03 settembre 2009

"Nino Costa e la passione del vero" di Luciano Luciani




Si intitola “Da Corot ai Macchiaioli al Simbolismo. Nino Costa e il paesaggio dell’anima” la mostra aperta al pubblico nelle sale di Castello Pasquini a Castiglioncello e visitabile fino al 1 novembre di quest’anno. Tesa a indagare il ruolo svolto dalla Toscana del secondo Ottocento come crocevia culturale di respiro europeo, la mostra, curata da Francesca Dini e Stefania Frezzotti, s’incentra sul ruolo ‘strategico’ svolto dal pittore romano Nino Costa, all’origine delle più vivaci esperienze artistiche – e non solo – del complicato periodo compreso tra il Risorgimento politico e la belle époque.
Già, ma chi era Nino Costa e perché si torna a parlare di lui?

Tra fucile, cospirazione e pennello

Uomo appassionato alle vicende storico-politiche dei suoi tempi complicati e difficili e coerente protagonista e testimone degli anni del riscatto nazionale; pittore originale, raffinato ed apprezzato in Italia e ancor più all’estero; penna tra le più robuste ed incisive tra le numerose della memorialistica garibaldina, Nino Costa, “dopo avere offerto tutto il proprio magistero di stilista all’arte, tutta la propria virtù di cittadino alla patria” (F. Sapori) muore a Marina di Pisa il 31 gennaio del 1903, concludendo un’esistenza mossa, ricca, intensa che, ancora oggi, in occasione dell’anno centenario, merita di essere ricordata e studiata.

Romano, trasteverino di San Francesco a Ripa, Giovanni (Nino) Costa nasce nell’ottobre del 1826 da una famiglia di umili origini ma agiata e fedele al governo pontificio: il padre da modestissimo cordaio era diventato un rispettato industriale della lana e a Nino, quattordicesimo di sedici figli, è possibile studiare. La sua formazione avviene prima in collegio a Montefiascone, poi a Roma nel Collegio Bandinelli a San Giovanni dei Fiorentini, una delle più rispettabili istituzioni educative romane. Solo al termine degli studi regolari può finalmente dedicarsi alla pittura, per la quale sentiva una vivissima vocazione, frequentando, senza particolare soddisfazione per la verità, gli studi dei più apprezzati pittori romani del tempo: il barone Vincenzo Camuccini (1771-1844), esponente del neoclassicismo romano e Filippo Agricola (1795-1857), uno dei più noti esponenti del ritratto neoclassico di gusto raffaellesco. Ma la Storia con la S maiuscola irrompe ben presto nella vita privata del giovane Costa e lo distoglie da una sicura crescita artistica. Nel 1847 si iscrive alla “Giovane Italia” e l’anno seguente si arruola volontario nella Legione Romana: partecipa alla difesa di Vicenza e rimane nel Veneto anche dopo l’allocuzione papale del 29 aprile 1848, che sancisce l’inizio dell’involuzione politica del moto italiano. Rientrato a Roma, si fa notare per aver strappato, insieme a Gaspare Finali, le insegne austriache da Palazzo Venezia:democratico è prima accanto a Ciceruacchio, poi a fianco di Mazzini. Durante la Repubblica Romana, membro della Municipalità, si occupa di sanità, di ospedali, di approvvigionamenti, responsabilità che non gli impediscono di battersi valorosamente agli ordini di Garibaldi, che lo chiama a far parte del suo Stato maggiore. Nino è in prima fila a Villa Pamphili, al Casino dei Quattro Venti, al Vascello…

