11 agosto 2016

Postille a “Psicoanalisi immaginaria di Frida Kahlo” di Riccardo Dalle Luche e Angela Palermo (Mimesis, 2016)



di Riccardo Dalle Luche

  Quando ingenuamente e con una buona dose di incoscienza, con Angela Palermo, ci siamo messi a scrivere una biografia psicologica di Frida Kahlo centrata sul costrutto di disturbo post-traumatico ed i successivi perturbamenti e cambiamenti dell’identità di quella che in virtù del suo trauma sarebbe divenuta una celebre artista, non avevamo la minima cognizione della ricchezza e la complessità del soggetto della nostra ricerca. In questi ultimi anni Frida è giustamente divenuta un’icona assoluta della femminilità non solo per la sua affascinante e perturbata arte, nè per la  bellezza meticcia del suo viso e la profondità del suo sguardo, quanto per aver toccato e spesso anticipato di decenni a tutto campo, nella sua vita e nelle sue opere, molti dei temi del femminismo e dell’espressività femminile. Tuttavia la sua complessa biografia riserva ancora moltissimi lati oscuri, talora contraddittori, che smontano in buona parte lo stereotipo della donna appassionata e romantica alle prese con un destino ostile. Inoltre è lentamente emersa la consapevolezza del complesso enciclopedismo che confluisce nelle sue tele e nei suoi disegni, che li trasforma in enunciazioni visive di assunti filosofici e religiosi e che smonta definitivamente sia l’idea di una pittrice sostanzialmente autodidatta, autoreferenziale e naif, che l’etichetta, affibbiatale da Breton, di “pittrice surrealista”.


Non deve meravigliare quindi che, dopo la pubblicazione di una ricerca che ad un certo punto andava chiusa di fronte alla percezione della sua potenziale illimitatezza, nel lavoro di presentazione al pubblico a Viareggio e Pontremoli, e nelle successive riflessioni che ne sono scaturite, siano venuti alla luce nuovi elementi, basati sulla scoperta delle fonti più impensabili dell’opera di Frida, che hanno costretto ad una parziale risistemazione interpretativa rispetto alle tesi originarie. La maggior parte di questi elementi nuovi, rinviano ad una serie di problematiche che nel libro sono ben individuate ma ancora non ben collegate tra di loro: quelle del rapporto di Frida con la madre e con il materno, quella della sua impossibile identificazione esclusiva con il femminile, quella della doppiezza e della maschera dietro la quale si cela ogni identità, quella della riconciliazione con la madre e con il proprio doppio omosessuale, quella, infine, del dominio matriarcale rispetto all’universo maschile. Ciascuna di queste problematiche, come tutto ciò che, di veramente importante, la riguarda, può essere ben individuata nell’opera di Frida.



Cominciamo da quello che può essere, dal nostro punto di vista psicoanalitico, considerato il quadro seminale delle problematiche “pre-edipiche”, come si diceva una volta, di Frida: “La mia balia ed Io” del 1937 (p. 21 del libro).



