“I ricordi di una storico dell’arte non sono
soltanto, come
molti inclinano a credere,
ricordi di tavolino e di scintille
scoccate, automaticamente, tra
la pila fotografica e la pila
documentaria, ma anche, e
molto di più, di viaggi senza mèta,
d’incontri fortuiti, di lunghi approcci con le opere,
ostinata-
mente mute, nei pomeriggi che
spiovono dai lucernari dei musei:
questi amatissimi paesaggi
della nostra vicenda particolare”
(Roberto Longhi)
di Davide Pugnana
La bella meditazione
autobiografica che Longhi ha depositato sulla soglia del suo Carlo Braccesco
si offre come viatico per la riflessione saggistica di Flavio Caroli. L’orizzonte claustrale dei “ricordi di tavolino” e le luminose
epifanie filologiche, vissute dallo storico dell’arte tra il silenzio ombroso degli scartafacci, è condizione quanto mai
lontana da un metodo di ricerca in perenne, vitalissimo movimento. Costruito
tutto su di una concezione totale della storia dell’arte, il prismatico cannocchiale caroliano focalizza
le vicende artistiche connaturandole alla più ampia storia della civiltà
occidentale, simili in tutto a capitoli inscindibili di un grande “romanzo”. Romanzo che
Caroli intesse e ricostruisce facendo muovere sulla scena le figure peculiari
dell’intreccio; i grandi temi
portanti, i cosiddetti “primari” confluiti nello sviluppo di un filo rosso che egli
definisce “pensiero in figura”. La ramificata mappatura storiografica che da decenni
Caroli sottopone a continui collaudi e verifiche, dà la misura reale e
complessa della sua visione di storico dell’arte. E spesse
volte, per cogliere la portata innovativa di un saggista, non occorre averne
compulsata l’intera produzione; è
sufficiente scorrere i titoli della sua bibliografia, osservare l’architettura degli indici, per delineare l’intelaiatura complessiva del suo schema. Nel caso di
Caroli, ogni saggio possiede una sua potenza di lettura e contribuisce a
ricostruire ora la portata di un fenomeno dell’immaginario artistico; ora un filone iconografico, particolarmente
incisivo per l’evoluzione del pensiero
occidentale. E non perde il senso dell’insieme neppure
quando egli si china, con lente e bulino, a lavorare alle linee interpretative
di un dipinto del quale ci sembrava averne esaurita la portata. Ma questa
constatazione non basta. Malgrado l’autonomia di opere
monografiche dedicate a Lorenzo Lotto, Tiziano, Giuseppe Bozzani e Burri; e
nonostante i vigorosi affreschi storiografici tracciati in un quarantennio di
studi, inarcati a ventaglio tra Cinquecento lombardo, Sette e Ottocento,
Primitivismo e Cubismo, nonostante tutto ciò, a lettura ultimata, ogni testo,
per quanto si mantenga animato di luce propria, finisce per scoprire la
complementarietà, quasi per debito o per consanguinea appartenenza, con l’anello precedente o successivo. Proprio in forza di
questa capacità di costruire una lettura globale dei fenomeni artistici,
facendoli partecipare alla prospettiva più ampia della storia della cultura,
Caroli rientra nel novero di quegli storici dell’arte che hanno dedicato la propria vita ad una sistemazione organica
della civiltà artistica occidentale.
A esemplare questa cifra della
saggistica caroliana, cade in taglio il ciclo di conferenze che l’autore racchiude ne Le tre vie della pittura,
uscite in prima edizione nel 2004 e riedite da Electa (2012) come sintesi di un
lungo percorso che lo storico dell’arte ha ormai
disvelato per intero, apportando, da ultimo, il tassello de Il volto dell’Occidente, che completa il ciclo dedicato ai “volti” nell’arte.
