11 gennaio 2011

"Henri Toulouse-Lautrec" di Luciano Luciani

Henri,
tra grazia
e dissolutezza


È la notte del 24 novembre 1864. Un uragano imperversa sulla Linguadoca nella Francia meridionale, infuriando particolarmente sulla città di Albi. Nel castello dei Toulouse-Lautrec, casato di antichissima nobiltà, la contessa Adele è alle prese con le doglie del parto: un fatto assolutamente naturale, ma che nel caso della giovane donna si carica anche di altri significati. Il suo, infatti, non è stato fino a quel momento un matrimonio felice. Il cugino che la contessa Adele Taple de Celeyran ha sposato, forse affrettatamente invaghitasi della divisa del brillante ufficiale di cavalleria, si è rivelato un individuo fatuo e superficiale e un marito certo non all’altezza dell’impegnativo nome della famiglia.

Il parto, sebbene laborioso, avviene regolarmente: è un maschio e mentre il marito esulta, Adele sospira sollevata. Al bambino, cui ignaro toccava il difficile compito di riunire due genitori già divisi per gusti, sensibilità e interessi diversi, viene assegnato il nome Enrico Maria Raimondo di Toulouse-Lautrec. Più familiarmente Henri, in onore di Enrico V di Borbone, pretendente legittimista al trono di Francia, nipote di quel Carlo X con la cui cacciata nel luglio 1830 i parigini e i francesi avevano definitivamente chiuso con l’età della Restaurazione.

Passano alcuni anni. Il bambino cresce bene, allegro, intelligente e in buona salute: studia il latino e il greco, impara a cavalcare, segue i genitori nei loro continui vagabondaggi di oziosi benestanti. Ma i contrasti tra i due coniugi si accentuano e la separazione si rende inevitabile: quando dalla provincia decidono di stabilirsi a Parigi, la loro vita in comune è ormai ridotta a poco più che una formalità. Li tengono uniti le convenzioni sociali e il piccolo Henri, da educare e a cui preparare nella capitale un futuro degno del prestigio familiare.

Nel 1872 il ragazzo viene iscritto al Liceo Fontanes dove stringe una fraterna amicizia con il cugino Louis Pascal e con Maurice Joyant, che gli sarà vicino e fedele per tutta la vita e oltre, autore di un’opera fondamentale sull’artista e fondatore del museo di Albi.

Ma lo sviluppo fisico di Henri non è normale. Intorno ai dieci anni comincia a manifestare una salute cagionevole e, soprattutto, non cresce. E se in casa tentano di consolarlo vezzeggiandolo e chiamandolo petit bijou, i compagni di scuola parigini, crudeli come solo i bambini sanno essere, non gli perdonano né l’origine provinciale, né la disarmonia fisica che comincia a palesarsi. Così lo ribattezzano petit bonhomme, attribuendogli il nomignolo che per secoli in Francia ha designato il contadino francese tonto, sgraziato, sempliciotto.

Nonostante la madre preoccupata per le sue condizioni fisiche lo abbia ritirato da scuola per ricondurlo ad Albi, la sua salute non migliora, anzi subisce un duro colpo. Il 30 maggio 1878 Henri si trova nella sua città natale: mentre tenta di sollevarsi da una sedia a sdraio dove è disteso, cade e si frattura il femore sinistro, la cui riduzione risulterà assai difficile per i medici a causa dell’eccessiva fragilità delle ossa. È un brutto colpo per quest’adolescente pensoso e sensibile che aveva già dimostrato una straordinaria vocazione per il disegno riempiendo quaderni e margini di libri di immagini di animali e caricature di insegnanti e compagni di scuola: “non state a piangere sui miei guai” dice con grande fermezza d’animo a chi lo circonda “me lo sono meritato perché mi sono dimostrato troppo malaccorto”. Quindici mesi più tardi una nuova caduta e una nuova frattura peggiorano uno stato di salute cronicamente malfermo: un giorno della primavera 1880, mentre Henri e la madre passeggiano in un bosco nelle vicinanze di Albi, il ragazzo precipita nel letto di un torrente asciutto, profondo poco più di un metro: le ossa cedono di nuovo e questa volta è la gamba destra che si rompe all’altezza del femore. Malgrado le cure, la malattia che lo affligge, identificabile con una grave forma di distrofia poliepifisaria fa il suo corso devastante. I tessuti ossei a causa della ridotta vascolarizzazione non si sviluppano normalmente, diventano fragili e degenerano. Così il giovane Toulouse-Lautrec che a 13 anni era alto normalmente un metro e cinquanta vedrà bloccato il proprio sviluppo fisico e da adulto non raggiungerà il metro e cinquantadue: gambe e braccia sono troppo corte, la testa grossa, i lineamenti appesantiti e quasi deformi, il naso appiattito, le labbra larghe da risultare grottesche ricadono su un mento sfuggente.

