24 gennaio 2011

"Lucca. La stazione ferroviaria" di Luciano Luciani











Potrà sembrare strano, ma uno dei luoghi di Lucca a più intensa “concentrazione letteraria” – tra le Mura celebrate nei secoli da letterati e poeti e lo straordinario sepolcro che Jacopo della Quercia realizzò per Ilaria del Carretto, la Signora del Signore della città – è la Stazione ferroviaria, costruita contestualmente alla ferrovia Lucca – Pisa, inaugurata nell’autunno del 1846, alla vigilia del tramonto dello stato lucchese.

Promotore di quella importante realizzazione civile fu l’intraprendente avvocato di origine sarzanese, Pasquale Berghini, già esule per dodici anni in Francia, Inghilterra e Corsica per le sue convinzioni mazziniane e, una volta Lucca, accreditatosi come amico personale del duca, l’imprevedibile Carlo Ludovico di Borbone.

Complessa la vicenda economico – finanziaria che sostenne l’impresa; accidentata la realizzazione dell’opera che superò sia le notevoli difficoltà orografiche rappresentate dai Monti Pisani e dal corso del Serchio, sia l’opposizione dei proprietari agricoli contrari all’esproprio dei loro campi; palesi a tutti le intenzioni politiche di un’opera che avrebbe dovuto riproporre all’opinione pubblica toscana, nazionale ed internazionale l’immagine di un sovrano liberale e riformatore, da sostituire a quella bigotta e reazionaria, più nota e ormai inadeguata ai tempi che cambiavano.

Treni tra poesia e politica

Il 22 giugno 1846, due convogli ferroviari trasportarono oltre 400 persone da Lucca a Ripafratta. Il tratto si allungò fino a bagni di Sam giuliano il 25 settembre e, finalmente, il 15 novembre dello stesso anno con un’austera cerimonia venne inaugurata l’intera linea Lucca – Pisa.

Comprensibile, quindi il giubilio con cui i lucchesi accolsero questa vigorosa prova di capacità organizzative ed imprenditoriali: quel clima di entusiasmo è ben espresso in libello celebrativo dato alle stampe, motu proprio, dal tipografo ed editore lucchese Giuseppe Giusti: “Volendo io festeggiare nel miglio modo che io possa il benefizio della strada ferrata… mi sono proposto di dar fuori co’ miei torchi alcune composizioni di nobili ingegni, a bella posta scritte per questa occasione…” Si tratta di versi non particolarmente memorabili, stesi per la circostanza da intellettuali delle cui opere si è persa la memoria.

Non era un poeta - e si sente - il marchese Antonio Mazzarosa, patrizio illuminato e storiografo della città quando con brutti versi epigrafici plaude all’evento: IN QUELLA VIRTU’ MOTRICE / STUPORE DEI NOSTRI TEMPI / ONDE OSTACOLI E INDUGI AL MESOLARSI DELLE NAZIONI / SONO VINTI / IL VOLGO NON ISCORGE / CHE UTILE E COMODITA’ / MA IL SAPIENTE / VI ANTIVEDE IL MODO PER COMUNANZA DI AFFETTI / AD IMMEGLIARE IL MONDO. E sulla stessa lunghezza d’onda dell’enfasi oratoria del Mazzarosa si mantiene l’avvocato, professore di diritto e filantropo Luigi Fornaciari. Questo il sonetto – dal gusto che mescola tradizione arcadica, echi manzoniani e anticipazioni di un incipiente positivismo – con cui il Consigliere di Stato Fornaciari, esponente di spicco del cauto liberalismo lucchese, partecipa all’esaltazione letteraria dell’avvenimento:

-Siete fratelli, amatevi – Ecco il grido

Della natura, il grido del Vangelo:

Né franca l’uom diversità di cielo

Da questo amor, o estremità di lido;

E il navile che solca il flutto infido

Con remigio di foco al par di telo,

Tutte affratella in questo ardente zelo

Le genti, che più il mar strania di nido.

Di questo amore è dolce messaggiero

Il novo cocchio ignito, che la via

Corre quasi con l’ali del pensiero;

Sol tai mirande invenzioni aborre

Chi dispaiati gli uomini desia,

Perché l’amore è inespugnabil torre.


Neppure il siciliano Giuseppe La Farina ( Messina 1815 – Torino 1863) era un poeta, ma un patriota: e si sa che, anche quando le intenzioni sono buone, la retorica spesso è in agguato, nascosta nelle penne dei politici. Così, pieno di entusiasmo per il progresso che avanzava sotto la specie del treno a vapore, in una canzone in endecasillabi e settenari, si esprimeva il futuro segretario della cavourriana Società nazionale:

“Il genio creator del secol nostro

Che affrena gli elementi

Creò di ferro infaticabil mostro

Per gareggiar co’ venti: …

… Ha lungo il collo e dalla bocca nera

Getta fumo e faville,

Sbuffa, nitrisce, scuote la criniera

Trapassa borghi e ville…

È lui che unisce con virtude arcana

Il castello a castelli,

Alle cittadi la città lontana

E intreccia fra fratelli

Le catene d’amor, per cui somiglia

Al ciel la terra che d’amore è figlia…

Per lui di Lucca i figli e quei di Pisa

Formeranno una sola

Città, non più da stolte ire divisa,

Né da insana parola…

Oh! tra genti sorelle e al bene amiche

Si sperda il suon delle querele antiche!…”