                                                                              La mia balia ed Io



 Come già abbiamo scritto, si tratta della rappresentazione dell’allattamento della piccola Frida da parte di una balia india (la madre naturale, che aveva perduto la figlia precedente, di cui Frida fu sostituta, ebbe una depressione dopo il suo parto). La rappresentazione retrospettiva che ne dà Frida  appare traumatica sotto molti aspetti: sotto un cielo grigio solcato da una pioggia ben poco messicana la particolarità della piccola “Io”, con indosso il vestitino del battesimo, ma col volto impassibile ed enigmatico di molti ritratti della Frida adulta, indica infatti la persistenza lifetime degli effetti di questo allattamento: “Io” riceve a bocca chiusa il latte che, come la pioggia del cielo o l’acqua di una sorgente, proviene direttamente da una fonte naturale (una ghiandola) anzi che da un seno caldo e accogliente, individualizzato e riconoscibile. Per quanto la balia tenga in braccio la piccola Io come la Natura Frida, e Frida Diego ne “L’amoroso abbraccio dell’universo: la terra (Mexico), Io e il signor Xolotl” del 1949 (p. 151 del libro), tra le due figure non appare esserci alcun rapporto emotivo: entrambe guardano verso l’osservatore, non solo non vi è alcun contatto oculare tra loro, ma esso è reso impossibile dal fatto che la balia indossa una maschera precolombiana di pietra, che nel libro viene riferita alla nera maschera del Teotihuacan del 200-600 ospitata al Museo del Templo Mayor di Città del Messico, ma che in realtà appare più somigliante a quella Olmeca, più antica (1000-300 a.C) ospitata al Metropolitan Museum di New York (e che Frida avrebbe potuto benissimo aver visto nel suo primo periodo americano).



maschere Teotihuacan e Olmeca




Non è quindi possibile conoscere il vero volto della balia, che sembra assolvere una funzione, quella dell’allattamento, come un rito naturalistico necessario, anonimo e impersonale. La piccola Frida cresce dunque come le piante che sono fertilizzate dall’acqua del cielo, alimentata dalla ghiandola di una balia india, scura ed anonima e tutto questo sembra fare di lei un essere molto più vicino alla Natura che non all’umanità: un essere che, da adulto, si ritrova ad interrogarsi ripetutamente, anche attraverso il suo lavoro di pittrice, sia sulla questione della propria identificazione femminile, sia su quella che vi si connette strettamente, della capacità generativa che a lei, a causa del suo trauma, ma non solo, verrà traumaticamente a mancare. In quanto femmina infeconda, incapace di perpetrare la catena genealogica così ben rappresentata in “I miei nonni, i miei genitori e Io (La mia famiglia)” del 1936 (p.23), Frida resta una perenne bambina che si racchiude nell’utero della casa Azùl senza poter mai diventare veramente adulta, cioè madre (secondo i criteri culturali dell’epoca del cattolicissimo Messico.



                                                                         La mia famiglia


In ultima analisi l’infertilità, dovuta sia al grave incidente subito a 19 anni che le lesionò l’apparato genitale, ma anche, secondo la documentazione medica ritrovata, ad un ipo-ovarismo e ad una possibile sifilide silente, è forse il principale dei traumi di Frida, come giustamente sottolinea anche Diego commentando il terzo aborto di lei (p. 39); il carattere traumatico di questo evento è esplicitamente riversato, al rischio di oscenità, in tre delle tele più celebri e perturbanti di Frida, tutte e tre del 1932, due sulle circostanze del suo aborto (p. 40), ed una, quella più perturbante in assoluto di tutta l’opera kahliana, “La mia nascita” (1932) (pp.108-9), nella quale si vede la testa compressa di Frida adulta uscire dal canale del parto del corpo morto della madre (nella realtà deceduta da poco tempo), coperta dal sudario ma anche ritratta come Madonna addolorata alla parete. Associando l’immagine della celebre statua atzeca della divinità partoriente Tlazolteoltl, la maternità è in questo quadro connessa alla divinità anche in senso pagano..



La mia nascita
                                                           Divinità partoriente



La soluzione fondamentalmente partenogenetica e autorigenerativa di questo quadro non appare sufficiente a risolvere la complessualità materna di Frida, che rappresenta il vero filo rosso di tutta la vita di Frida ed alla quale dovremmo riferirci per comprendere gran parte della sua opera, se non tutta, spogliata dalle metafore che la permeano e la mascherano in superficie, come un contenuto manifesto di un sogno.