Il trittico saggistico, evocato
fin dal titolo, è tutt’altro che un
compendio delle teorie precedenti sugli indirizzi della pittura. Le
corrispondenze iconiche, magistralmente ricostruite da Caroli nei tre
interventi, scoprono la tessitura di uno sguardo in movimento che, certo
nutrito di “ricordi di tavolino” e di scremature documentarie, si scopre innervato da “viaggi senza mèta”, da “incontri fortuiti”, da visioni cavate
sul campo e rischiarate da quella luce lirica e visionaria che spiove “dai lucernari dei musei” e dagli accostamenti inediti colti nelle sale delle mostre. A rivelarci
la filigrana intellettuale di questa ricerca è proprio l’aneddoto che apre il primo capitolo dedicato alla luce
nella pittura occidentale. Protagonista è, ancora una volta, Roberto Longhi, e
l’episodio narra di una lezione
nella quale il maestro antepose alla sua parola quella del linguaggio iconico,
mediante l’accostamento dell’Adamo ed Eva di Masaccio e di Jan van Eyck.
Questa esperienza ha strutturato l’intero percorso di
scavo di Caroli, ne è diventata il lievito segreto, la molla generatrice: tutta
la sua ricostruzione dei “primari” del “pensiero in figura” occidentale sembra la voce struggente di chi, tra i
banchi d’università, non ha prontamente
alzato la mano alla domanda che il totemico padre fece cadere nell’intervallo delle due diapositive: “Avete capito?”, e vi continua a
rispondere lungo tutta la sua vita, scrivendo libri che nascondono, nel loro
ventre, lettere al padre.
È dall’intuizione di quei due “grandi ceppi” dell’arte europea alle soglie della modernità che prende
avvio la fondazione della luce pittorica occidentale. Dall’esplorazione lenticolare dei corpi di Adamo ed Eva di
van Eyck, impastati di luce porosa che registra “i miracoli del visibile”, il vento nordico
scende nel territorio italiano per modificare gli statuti del vocabolario
pittorico mediterraneo. E i centri propulsori della nuova luce sono la Firenze
dove Domenico Veneziano dipinge la Pala dei Magnoli e la Venezia di
Giovanni Bellini. È con la Pala di Pesaro che Bellini “inventa la pittura tonale”. Leggendo l’analisi visiva di
Caroli, la sua scrittura che mimetica indugia a restituire lo spazio di
entroterra veneto, coi suoi castelli ascendenti stagliati dietro i volti delle
figure centrali, la mente corre ancora alle pagine di Longhi sulla pittura
veneziana, per il quale la calligrafia belliniana, liberatasi dalla lezione
mantegnesca, si rivelava nella resa delle “nubi alte, lontane,
e cariche di sogni narrati; tra le chiostre dei monti e le absidi antiche, le
grotte dei pastori e le terrazze cittadine, le chiese color tortora del
patriarcato e il chiuso delle greggi […]”; davvero il tonalismo del Bellini si distende sopra
ogni cosa come “una calma che spazia fra i
sentimenti eterni dell’uomo”, e prelude all’aristocratica
rappresentazione del mondo visto nella luce di Giorgione, la cui “precisione quasi sovraumana” spicca nel brano dei Tre filosofi e traghetta
il tonalismo dal particolarismo veneto al primato della scena europea. Ma la
luce, nella storia della pittura occidentale, non è solo il delicato tonalismo
veneto che si reincarnerà, qualche secolo dopo, nelle meravigliose vedute
romane di Corot. C’è una stazione
fondamentale che segna il rinnovamento assoluto della luce ed è quello
apportato dalla pittura secentesca. Secolo nel quale l’adesione assoluta della materia pittorica agli oggetti
si fa la luce franta in tre vie maestre: quella caravaggesca; quella
vermeeriana e quella rembrandtiana. Caravaggio è l’atto di fondazione di un nuovo paradigma espressivo dell’uso della luce, la cui novazione fa tabula rasa delle
riserve iconografiche e formali della tradizione precedente, e, pur poggiandosi
