di Gianni Quilici
Trovo a Firenze in una libreria a metà prezzo un racconto-romanzo, forse introvabile, di Solzenitsyn “Per il bene della causa”. Dello scrittore russo ho letto diverse opere brevi, nessun grande romanzo.
Di lui Franco Cordelli, lettore onnivoro e molto perspicace e sempre interessante scrisse che “è il più grande scrittore vivente”. Era.
Ed in effetti in questo racconto, che ha la struttura d'un romanzo breve, S. fornisce un quadro della società sovietica staliniana di straordinaria vivezza ed efficacia.
Ci sono molti aspetti calibrati in sequenze di grande forza visiva:
la scuola e la passione con cui gli studenti hanno lavorato per costruirne una nuova, adeguata alle loro esigenze, in cui stanno per(o dovrebbero) trasferirsi, con la figura di una giovane insegnante appassionata e legatissima a loro in un rapporto reciproco;
l'ispezione di una commissione ministeriale, che decide dall'alto di delegare l'istituto agli usi di una non bene definito “centro di ricerche”, controproducente economicamente, oltre che pedagogicamente;
la disperazione, la rabbia, lo stato di confusione in cui precipita il direttore dell'istituto e gli incontri con il segretario politico della zona e di questo con il segretario regionale (due ritratti vivissimi in se' e nel loro contrasto).
Solzenitsyn dà della società stalinista una rappresentazione articolata: alla passione-dedizione-entusiasmo, di chi si sente parte di una causa collettiva si oppongono l'ottusità, l'intransigenza, il dogma fatto persona dal dio partito.
La scrittura è moderna e duttile, funzionale alla storia. Il primo capitolo sembra quasi una sceneggiatura cinematografica, in cui non contano tanto i personaggi, ma l'affastellamento poliedrico delle voci; mentre in altri c'è lo scontro scultoreo nella sua evidenza tra due volontà, due ideologie.
Alexandr Solzenitsyn. “Per il bene della causa”. Tindalo.