Ad esempio, tutte le sue vicende sentimentali, in primis la complessa storia con Diego, ma un po’ tutti i suoi investimenti romantici, fusionali, nei quali si è gettata sia con i suoi amanti che con le sue amanti, ed una diffusa ninfomania (simile a quella della protagonista del film di von Trier, 2015) che, stando a voci e testimonianze, permeò la sua vita soprattutto nei periodi di crisi e separazione da Diego, acquistano un senso unitario come terapia di un trauma originario, quello dell’allattamento, che non le aveva consentito né di sviluppare la capacità di un rapporto emotivo duale e di un attaccamento sicuro, né un’identificazione univocamente femminile con la propria madre e come madre. Risulta così chiaro l’esito finale del rapporto con Diego come quello di una madre che tiene in braccio il proprio figlio – massimamente espresso in  “L’amoroso abbraccio dell’universo”-, senso ultimo di un rapporto già ampiamente marcato dalla doppia e reciproca fisicità bisessuale, i grandi seni di lui, i baffi di lei ad esempio (p.44-45); questo amore così osannato dai patiti degli amori romantici non è in realtà altro che la risoluzione di un danno pre-edipico: inizialmente Diego aveva svolto per Frida la funzione di madre e di “contenitore” in grado di restituirle un’identità ed una unitarietà, mentre alla fine svolge la funzione del figlio che lei non ha mai avuto: il ruolo di Diego è dunque transitato, in Frida, da quello di contenente a quello di contenuto. Ma anche tutti gli altri amori fusionali e romantici di Frida, ad esempio quello con Josè Bartoli, scoperto recentemente dopo la pubblicazione delle lettere che lei gli scrisse negli anni 1946-1949, ha esattamente la stessa funzione: non a caso lei gli scrive in una lettera d’amore: “Tienimi dentro di te, ti prego. Voglio essere la tua casa, tua madre, la tua amante e il tuo bambino. Ti amerò dal panorama che vedi, dalle montagne, dagli oceani e dalle nuvole, dal sorriso più sottile e qualche volta dalla più profonda disperazione.”

 Amare per Frida significava essenzialmente “essere contenuta” oppure “contenere” fisicamente e affettivamente.



                                                    L’amoroso abbraccio dell’Universo


La trasposizione di Diego, come prototipo di oggetto d’amore e contenitore materno più a lungo tenuto legato (da cui era impossibile separarsi) da Frida, a figlio, non è avvenuta, come si sa,  senza traumi né senza conflitti, come rotture, scenate, tentativi di suicidio, impossibilità sia di stare separati che di stare insieme in un rapporto monogamico: questo amore romantico è in effetti, come tutti gli amori romantici, fonte di una drammatica conflittualità sadomasochistica che è abbastanza ben raccontata nel libro e di una lotta di potere nella quale alla fine Frida prevale.

E’ forse a questo punto che possiamo introdurre un altro dei temi più importanti per comprendere Frida, il predominio della femminilità e delle divinità femminili matriarcali rispetto all’elemento maschile, che in ultima analisi è ridotto ad accessorio, a contenitore o a contenuto della femmina.

Per comprendere meglio questa interpretazione seguiamo la pista che potremmo definire, “egizia”, sulla quale ci immettono sia il celebre “Mosè o Il disco solare” del 1945 (p.151), sia i ritratti dei diari, nei quali lei e Diego si fondono come in un monumento egizio, col nome di Neferunico e Neferdòs (p.65).



                                                         Mosè o Il disco solare



Il “Mosè” di Frida sarebbe stato ispirato dalla lettura del “romanzo storico”di Freud “Mosè e la religione monoteistica: tre saggi” (1934-38), una delle sue ultime opere, nel quale il vecchio psicoanalista rivendica la nascita e l’origine egiziana di Mosè e il sorgere del monoteismo come una continuazione naturale dell’unico breve periodo di monoteismo nel Pantheon egiziano, istituito da Amenofi IV (poi Ekhnaton o Akhenaton) e da sua moglie Nefertiti: la religione di Atòn o Dio Sole, la cui energia si manifestava nei raggi solari. Prima di Freud già Abraham nel 1912 aveva dedicato un saggio a Amenofi IV nel quale enfatizzava il tema del parricidio simbolico da lui perpetrato rispetto a Amenofi III, che ancora sosteneva il politeismo, del quale fece scalpellare via tutte le immagini (Pagano 2013). Sebbene i 18 anni di regno di Ekhnaton siano stati a loro volta oggetto di una radicale, successiva, iconoclastia, restano diverse immagini soprattutto di Nefertiti nell’atto di adorare il Sole nel tempio di Atòn a Akhet-Atòn (poi Amarna).