ad un humus di “precedenti” (come ha dimostrato Longhi), deposita un nuovo “pensiero in figura” nell’immaginario visivo occidentale. Caroli sceglie, come
campione, il Fanciullo morso da ramarro: “La luce ha funzione drammatizzante, crea il dramma, e tuttavia è una luce precisa, che ha un’origine fisica, una sorgente che qui arriva da
sinistra, descrive i lineamenti fisiognomici del protagonista, scende lungo la
spalla, si accende meravigliosamente nella camiciola da ragazzo di vita, poi
nella mano, costruita attraverso un chiaroscuro che è plastico ma anche
luministico, a arriva alle meraviglie nel brano di natura morta […] Nel particolare dell’ampolla di cristallo traslucida, e della rosa, ogni stilla di colore,
ogni innamoramento della materia, che dicono che la pittura è ormai interamente
luce, luce che sempre più si allontana dall’assolutezza
cinquecentesca e sempre più si avvicina a una quotidianità che apparterrà
interamente alla pittura moderna”. Sarà la luce del
mondo pittorico vermeeriano, rivelatrice di una “magica normalità” quotidiana punteggiata dalla vita silente delle cose;
luce che dice un attimo di pausa fattosi muto disporsi degli oggetti nella
stanza. Immerso nel silenzio, l’occhio del pittore
allinea gli splendidi oggetti del suo spazio magico tutti sullo stesso piano di
dignità pittorica, abolendo qualsiasi gerarchia: le ceste di vimini, i pani
flagranti, le brocche di latte; la ragazza alla spinetta, i tendaggi a sipario;
la merlettaia piegata sul ricamo tra i suoi piombini e i fili rossi e gialli;
la donna alla finestra che legge la lettera, con la luce che le bagna il
foglio, e, nella stanza accanto, l’altra che sogna una
promessa di eterna bellezza al tatto delle perle sul collo; e il chiuso dei
cortili col bianco sbrecciato dei muri e i puntolini della calce tra i
mattoncini rossi, oltre i quali si slarga l‘orizzonte della Vue
de Delft, davanti alla quale Proust farà morire Bergotte, il pittore della
Recherche. La luce vermeeriana si trasforma nella grana stessa delle cose
rappresentate, ne possiede il segreto e sembra rivelare a noi per la prima
volta, come battezzate da uno sguardo aurorale.
Per la luce di Rembrandt
Caroli sceglie la Lezione di anatomia del dottor Tulp: in quella
chiostra di corpi e sguardi curiosi “è come se, per un
istante e solo per un istante, ciò che vediamo, nella fattispecie il cadavere
di un uomo, fosse bruciato da una scarica a 100.000 volt che, nel momento
stesso in cui si verifica, ci svela la verità: la stiamo vedendo in questo
istante, non c’era prima e non ci sarà dopo,
non ci sarà mai più. La pittura fa sì che quella improvvisa scarica entri nelle
cellule, macabre, terribili di un braccio che è stato scorticato e aperto, e lo
riveli davanti ai nostri occhi. Quello era un uomo, e in questo istante non è
altro che carne nella luce. Da questo momento in poi, conosciamo le potenzialità
di una luce che può uscire dai propri confini per intraprendere un cammino di
verità che scavalca i territori della naturalità.”
La ‘via’ della luce
pittorica occidentale prosegue la sua corsa verso la modernità con le tempeste
perfette di Turner e il colore-luce della cattedrale di Monet, della jeunesse
dorée dei canottieri e delle fanciulle in fiore di Renoir, per accedere
allo sperimentalismo novecentesco, il
secolo che “si apre in un prisma che
affronta i misteri della realtà e del visibile nelle direzioni più diverse”: dalla luce “terrena e
quotidiana” di Matisse alla “luce che non c’è” di De Chirico;
dalla luce materica e dalla perfetta “precisione tonale” degli “oggetti spaesati” di Morandi “all’intuizione di un limite estremo di tonalismo” di Number 14 del pittore russo-americano Marc
Rothko.