E non basta. Ad altezze poetiche simili seppero librarsi anche gli altri Autori del libello. Ricordiamo almeno i loro nomi: Antonio Peretti, poeta di corte a Modena ma già in odore di liberalismo, in un poemetto in versi sciolti ribadiva la sua ferma convinzione che niente e nessuno sarà in grado di arrestare il progresso:

“… A gloriosa meta /

il secolo cammina, e la codarda /

Lusinga d’arrestar l’igneo suo carro /

È delirio od innocente /

Insania di fanciullo…”;


in un suo lirico appello alla concordia tra gli italiani il ligure Francesco Ramagnini prediligeva il settenario sdrucciolo, mentre Emanuele Celesia ricorreva al più tradizionale sonetto per rivendicare al genio italico l’onore della scoperta della macchina a vapore.

L’indotto sollecitato da questo breve tratto di ferrovia sembra essere soprattutto letterario: anche il poeta Federigo Trenta sente il dovere di affidare ad un foglio volante, stampato dal solito Giusti, nientemeno che un inno. Al lettore curioso ne forniamo almeno un paio di strofe significative:

“… Il Commercio, per celeri lampi

Cui l’Industria sa mettere a prova,

Rifiorisce dovunque si trova

Le ferrate Stazioni a calcar.


Di già il Parto il Germano ed il Franco

Fraternizza in virtù del Vapore

E l’Ibéro di regni signore

Stende all’Italo amica la man…”


Eppure, non doveva trascorrere neppure un anno dall’edizione di quei versi rotondi e sonori, che il treno e la strada ferrata da Lucca a Pisa avrebbero svolto la funzione emancipatrice e civilizzatrice auspicata dai nostri generosi Autori.

Durante tutta la primavera e l’estate del 1847, infatti, anche a Lucca, come nel resto d’Italia, il movimento riformatore aveva ottenuto importanti successi: la libertà di stampa era finalmente divenuta realtà ed il 1 settembre era stata istituita la Guardia civica e affidato al Consiglio di Stato l’adozione delle riforme politiche ed amministrative ritenute necessarie ed adeguate ai veloci cambiamenti in corso d’opera in tutta la penisola.

Il mito di Pio IX° papa liberale agiva potentemente nella cattolicissima città delle Mura: i cortei popolari assomigliavano a processioni; il tricolore veniva deposto come una reliquia sacra su altari improvvisati: sacerdoti prendevano pubblicamente la parola, mescolando gli ideali religiosi con quelli nazionali e costituzionali.

In quei giorni furono centinaia i Pisani che raggiunsero Lucca per portare sostegno politico e morale, solidarietà, entusiasmo ai fratelli toscani: “A Lucca giunsero anche centinaia di livornesi e per tutto il giorno e gran parte della notte fu un tripudiare continuo per le piazze e per le vie ed a sera la città venne rallegrata da una splendida luminaria. A notte inoltrata, un drappello di donne, che camminavano a tre a tre portando in mano delle torce accese, accompagnarono gli ospiti alla stazione ferroviaria. – Addio fratelli! – era il grido dalle mura che formicolavano di gente e risplendevano di lumi mentre le stesse parole si ripetevano lungo la strada ferrata e dal treno: Addio!” ( M. Noferi, Per l’apertura della strada ferrata da Lucca a Pisa, Pisa 1992): Pratica e calda la dimostrazione dell’inutile anacronismo dei confini tra città e paesi uniti invece da vincoli forti di lingua, storia, tradizioni, costumi, interessi.

Realizzava, così, il treno gli auspici di fratellanza espressi un anno prima nei versi - ammettiamolo - brutti ma profetici di Antonio Mazzarosa, Luigi Fornaciari, Giuseppe La Farina, Antonio Peretti, Francesco Ramagnini, Emanuele Celesia e, a parte, Federigo Trenta: il treno, la strada ferrata avevano davvero diminuite le distanze, avvicinati gli uomini, cancellate le differenze.

Come è noto, Carlo Ludovico di Borbone per cavarsi d’impaccio di fronte all’onda delle agitazioni nazionaliste e riformatrici, nei primi giorni di quell’ottobre 1847, senza neppure avvertire i propri ministri, preferì firmare l’atto di reversione alla Toscana in cambio di un cospicuo appannaggio. Dopo quanto detto non farà meraviglia sapere che, qualche settimana più tardi, il Borbone lucchese, in una lettera al suocero, attribuiva soprattutto a due cause la sua inopinata decisione: la libertà di stampa, praticata, a suo dire, in maniera distorta da giornalisti “antipatizzanti” e le vie ferrate, che in meno di un’ora, da Pisa e Livorno, avevano rovesciato a Lucca centinaia e centinaia di facinorosi a sostegno degli scarsi e sprovveduti liberali lucchesi… Dal suo punto di vista di bigotto reazionario aveva davvero ragione!





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