                                                                                            Nefertiti


La corrispondenza  formale del Sole e dei raggi solari forniti di mano al loro estremo con quelli dipinti nel Mosè di Frida Kahlo è innegabile, al punto di dover pensare che la pittrice li abbia copiati o, meglio, citati. Nel Mosè compare anche Nefertiti, nelle figure di destra rivolte verso il Sole, all’incirca nella metà del quadro; accanto a lei è raffigurato Mosè adulto, fornito di terzo occhio, che già compare nella fronte del neonato abbandonato alle acque del fiume nella cesta ricoperta da una pelle animale, secondo la tradizione mitica più consolidata.

Già nel libro avevamo scritto come la coppia Nefertiti-Ekhnaton voleva rappresentare, nella rivisitazione di Frida, una sorta di unicum androgino totipotente composto nella realtà da lei e da Diego. Tuttavia delle vicende convulse di questo periodo storico antico le poche tracce rimanenti sono quasi esclusivamente  legate a Nefertiti, “la bella che viene da lontano” (era infatti di origine siriane) che, contrariamente a Ekhnaton, fu risparmiata dalla successiva iconoclastia, e forse considerata di natura divina (Vandenberg 1975).

Sul senso generale del Mosè si rinvia a quanto scritto nel libro a pp.150-2. Qui ci basta aggiungere che in basso a destra è citata la balia de “La mia balia ed Io”, secondo una pratica di autocitazione evidente in altre opere di Frida, come ad esempio in “Ciò che l’acqua mi ha dato” del 1938, una sorta di antologia  di molti suoi altri quadri, oppure in “Senza speranza” del 1945 nel quale lo stesso agglomerato di carni morte che riempiva la pattumiera metropolitana in “Il mio vestito è appeso là” del 1938, colma l’enorme imbuto dell’alimentazione forzata  di Frida ospedalizzata per anoressia. Le autocitazioni nell’opera di Frida rinforzano l’idea che si tratti nel suo insieme di una sorta di autoanalisi che ripropone formalmente il precetto freudiano “ricordare, ripetere, rielaborare”. La citazione de “La mia balia e Io” nel “Mosè” sembra ribadire che il modo nel quale fu vissuto il suo allattamento va incluso, nel suo pensiero più maturo, nel culto della religione solare: è l’energia che dal disco solare, passando per la ghiandola mammaria della balia india, ha nutrito e allevato Frida, non una singola ed identificabile persona, non una vera madre. Ma, contrariamente a Freud, che fa discendere l’ebraismo dal culto di Atòn, per il tramite di Mosè, Frida sembra invece chiaramente legare la religione del Sole alla potenza generatrice della Natura e della femmina. Nel quadro Mosè, come feto maturo, è contenuto in un utero, le cui tube si protendono verso il mondo, raddoppiato da una noce di cocco aperta in due, mentre il disco solare, se lo si guarda da vicino, è in realtà un ovulo sulla cui superficie navigano minuscoli spermatozoi in cerca di una via di entrata. Sul fondo del fiume una conchiglia ed una chiocciola indicano i due sessi, ribadendo l’identificazione della religione solare con la Libido freudiana. Il Sole è però, per Frida, un simbolo prevalentemente femminile (l’ovulo) e la sua religione, come accadde per Nefertiti, non può che essere officiata da una donna. In un certo senso si può dire che Frida, pur condividendo fondamentalmente la teoria della libido e il pansessualismo di Freud, ne riformula una versione speculare, femminile.



