Recensione di Ilaria Sabbatini
Ieri sera, per la serie Doc3 della RAI, ho visto il documentario di Hilla Medalia, regista israeliana che con questo lavoro del 2002 realizzava il suo primo lungometraggio. Il titolo era interessante, la regista una donna, israeliana, così ho voluto capire di cosa si trattasse.
Selezione ufficiale del Jerusalem Film Festival e dell’Edinburgh Film Festival il documentario, più che aprire lo sguardo sulle prospettive di dialogo, pare ostaggio di un cortocircuito di argomenti che si inseguono senza soluzione di continuità. Un potenziale dialogo congelato nella logica della ragione e del torto. Si tratta di due storie parallele, due storie di donne, una palestinese diciottenne e una coetanea israeliana, le cui vite sono intrecciate e fuse nel momento della decisione suicida che solo nella morte le rende simili. La tesi – francamente generalista – è che vittima e attentatrice siano state stritolate da una stessa logica di potere. Il che è sicuramente vero, ma non esime dalla necessità di prendere atto di una situazione che non è semplicemente politica. A due anni di distanza la madre della giovane israeliana decide di incontrare la madre della palestinese, ma il loro confronto è per buona parte uno scambio di accuse che, per quanto giustificate, risultano reciprocamente sorde. L’una rinfaccia all’altra la prassi del suicidio stragista, mentre a sua volta viene inesorabilmente ricondotta all’indesiderabile – e malaccetto – ruolo di occupante. Colpisce il grande risalto riservato dalla regista alla questione religiosa che si esplica nell’intervista collaterale a un’altra aspirante suicida politica palestinese. Il suo tentativo è fallito e la giovane, detenuta in un carcere israeliano, si racconta giustificandosi approssimativamente con il Corano. L’episodio lascia alquanto perplessi perché questa figura di donna non è coinvolta nell’azione suicida di cui tratta il film. Per sua stessa asserzione la ragazza riferisce motivazioni personali – quasi esistenziali – indipendenti dal pensiero di gruppi organizzati, e proprio per questo ancor più disperanti. Forse è questa la caratteristica che la assimila all’altra giovane attentatrice suicida, cui è ascritta la riflessione del film. Ma tornando alle due madri, forse vale la pena soffermarsi sulle modalità del loro incontro dal momento che in realtà si sono potute parlare solo attraverso un collegamento satellitare, a causa delle condizioni imposte dall’occupazione. Non è un dato indifferente, è anzi una chiave di lettura per tutta la paradossale storia ripresa dal film. C’è da chiedersi: possiamo chiamarlo dialogo finché – per entrambe le parti – non è garantita la libertà di spostamento entro e oltre il confine che le isola? Ci può essere confronto finché le posizioni non sono paritarie? E’ comunicazione quella in cui manca la consapevolezza reale della condizione dell’altro? La comunicazione, ben al di là della trasmissione, passa inevitabilmente per la presa di coscienza di una situazione. Ci corre la stessa differenza che esiste tra vedere e guardare, sentire e ascoltare. Forse – prendendo spunto da Dolci – si dovrebbe cominciare ad ammettere a tutti i livelli che la distinzione fra comunicare e trasmettere è la stessa che corre tra potere e dominio.