25 settembre 2009
“Etiopia 1984” di Sebastiao Salgado
di Gianni Quilici
E' una di quelle foto quasi stupefacenti che ogni tanto è dato vedere.
E' stupefacente, perché sembra così perfetta da sembrare studiata e composta come in un film, in cui provi e ri-provi una scena fino a trovare l'attimo in cui cogli quella perfezione, che avevi immaginato, nell'inquadratura, nell'espressione dei volti, nella composizione del quadro.
Qui siamo nel Sahel, esattamente in Etiopia, in un mattino del 1984 ed è una delle tante foto che Salgado ha dedicato a questa zona del mondo martoriata dalla siccità. Questi sono profughi nel campo di Korem. Siccità, vento e freddo.
Ciò che (mi) colpisce è innanzitutto un contrasto interno (e molto sottile) alla foto: da una parte povertà, fatica, forse sofferenza, forse solitudine; dall'altra, e insieme, dignità e nobiltà dei corpi e dei volti, perfino una nuda eleganza.
Infatti la foto ha una sua bellezza scultorea con i tre corpi ripresi in primo piano, avvolti da pesanti coperte a formare un unico corpo, collocati in perfetta scansione nello scenario grigio e grandioso del deserto e delle montagne con nello sfondo la presenza di una donna esile e scalza a disegnare un'altra storia, forse un altro percorso.
E però questa bellezza non è soltanto scultorea è esistenziale. Sono gli sguardi e le espressioni, che non chiedono pietà, semmai, nella loro oggettività, comprensione. In particolare il volto del bimbo, quello, a noi, più vicino, quello che meglio individuiamo. Quegli occhi chinati, quella coperta su cui poggia, quei lineamenti armonici, quel pensiero lontano e raccolto diventano poesia, esprimono senza definire: forse una ritrosia, forse una fatica, forse un dolore. Mistero.
Qualcuno ha parlato di estetismo. Come se povertà e sofferenza non potessero avere una loro bellezza estetica, certamente quella bellezza sinonimo di espressività, che nasce da un'umanità per un verso più vicina alla radice del sentire; e per un altro dignitosa, lontana dal chiedere l'elemosina della pietà. Che non si sente, nella foto almeno, altra o inferiore, se non per chi ha una scala di valori classista e giudica secondo pericolosi e gretti pregiudizi.
Sebastiao Salgado è uno dei grandi testimoni del nostro tempo. Con le sue immagini ha rappresentato e continua a rappresentare i grandi eventi che plasmano e trasformano il mondo in cui viviamo: la vita nelle campagne e nelle miniere in America Latina, la tragedia della siccità nei paesi africani, i lavori dimenticati, il movimento incessante di grandi masse che per guerre, necessità, desiderio di vita migliore sono costrette a spostarsi. Da otto anni sta lavorando ad un progetto per ritrarre ciò che resta della natura incontaminata. “Ho chiamato questo lavoro Genesi” dice Salgado “perché il mio obiettivo è tornare alle origini del pianeta: all'aria, all'acqua, al fuoco da cui è scaturita la vita, alle specie animali che hanno resistito all'addomesticamento”. (Ian Parker da “ D, la Repubblica delle Donne, 22 ottobre 2005).