Moderato in politica, rivoluzionario in pittura

“Tornata Roma sotto al dominio dei preti, dovetti nascondermi perché compromesso politicamente ed allora mi dedicai alle arti belle sotto la direzione di un certo Massabò scolaro di Coghetti, quindi passai da Podesti né questo essendo ancora di mia soddisfazione entrai nello studio di Chierici, ma anche questo non mi appagava ed allora lasciava l’aria dello studio, e della stufa, gettandomi alla campagna onde studiare il vero all’aria aperta…”: così scriverà qualche anno più tardi il Costa a Diego Martelli, critico d’arte, amico e sostenitore dei Macchiaioli, esprimendo con semplicità e vigore le sue convinzioni sia politiche sia artistiche. Certo, il magistero dell’ anconetano Francesco Podesti (1800-1895), celebre ed affermato illustratore di soggetti storici, sacri e mitologici non poteva soddisfare l’ansia di verità del giovane artista romano. Così nel 1857 Nino Costa lascia Roma e si trasferisce ad Ariccia nei Castelli romani: qui, con maggiore pienezza gli è possibile essere immerso nelle luce e nei colori di quella Campagna romana, le cui rappresentazioni qualche anno più tardi lo avrebbero reso celebre in Italia e fuori d’Italia. Stabilisce vincoli d’amicizia e d’arte con importanti pittori inglesi quali Federico Leighton e George Mason che a Roma vivono e lavorano.
In questi anni partecipa anche alla generale evoluzione politica di molti rivoluzionari del ‘48/’49: si stacca da Mazzini, si avvicina alla monarchia sabauda, si fa moderato perché “per vincere cannoni e soldati occorrono cannoni e soldati, occorrono buone armi: buone armi e non ciancie. Il Piemonte ha soldati e cannoni: dunque io sono piemontese. Il Piemonte, per antica consuetudine, per educazione, per genio e dovere, oggidì è monarchico: io dunque non sono repubblicano”: uno stato d’animo diffuso tra l’opinione pubblica nazionalista della penisola negli anni Cinquanta del XIX secolo e ben espresso dalle parole, appena riportate, di una lettera di Aurelio Bianchi-Giovini all’ “Unione” di Torino.
Nella primavera del 1857, dopo una visita di Pio IX alle Legazioni, nel corso della quale il pontefice è accolto con freddezza se non con astio, Costa dà prova della sua intelligenza politica: sottoscrive un documento indirizzato al municipio romano in cui, con equilibrio ma con fermezza, si rivendicano amnistia e riforme.

Nino Costa e Giovanni Fattori

Due anni più tardi, alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza, interrompe di nuovo l’attività artistica per arruolarsi nell’esercito piemontese nel reggimento cavalleggeri Aosta: un atto con una forte valenza simbolica che sta ad indicare la volontà dei romani di partecipare con pienezza di responsabilità alle vicende della causa nazionale. Subito dopo Villafranca torna alla tavolozza e ai pennelli: è prima a Milano, poi a Firenze dove frequenta l’ambiente degli artisti che che si ritrovano presso il Caffè Michelangelo. Sono i cosiddetti Macchiaioli, propugnano una pittura non di scuola, intesa, come ebbe a dire il più illustre tra loro, Giovanni Fattori, a riprodurre “l’impressione del vero”. Loro intenzione è quella di “rompere col passato accademico ed anche con la moda del momento, e riformare l’arte con la ricerca del vero, fatta nel modo più franco semplice e coscienzioso…”
L’incontro con Nino Costa è determinante per la maturazione artistica di Giovanni Fattori: durante lunghe passeggiate in campagna, occasioni che per il pittore toscano sono delle vere e proprie “lezioni” en plein air, Costa era solito spiegare la sua visione artistica e l’interesse per una rappresentazione sintetica e vera del paesaggio. E’ proprio Costa, mentre un giorno osserva Fattori impegnato nel suo studio nella realizzazione di una grande composizione avente per argomento un episodio della storia medicea medievale, a stimolarlo invece verso una pittura capace di rappresentare la realtà contemporanea: si racconta che Fattori, allora, abbia imbiancato la scena fiorentina e girata la tela per dipingervi sopra la straordinaria immagine di una battaglia tanto recente quanto decisiva per le sorti dell’unità nazionale. Nasce così la Carica di cavalleria a Montebello (1862) ed è uno dei quadri più celebri del Fattori, il primo di una serie di memorabili dipinti ispirati alle campagne risorgimentali che preceduti da infiniti studi dal vero rappresenteranno al meglio il suo essere artista e garibaldino.