Sono anni di sofferenza, di cure, di speranze deluse. Incoraggiato da parenti e amici, Henri fissa sulla carta tutto quanto colpisce la sua fantasia ricavandone motivi di gioia e consolazione. Continua anche gli studi regolari: nel 1881 ottiene il baccellierato. L’anno dopo, con il consenso della madre, rientra nella capitale e comincia a lavorare presso lo studio di René Princeteau, amico del padre Alphonse a sua volta scultore non del tutto sprovveduto: il maestro parigino ne apprezza le qualità e, sentendosi inadeguato rispetto all’allievo, lo orienta a collocarsi presso l’atelier di Leon Bonnat, un pittore accademico con lo sguardo rivolto al passato, ma capace di insegnare tutte le malizie del mestiere. Henri lavora duramente, s’impegna su temi storici e mitologici che non gli piacciono affatto, ma si appropria della tecnica. Il maestro, malgrado il suo lavoro disciplinatissimo, non lo apprezza ed esprime giudizi assai poco lusinghieri: “La vostra pittura non è male, c’è del garbo, sì, davvero, niente male… ma il vostro disegno è semplicemente orrendo”.

Henri passa poi nello studio di Fernand Cormon, alla periferia di Montmartre. Gli amici e i colleghi lo trascinano di bar in bar e lo mettono a contatto con l’umanità mossa, fervida, dolente di quell’area di Parigi. Toulouse-Lautrec inizia a osservare e a riprodurre questo mondo duro, tagliente e insieme ingenuo di umiliati e offesi: ubriaconi e prostitute, omosessuali e gaudenti, sconfitti e spossessati di ogni risma cominciano ad affollare le sue tavole. Il freddo accademismo delle origini viene abbandonato per una pittura aderente alla realtà che supera, però, il naturalismo degli impressionisti e privilegia l’uomo privato, la sua interiorità, sovente fissandosi su soggetti abnormi, casi patologici, situazioni al limite… Oppure si concentra sui luoghi: povere sale da ballo, circhi di periferia, bordelli, caffè concerto, il “Gatto nero”, il “Moulin de la Galette”, il “CircoFernando”, il “Bar d’Achille”… Henri si immerge completamente nell’atmosfera di Montmartre, teso a non perdere né un solo istante di quella vita, né un solo particolare di quegli spettacoli, ripugnanti e insieme attraenti, alla continua ricerca di atmosfere e persone, di tipi umani, immortalati in tratti stilizzati che isolano ed esaltano gli elementi psicologici distintivi di quella umanità povera e reietta.

Un giorno conosce Clementina Valadon, un’ex lavandaia, trapezista, già modella di Renoir: bella, desiderabile Clementina non ha pregiudizi e i due diventano amanti.

Henri, l’ultimo discendente di due tra i più illustri casati della Francia meridionale ormai ricalca perfettamente il clichè del bohemien anticonformista. Quasi sempre ubriaco, rappresenta un motivo di scandalo per l’aristocratica famiglia che, però, gli offre i mezzi per aprire uno studio a Montmartre. Clementina lo segue, ma quando i suoi tradimenti si fanno troppo palesi avviene la rottura tra i due, un altro motivo di sofferenza per il sensibilissimo Henri.

