24 marzo 2010

"Il rovello e l’utopia" di Memo


di Luciano Luciani

Un’ispirazione che si alimenta delle esperienze emozionali proprie di una condizione umana degradata e miserabile; scenari urbani e angosce esistenziali; i colori forti e ribaditi di una scrittura incisiva e marcata: queste le caratteristiche salienti della poetica espressionista di Memo, il fil rouge che lega i racconti di Attenti all’uomo bianco, la sua opera prima risalente al 1995, alla successiva piece teatrale, Le altre isole, a questo suo ultimo Il dono, racconto lungo col respiro del romanzo.


Pagine in cui l’Autore reitera, in maniera quasi ossessiva, un nucleo tematico sempre presente alla sua immaginazione e costantemente rielaborato e rimodulato: le donne e gli uomini “diversi”, “irregolari”. Il popolo sempre più vasto dei poveri tra i poveri, coloro per i quali non bastano più le definizioni sociologico / burocratiche di “povertà relativa” o “povertà assoluta”. Quelli che non hanno nulla: nessun lavoro e nessuna risorsa, niente casa e scarsa salute. Vivono in mezzo a noi nelle città, ma sempre e solo sulle strade. Di giorno, dimorano in certe piazze malfamate e ad orari fissi occupano le sale d’aspetto delle stazioni ferroviarie. Cacciati, trovano rifugio nei rari centri d’accoglienza e assistenza. Di notte, la loro esistenza è tutta dentro una scatola di cartone. Quando li incontriamo li scansiamo, li scavalchiamo. Sono le vittime delle logiche feroci dell’economia e del mercato, gli scarti degli inesorabili intrecci tra Storia grande e fragilità esistenziale: barboni, matti, prostitute, profughi ed esiliati di ogni tipo, figli di ogni precarietà e di tutte le dipendenze. Esseri umani già dentro il cono d’ombra di miserie assolute e irrimediabili, le vecchie e le nuove e, per di più, ròsi dalla memoria pungente di un ruolo sociale una volta posseduto e poi perduto o rifiutato.

In una società rischiarata solo da luci tanto accecanti quanto artificiali, sono proprio gli abitanti dell’area opaca e illune della precarietà e della deprivazione a rappresentare per l’Autore il paradigma umano più adeguato a comprendere la nostra natura profonda e il futuro che ci aspetta.

Il Professore, Enzo, Marisa, Maria, il Pittore, il Segaligno, e tutte le altre figure e figurine che animano e riempiono del loro intenso afrore di umanità i luoghi cari a Memo (angiporti, osterie, pensioncine da quattro soldi, case popolari di quartieri periferici, viuzze di città di mare…), incarnano un tormento interiore e una speranza: il rovello, bruciante, dell’ineluttabilità della nostra società attuale, profondamente sfregiata dall’ingiustizia e che per riprodursi non trova di meglio che divorare i propri figli più deboli; l’utopia per la quale, in mancanza di un’ azione collettiva capace di realizzare l’armonia sociale, possano comunque schiudersi i fiori della dignità, della solidarietà, della condivisione. Dell’amore, insomma, e proprio tra i meno fortunati.
Certo, nella realtà, quella degli uomini e donne in carne e ossa, le cose non vanno mai come nei romanzi e Memo è troppo esperto della vita e delle persone concrete per ignorarlo ed illudersi.

Però, è bello raccontare storie che prevedano il dispiegarsi di sentimenti forti tra i più deboli, narrare di riscatti e risarcimenti, magari parziali, modesti, precari, ai soprusi e alle iniquità di sempre.
Consapevoli, l’Autore e i Lettori, che “La vita… è fatta di tante storie, e le storie finiscono”.


Memo (Domenico Izzo), Il dono, ETS Pisa, pp. 108, E. 7