Nino a Porta Pia

Nel 1862 Costa è a Parigi dove espone il quadro Donne che portano la legna a Porto d’Anzio, già presentato a Roma nel ’56 e a Firenze nel ’61. Il quadro è accolto senza difficoltà dalla giuria del “Salon” e contemporaneamente al “Salon des refusés” presenta uno Studio di alberi di olivo. Incoraggiato dal successo di questi due lavori, il pittore romano presenta ai colleghi francesi la sua raccolta di studi dal vero condotti sui luoghi e i personaggi della campagna romana e della costa toscana: li apprezza soprattutto Corot, l’anticipatore della rivoluzione degli impressionisti, un artista da sempre ammaliato dalla luce mediterranea. Da Parigi Nino Costa si trasferisce a Londra dove la sua ricerca artistica era già ampiamente conosciuta; quindi nel 1864 torna di nuovo a Roma, secondo la sua schietta ammissione “per cospirare”: un’attività non nuova per lui e che lo impegna per un triennio. Nel marzo del 1867, infatti, anche per impedire ai mazziniani di conquistare l’egemonia del movimento nazionale fonda un “Centro di insurrezione” e lo sostiene con i propri mezzi economici. Fedele alle indicazioni di Garibaldi lascia che l’organizzazione da lui promossa e sostenuta confluisca nella “Giunta Nazionale Romana” alla quale sola sarebbe spettato il compito di promuovere e guidare un moto insurrezionale che collegato con gruppi di insorti in azione nell’Agro romano avrebbe dovuto provocare l’intervento dell’esercito italiano. Nino esce da Roma, raggiunge Garibaldi a Monterotondo ed entra a far parte dello Stato maggiore del Generale. Si batte a Mentana e accompagna l’Eroe dei due Mondi fino a Figline, alle porte di Firenze dove Garibaldi è arrestato. E’ tra i firmatari della protesta per la sua detenzione. Poi ancora Firenze, ancora tavolozze e pennelli e si arriva al 1870. Nino è’ tra i primi ad entrare a Roma; in ottobre collabora all’organizzazione del plebiscito che restituisce Roma all’Italia. In novembre è eletto consigliere comunale, carica che ricoprirà per sette anni: esauriti gli incarichi amministrativi per oltre un quarto di secolo la sua esistenza riguarderà solo gli impegni dell’arte.