Nel 1888 Toulouse-Lautrec espone per la prima volta “Aux arts Incoherents” e nel settembre 1889 ottiene il suo primo grande successo al quinto Salone degli Indipendenti con il celeberrimo Bal du Muolin de la Galette. A Bruxelles nel 1890 le sue opere appaiono assieme a quelle di Renoir, Signac, Cezanne, Zidler: il proprietario del Moulin Rouge – il locale dove Henri seduto sempre allo stesso posto per avere la stessa visuale trascorreva tutte le sue serate ed era diventato quasi una figura leggendaria – acquista, pagandolo lautamente, “La danse au Moulin Rouge”, la sua terza grande composizione. Nel settembre 1891 un manifesto dipinto da Toulouse-Lautrec per lo stesso locale rende improvvisamente celebre il suo autore. L’anno dopo Degas, il grande impressionista per il quale Henri aveva sempre professato un’ammirazione sconfinata, dopo aver visto alla galleria di Maurice Joyant una quarantina di sue opere, stringendogli la mano gli dice: ”Bene, anche tu ormai fai parte della banda”.

Lautrec è ormai celebre. I suoi atteggiamenti indispongono i benpensanti, scandalizzano gli accademici, provocano i conformisti… Intanto la Montmartre che amava si andava spegnendo: il pittore l’abbandona e disperato si mette a frequentare tutti i bordelli della città. Irascibile, intrattabile, lavora febbrilmente passando dai quadri ai manifesti, ai disegni, alle illustrazioni per libri e giornali, alle litografie.


Nel 1896 espone a Londra ma l’esito di questa esperienza inglese non è felice. La stampa lo attacca impietosamente, criticando i contenuti del suo lavoro e le sue scelte formali. Viaggia in Olanda, Belgio, Spagna, Portogallo. Rientrato a Parigi ha una crisi di delirium tremens: soffre di allucinazioni e amnesie, ma ha ancora voglia di vivere e di guarire. La madre, l’unica persona di cui l’artista accetti preoccupazione e sollecitudine, lo fa ricoverare in una clinica di Neuilly. Si rimette in salute ed esegue, proprio per dimostrare ai medici e agli amici di essere in grado di intendere e lavorare, i famosi trentanove disegni del circo, tutti caratterizzati da un elemento ricorrente, agghiacciante: l’assenza degli spettatori. Quei gradini vuoti sono come il brivido della morte ormai prossima. In maniera forsennata lavora ancora a ritratti e disegni.

Nell’estate del 1901, sentendo prossima la fine, si dedica a terminare le opere incompiute, firma dipinti e disegni, riordina i propri materiali. Il 15 agosto è colpito da una paralisi alle gambe: eroicamente, malgrado la malattia, si sforza di portare a termine la sua ultima opera, Un esame alla facoltà di medicina, una grande tela dai colori cupi, che, secondo l’ultima maniera dell’artista, scava meno nei dettagli dei visi e si rivela più attenta agli effetti di luce.

Muore il 9 settembre 1901, fra le braccia della madre.

Così, alcuni settori dell’opinione pubblica francese ne salutano la scomparsa: ”Abbiamo perduto qualche giorno fa un artista che si era acquistato una celebrità nel genere laido… Toulouse-Lautrec, essere bizzarro e deforme, che vedeva tutti attraverso le sue miserie fisiche… È morto miseramente, rovinato nel corpo e nello spirito, in un manicomio, in preda ad attacchi di pazzia furiosa. Fine triste di una triste vita”(“Lion Republicain” del 15 settembre 1901); “Come ci sono gli amatori entusiasti delle corride, delle esecuzioni capitali e di altri spettacoli desolanti, vi sono amatori di Toulouse-Lautrec. È un bene per l’umanità che esistano pochi artisti di questo genere” in “Le Courrier Francais” del 15 settembre 1901…

Eppure, nonostante l’incomprensione dei critici a lui contemporanei e la cattiveria dei giudizi, le tavole di Henri de Toulouse-Lautrec hanno esercitato e continuano a esercitare fino ai nostri giorni profonde suggestioni su tutti coloro che con le linee e il colore hanno inteso indagare sul difficile, difficilissimo mestiere di vivere.