21 settembre 2009

"Pianura" poesia di Letizia Pantani


di Gianni Quilici


Da due anni Letizia Pantani ci ha lasciato.
Difficilmente chi l'ha conosciuto potrà dimenticare il suo volto, combattivo e insieme ferito.
Su Arcipelago ha scritto un anno fa, in occasione dell'uscita del libro “Sei tamburo che rulla”, una penetrante recensione Igor Vazzaz
Vorrei ritornarci però “toccando” una sola poesia, perché il libro di Letizia è denso e complesso e, alle poesie soprattutto, si può finire per non dare lo spessore e l'attenzione, che esse meritano.
Scelgo “pianura”, dalla raccolta At/tese e (vi) suggerisco di leggerla a voce alta, verso per verso, lentamente, perché è una poesia in cui la voce prende suono, forza.





At/tese.14

Avevo ereditato un corpo sconfinato
in cui non esisteva barriera
ed i ponti si rincorrevano
e le finestre si affacciavano
su mari senza limite
invasione di corpi e di voci
immaginari colmi temuti
odori potenti che penetrano
untuosità che avvolgono
legami che stringono
in un'alba continua di segni
pianura

E' infatti senza segni di punteggiatura, una successione travolgente di immagini, di movimenti, di spazi, di contatti, di desideri.

Se fossi insegnante in una scuola, e dovessi con gli alunni interpretarla, chiederei: “In quanti parti la dividereste questa poesia?”.
Avrei già una mia risposta: (io) la dividerei in tre sequenze, che nel profondo corrispondono ad un solo unico soggetto.
Questo è un io-corpo sconfinato ed ereditato.
Due parole che si presterebbero ad una di quelle conversazioni che partendo dall'ovvio finiscono per allargarsi oltre l'io, oltre la poesia stessa.
“Sconfinato” senza confini, è, infatti, un aggettivo denso nel suo dirsi-sentirsi, oltre che nel suo senso; ed “ereditato”? Per “ereditato” porrei una domanda la cui risposta non può che dilatarsi oltre misura. Può essere ereditato da padre-madre-famiglia, dall'ambiente, ma anche dai sotterranei della Storia e, perché no?, dalla Specie. Già ci si inoltrerebbe, oltre il quotidiano, in spazi ed in tempi grandiosi.

Però questo io-corpo attraversa, nella “pianura” tre successioni di momenti.
Il primo (momento): è uno spazio in un movimento senza limiti prefissati (ed i ponti si rincorrevano/ e la finestre si affacciavano/ su mari senza limite...”).
Il secondo: è il rapporto-contatto che diventa osmosi (penetrano, avvolgono, stringono), anche contrastato (“untuosità”) o ambiguo (“legami che stringono”).
Il terzo, infine: tutta quanta questa successione travolgente di sguardi e di sentimenti in un continuo ri-sorgere (“in un'alba continua di segni”).

Però la poesia è linguaggio ed allora:
la forza di alcune parole prese singolarmente e soprattutto nel loro contesto: da “sconfinato” a “untuosità”, dalla scansione di “che penetrano” “che avvolgono”“che stringono”;
la forza di una musicalità che cresce verso per verso attraverso la successione martellante di visioni che si accumulano;
la forza di un senso o, se volete, di un messaggio che aspira a non avere limiti, che si dibatte tra finito-infinito desiderando una simbiosi non individualistica, collettiva.

E' una poesia, quindi, che si presta alla declamazione passionale, che si allarga nello spazio, corre nel tempo, abbraccia nella continua mutazione del tutto.

da ARCIPELAGO, bimestrale dell'Arcidi Lucca.