Trent’anni di indefessa attività artistica

Di quel 1870, così decisivo per la storia del nostro Paese, è La Seminatrice, una tela in cui Nino Costa testimonia una nuova, più consapevole maturità artistica esprimendo la sua predilezione per una natura incontaminata che entra in comunione con la presenza umana solo attraverso la ritualità antica del gesto proprio di un mestiere tanto semplice quanto remoto nel tempo.
A partire da quell’anno e per oltre un trentennio Costa riproporrà tenacemente la sua poetica: cioè, riprodurre la natura dal vero, riflettendola nella sua pittura con la stessa vivacità con cui l’artista la coglie, la percepisce, fissandone la prima, decisiva impressione in un rapido studio. E doveva assolutamente essere rapido “perché mutevoli e di breve durata sono gli effetti pittorici, e raramente, anzi mai, ritornano nell’identica maniera” (Giuseppe Cellini). Si tratta di un modo nuovo di intendere e praticare la pittura di paesaggio: la fonda sullo studio diretto del vero, la passa – come il pittore romano ebbe modo di affermare - al filtro del “sentimento del pensiero” attraverso il quale supera la pura e semplice “veduta”. Insomma, la sua è un’interpretazione nuova, spiritualizzata della natura: un dato luogo, in un momento dato quale riflesso del nuovo modo di sentire dell’uomo moderno: “L’artista al cospetto della natura sceglie tra la molteplicità delle apparenze quella che suscita un’eco nel suo pensiero e nel suo sentimento (Angelo Conti).
Fonda l’associazione “In Arte Libertas” intorno alla quale si stringono artisti come Enrico Coleman, Norberto Pazzini, Napoleone Parisani, Edoardo Gioia, Giuseppe Cellini, Aristide Sartorio, Adolfo De Carolis e molte altre personalità della scena artistica italiana tra Ottocento e Novecento. Le mostre organizzate dall’associazione che lo ebbe come maestro e decisivo punto di riferimento - in particolare quelle tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta - costituirono una decisa frattura con l’ambiente accademico ufficiale: la pittura di paesaggio e la ritrattistica proposte da questi artisti si muovevano, infatti, nel senso di favorire ogni esperienza di superamento del verismo, scaduto ormai ad anedottica bozzettistica, in favore di una nuova relazione, psicologica e simbolica, con la realtà. Luogo privilegiato di questi pittori la campagna romana e le paludi pontine di cui vengono colti dal vero la serenità, la pace, il senso di quiete, i giochi dei riflessi di luce e le loro variazioni, le suggestioni di luoghi in cui natura e storia si incontrano. La poesia dal vero porta questi artisti a privilegiare l’uso della tempera, dell’acquarello e del pastello in dipinti di piccolo formato come avviene nel caso di Sartorio, forse il personaggio più illustre di questa cultura pittorica che si va orientando nel senso di un simbolismo intimista, acuto, di una freschezza virgiliana.
Il valore della pittura di Nino Costa ebbe consacrazione in Inghilterra dove era già stato apprezzato dal Leighton, dall’Howard, da William Blake Richmond, autori con i quali il pittore romano aveva lavorato in Italia e cospirato al tempo degli “eroici furori”: a Londra nel 1882 espone con grande successo oltre sessanta tele in cui risaltano “la minutezza del miniaturista nel profilare le cime dei monti lontani, nello sciogliere l’acqua tra l’erbe…la leggerezza degli steli, la vaporosità di certe spighe sospese nell’aria” (Francesco Sapori). Allo stesso 1882, un anno particolarmente fecondo, risalgone tre lavori straordinari per i colori personalissimi e la capacità di racchiudere estesi orizzonti in un piccolo spazio : Ritratto d’una figlia, Castello di Normandia, Una sera a Lerici.
Nel 1896 una sua tela, Il risveglio è accolta, ancora vivente l’autore, alla National Gallery.
Una sua Leda realizzata nel 1900 influenzerà il giovane Amedeo Modigliani che nella primavera del 1901, di ritorno da Capri, aveva avuto modo di frequentare il suo studio a Roma e ne era rimasto talmente impressionato da riproporne atmosfere e tematiche in un’opera poco conosciuta e dimenticata dai più, Il canto del cigno.

Quel che vidi e quel che intesi

A partire dal 1892-93 Costa iniziò a dettare alla figlia Giorgia le proprie memorie. La narrazione si interruppe nel 1896 e l’artista romano la riprese negli ultimi anni della sua vita, quando Olivia Rossetti Agresti ottenne le informazioni necessarie ad una biografia del pittore. Le pagine dettate alla figlia e quelle raccolte dalla Rossetti in Giovanni Costa, His life, work and times, edito a Londra nel 1904, un anno dopo la scomparsa di Nino, costituirono Quel che vidi e quel che intesi, uscito solo nel 1927, a cura di Giorgia Guerrazzi Costa in occasione del centenario della sua nascita. Di questo testo, considerato tra i migliori della vasta letteratura garibaldina offriamo alcuni giudizi critici:
“Vibrante, senza compiacimenti retorici, con un felice gusto del racconto, la pagina del Costa è come dominata dall’immagine di Roma che fu la cara suggestione della sua vita di cospiratore e di combattente, un’immagine che egli vagheggia come creatura viva, dolcemente amata” (Gaetano Mariani);
“Sono, le sue, note rapide, nervose, incisive, che pur nel loro stile dimesso e spoglio di ogni artifizio rettorico, rivelano pienamente la fede e la nobiltà d’animo dello scrittore” (Bianchi-Pazzaglia).