Assistiamo giustamente commossi a trasposizioni cinematografiche che raccontano dello sterminio, nel secolo scorso, degli indiani d’America, ma continuiamo, però, ad avere scarsa conoscenza della repressione del brigantaggio nel Mezzogiorno d’Italia, un secolo e mezzo fa.
Ancora un altro esempio di questa colonizzazione culturale: l’assedio di Fort Alamo (1836) e la sua “epopea” – in fondo una delle tante manifestazioni dell’imperialismo americano nei confronti del debole vicino messicano – sono conosciuti più di altre epiche a noi più vicine e di segno certamente più democratico, come, sempre per rimanere nell’ambito degli assedi, le vicende della Repubblica romana e della Repubblica di Venezia del 1849.
Ci sarebbe, insomma, ancora quasi intatto e tutto da scoprire un patrimonio di fatti eroici e meno eroici, di personaggi, di esili, di fughe, di amori, di tradimenti cui attingere a piene mani per riequilibrare questa situazione, per recuperare, come già argomentava trent’anni or sono un intellettuale moderno e raffinato come Luciano Bianciardi (che ne sapeva sia di vicende risorgimentali, sia di Far West), la parte migliore, la più generosa e vivace del nostro passato prossimo.
Questa ricchezza tematica è costituita in gran parte dalla epopea garibaldina, narrata nell’abbondante memorialistica che per circa mezzo secolo compagni, commilitoni ed ammiratori di Garibaldi seppero instancabilmente alimentare: autori come Ippolito Nievo, Alberto Mario, Giuseppe Guerzoni, Anton Giulio Barrili, per ricordare i più noti, meriterebbero una maggiore attenzione dalla editoria alla scuola.
Questa premessa, un po’ polemica e un po’ sconfortata, serve per introdurre quel Giuseppe Bandi autore de I Mille, il testo più affascinante sull’impresa dell’Eroe dei due mondi che anche un critico severo come Benedetto Croce giudicava il frutto più riuscito nell’abbondante memorialistica ispirata alle imprese in camicia rossa.
Nato nel 1834 a Gavorrano in provincia di Grosseto, dopo aver studiato ad Arezzo e Lucca, si laureò in giurisprudenza all’Università di Siena. Mazziniano, segretario del comitato fiorentino della Giovine Italia, come tanti suoi coetanei romantici alternava la poesia all’iniziativa politica. Così nel 1857 esordiva alle lettere con una raccolta poetica dal titolo assai indicativo: Versi italiani. Fermato una prima volta in occasione dei moti repubblicani di Livorno, arrestato prima nel marzo e poi nel luglio 1858, fu condannato ad un anno di reclusione che scontò nel carcere di Forte Falcone a Portoferraio nell’isola d’Elba. Scarcerato subito dopo la pacifica rivoluzione di Firenze e la partenza del Granduca nell’aprile del 1859, il Bandi si arruolò volontario e partecipò alle operazioni di guerra in Lombardia. Sottotenente nella Divisione toscana dell’esercito dell’Italia centrale, venne scelto da Garibaldi come ufficiale per la sua ordinanza. L’anno seguente, di guarnigione ad Alessandria, venne chiamato da Garibaldi per partecipare alla preparazione della spedizione dei Mille. Accorso immediatamente a Genova, il Bandi seguì il Generale da Quarto a Capua. Ferito a Calatafimi, promosso capitano e poi maggiore, assegnato alla brigata Medici, tornò a combattere a Milazzo meritandosi le lodi di Garibaldi (“Bandi, siete un eroe!”) e al Volturno.
Per dirla con lo storico inglese Denis Mack Smith era “un rivoluzionario, un apostolo dell’azione, un repubblicano, tre atteggiamenti che venivano ugualmente biasimati dai benpensanti dell’epoca”. Ritornato nell’esercito regolare riuscì a conservare il suo grado di maggiore e al comando del suo battaglione si distinse in occasione della sfortunata battaglia di Custoza (1866) e fu decorato con la croce dell’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Cresciuti i motivi d’attrito con i suoi superiori, questo garibaldino per istinto e temperamento lasciò l’esercito nel 1870.
Si dedicò allora al giornalismo. Collaborò prima alla “Nazione” di Firenze, diresse poi la “Gazzetta livornese” di cui divenne proprietario nel 1876. Nel 1877 fondò “Il Telegrafo”. Penna amabile del giornalismo italiano, seppe sempre mantenere una sua autonomia di giudizio ed una sostanziale libertà di critica anche quando i suoi amaci e commilitoni salirono al potere. Nel 1889 fu preso di mira dagli anarchici di cui aveva condannato l’uso del terrorismo: all’inizio dell’anno una bomba fu fatta esplodere nella direzione dei suoi due giornali. Nel 1893 altro attentato contro di lui e l’anno seguente, a causa di alcuni articoli nei quali criticava con forza l’omicidio politico per mano anarchica del presidente della Repubblica francese Sadi Carnot, il 1° luglio venne ucciso a pugnalate.
Eppure il Bandi si era dimostrato tutt’altro che insensibile alla questione sociale e in occasione dei fasci siciliani aveva scritto che quelle agitazioni erano “il frutto di odi accumulati da generazioni di uomini ridotti allo stato di vita bestiale, contro generazioni di sfruttatori che per stolto egoismo, riducendo alla disperazione i loro sottoposti, stanno per trarre il Paese, se stessi ed altrui alla completa rovina”. Non rinnegare mai il proprio passato, denunciare le durissime condizioni di vita delle classi subalterne che iniziavano ad affacciarsi sulla scena della storia, rifiutare ogni simpatia a quanti pensavano di migliorare la società con il terrorismo e gli omicidi politici, costò caro al Bandi: la sua posizione coraggiosa e non conformista all’interno dell’asservita pubblicistica del tempo lo spiazzò. L’anziano garibaldino pagò con la vita il suo imperterrito esercizio della ragione.