio
vestito è appeso là” del 1938, colma l’enorme imbuto dell’alimentazione
forzata di Frida ospedalizzata per
anoressia. Le autocitazioni nell’opera di Frida rinforzano l’idea che si tratti
nel suo insieme di una sorta di autoanalisi che ripropone formalmente il
precetto freudiano “ricordare, ripetere, rielaborare”. La citazione de “La mia
balia e Io” nel “Mosè” sembra ribadire che il modo nel quale fu vissuto il suo
allattamento va incluso, nel suo pensiero più maturo, nel culto della religione
solare: è l’energia che dal disco solare, passando per la ghiandola mammaria
della balia india, ha nutrito e allevato Frida, non una singola ed
identificabile persona, non una vera madre. Ma, contrariamente a Freud, che fa
discendere l’ebraismo dal culto di Atòn, per il tramite di Mosè, Frida sembra
invece chiaramente legare la religione del Sole alla potenza generatrice della
Natura e della femmina. Nel quadro Mosè, come feto maturo, è contenuto in un
utero, le cui tube si protendono verso il mondo, raddoppiato da una noce di
cocco aperta in due, mentre il disco solare, se lo si guarda da vicino, è in
realtà un ovulo sulla cui superficie navigano minuscoli spermatozoi in cerca di
una via di entrata. Sul fondo del fiume una conchiglia ed una chiocciola
indicano i due sessi, ribadendo l’identificazione della religione solare con la
Libido freudiana. Il Sole è però, per Frida, un simbolo prevalentemente
femminile (l’ovulo) e la sua religione, come accadde per Nefertiti, non può che
essere officiata da una donna. In un certo senso si può dire che Frida, pur
condividendo fondamentalmente la teoria della libido e il pansessualismo di
Freud, ne riformula una versione speculare, femminile.
In una serie di ritratti, ma soprattutto nel ritratto
fotografico col rebozo (scialle messicano) rosso magenta che le fece
Nickolas Muray nel suo studio newyorkese nell’inverno 1938-9 (quando i due
avevano anche una relazione), Frida è trasformata in una sorta di Madonna
etnica (e seduttiva), mentre nel “Ritratto con la corona di spine”, propone una
sorta di amalgama Cristo-Madonna.
ritratto col rebozo rosso |
ritratto con corona di
spine
Anche in riferimento
al pantheon cattolico, Frida sembra dunque giocare con l’idea che è prevalentemente
una figura femminile a mediare il rapporto col Dio, tuttavia colorandolo
libidicamente.
Il ritratto col rebozo
rosso ci consente anche di rivedere il senso di “Due nudi nella foresta”, il
quadro apparentemente con il contenuto più esplicitamente saffico della
produzione della Kahlo.
Due nudi nella foresta
Si tratta di un
piccolo quadro, che rinvia un’atmosfera di riconciliazione, di pace e serenità,
forse per l’espulsione del perturbante elemento maschile, che forse possiamo
ritrovare nel volto di babbuino che spia la coppia dalla oasi lussureggiante in
mezzo al deserto. Delle due donne, quella col rebozo rosso, di
carnagione più scura, rinvia più o meno esplicitamente a Frida, benchè non ne
abbia i tratti; quella con la carnagione più chiara (europea) giace sul suo
grembo e viene carezzata, come in un gesto di conforto e rasserenamento. Il
quadro, che fu donato all’attrice Dolores del Rio, forse dopo una loro
relazione, potrebbe anche rappresentare, come diciamo nel libro, il “Paradiso
kahliano”, in quanto luogo di riconciliazione e riunificazione dei doppi di
Frida, delle sue due identità di genere, delle sue problematiche di
attaccamento e di conflitto materno: come succede in molti altri doppi, come il
celebre Los dos Fridas (p.17) o Albero
della speranza tieni duro (p. 145), in cui uno dei due ha funzione di
soccorrere, tenere in vita, nutrire o guarire l’altro, una parte di Frida
sembra cullare e rassicurare la parte più fragile e bisognosa assumendo un
ruolo materno verso se stessa.
In definitiva l’intera opera kahliana, nei suoi aspetti più
inquietanti, bizzarri, contraddittori, è
esplicitamente un’autoanalisi artistica che può essere compresa,
piuttosto che come l’esito di una lotta per la sopravvivenza, il mantenimento o
la ricostituzione di un’io scisso in una sorta di sviluppo post-traumatico, come
inizialmente avevamo ipotizzato, come un tentativo di ricomporre i seri
conflitti esistenti rispetto alla figura materna e, in generale, con il mondo
materno e la generazione, dal quale è stata esclusa a causa della propria
sterilità. Nella sua vita e nei quadri,
che ne raffigurano i momenti essenziali in modo essenziale, fondendo
rappresentazioni naturalistiche con l’immaginario inconscio, il conflitto
sembra risolto concependo se stessa come una divinità naturale materna (un
contenitore affettivo e sessuale) sia rispetto a Diego che ad altre figure
maschili e femminili, oltre che ai doppi e alle parti scisse di se stessa.
Riferimenti
Freud S.: L’uomo Mosè e la religione monoteistica: tre saggi
(1934-8). In: Opere, Vol. XI, Boringhieri, Torino.
Pagano S.: Freud e Mosè. Dall’identificazione eroica al
problema dell’eredità psicoanalitica. Youcanprint 2013.
Trier von L. (regia di) Nymphomaniac, Vol I e Vol II., 2015.
Vandenberg P.:
Nefertiti. Una biografia archeologica. SugarCo Edizioni, Milano, 1975.
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