In una serie di ritratti, ma soprattutto nel ritratto fotografico col rebozo (scialle messicano) rosso magenta che le fece Nickolas Muray nel suo studio newyorkese nell’inverno 1938-9 (quando i due avevano anche una relazione), Frida è trasformata in una sorta di Madonna etnica (e seduttiva), mentre nel “Ritratto con la corona di spine”, propone una sorta di amalgama Cristo-Madonna.



ritratto col rebozo rosso
                                                            ritratto con corona di spine



 Anche in riferimento al pantheon cattolico, Frida sembra dunque giocare con l’idea che è prevalentemente una figura femminile a mediare il rapporto col Dio, tuttavia colorandolo libidicamente.

 Il ritratto col rebozo rosso ci consente anche di rivedere il senso di “Due nudi nella foresta”, il quadro apparentemente con il contenuto più esplicitamente saffico della produzione della Kahlo.



                                                                                   Due nudi nella foresta 


 Si tratta di un piccolo quadro, che rinvia un’atmosfera di riconciliazione, di pace e serenità, forse per l’espulsione del perturbante elemento maschile, che forse possiamo ritrovare nel volto di babbuino che spia la coppia dalla oasi lussureggiante in mezzo al deserto. Delle due donne, quella col rebozo rosso, di carnagione più scura, rinvia più o meno esplicitamente a Frida, benchè non ne abbia i tratti; quella con la carnagione più chiara (europea) giace sul suo grembo e viene carezzata, come in un gesto di conforto e rasserenamento. Il quadro, che fu donato all’attrice Dolores del Rio, forse dopo una loro relazione, potrebbe anche rappresentare, come diciamo nel libro, il “Paradiso kahliano”, in quanto luogo di riconciliazione e riunificazione dei doppi di Frida, delle sue due identità di genere, delle sue problematiche di attaccamento e di conflitto materno: come succede in molti altri doppi, come il celebre Los dos Fridas (p.17) o Albero della speranza tieni duro (p. 145), in cui uno dei due ha funzione di soccorrere, tenere in vita, nutrire o guarire l’altro, una parte di Frida sembra cullare e rassicurare la parte più fragile e bisognosa assumendo un ruolo materno verso se stessa.



In definitiva l’intera opera kahliana, nei suoi aspetti più inquietanti, bizzarri, contraddittori, è  esplicitamente un’autoanalisi artistica che può essere compresa, piuttosto che come l’esito di una lotta per la sopravvivenza, il mantenimento o la ricostituzione di un’io scisso in una sorta di sviluppo post-traumatico, come inizialmente avevamo ipotizzato, come un tentativo di ricomporre i seri conflitti esistenti rispetto alla figura materna e, in generale, con il mondo materno e la generazione, dal quale è stata esclusa a causa della propria sterilità. Nella sua vita e nei quadri, che ne raffigurano i momenti essenziali in modo essenziale, fondendo rappresentazioni naturalistiche con l’immaginario inconscio, il conflitto sembra risolto concependo se stessa come una divinità naturale materna (un contenitore affettivo e sessuale) sia rispetto a Diego che ad altre figure maschili e femminili, oltre che ai doppi e alle parti scisse di se stessa.

  
Riferimenti


 Freud S.: L’uomo Mosè e la religione monoteistica: tre saggi (1934-8). In: Opere, Vol. XI, Boringhieri, Torino.

Pagano S.: Freud e Mosè. Dall’identificazione eroica al problema dell’eredità psicoanalitica. Youcanprint 2013.

Trier von L. (regia di) Nymphomaniac, Vol I e Vol II., 2015.

 Vandenberg P.: Nefertiti. Una biografia archeologica. SugarCo Edizioni, Milano, 1975.


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