Da Leonardo a Freud si apre la
via della pittura dell’anima. Scrive Caroli: “esiste una sorta di tensione costante che, da un certo
momento in poi, guida e caratterizza non solo l’arte figurativa, ma proprio il pensiero, si può dire l’epistemologia occidentale, e che non si riscontra in
nessun’altra cultura del pianeta. È
una tensione che ha per oggetto l’anima, il profondo,
il cuore sede di ogni passione. Sulla spinta di tale richiamo, l’arte occidentale si pone sulla via dell’introspezione, in un cammino lungo il quale l’occhio dell’artista scruta le
fattezze umane, i sentimenti e le emozioni che le caratterizzano e le
determinano. Scruta, cioè, al di là di ciò che si vede, sempre più nei segreti
del cuore umano.” E’ certo vero che, nella direzione di scavo della
saggistica caroliana, la quale, come abbiamo visto all’inizio, copre un arco assai vasto di ricerca, la linea
introspettiva della storia dell’arte trovi una
collocazione di assoluta centralità. Lo scavo nell’anima è la via regia della sistemazione storiografica
di Caroli, come documenta il suo racconto della storia dell’arte (Electa, 2011) imbastita proprio su questa
linea-guida delle poetiche artistiche occidentali. Ma il contributo decisivo su
questo versante è affidato alla monografia Storia dell’arte fisiognomica. Arte e psicologia da Leonardo a
Freud (Electa 1995, poi riedita 2012): un lavoro di impianto complesso, che
abbandona la piacevolezza narrativa degli altri saggi per strutturarsi in una
serrata e storicizzata argomentazione sulla scienza degli abissi interiori dal
Cinquecento al Novecento, allorquando il pittore decide di spostare l’ “orgogliosa pupilla umana”, creatrice della geometrica prospettiva
antropocentrica, all’interiorità dei
leonardeschi “moti dell’anima”. E sono proprio i
precetti teorici e i disegni fisiognomici di Leonardo ad aprire la seconda ’via’ della pittura.
Solo la pittura che saprà restituire “quel che la figura ha
nell’animo” sarà stimata arte “laudabile”: da questa base nascono le bellissime Teste
leonardesche, primi colpi di sonda nella natura umana. Fronti raggrinzite dal
corruccio e contrappuntate da bocche urlanti; profili zigzaganti di menti
puntuti e di nasi gibbosi; colli solcati da rughe, tendini, muscoli mostrati
quasi scoperti e velificati dalla lebbra: sono le linee grafiche della
fenomenologia psicologica delle Teste che molta critica ha rubricato
erroneamente come “caricature” e che approderà al brano assoluto degli apostoli nel Cenacolo.
Questo voyage au bout de la
nuit, aperto da Leonardo nella pittura occidentale, attraversa quattro
secoli di storia dell’arte: “Ha inizio così un viaggio affascinante, una specie di
sonda che, con strumenti teorici prima approssimativi, poi via via sempre più
affinati, scende nel cuore dell’uomo e ci racconta
per immagini come, nel corso dei secoli, si è evoluta, è cambiata, la
consapevolezza di sé dell’uomo occidentale:
dall’uomo-eroe del Rinascimento,
potenzialmente delegato da Dio a essere padrone dell’universo, all’uomo dei giorni
nostri, privo di certezze e angosciato dalla propria fragilità biologica e
psichica. È un viaggio che l’arte compie avendo
come compagna di strada la fisiognomica, che poi diventa psicologia e
infine psicoanalisi.” Tra i “primari” del “pensiero in figura”, Caroli si ferma a leggere il dialogo di “psicologie opposte” nel Doppio
ritratto (L’innamorato) di Giorgione; gli occhi “azzurri, freddi,
alteri e indagatori” del Ritratto
del vescovo De’ Rossi del Lotto; ed entra
nella straordinaria rivelazione fisiognomica del Paolo III con i nipoti
Alessandro e Ottavio Farnese di Tiziano, dipinto che esplora e mette in
scena i recessi del machiavellismo politico, strappando il velo delle
convenzioni sociali nella schermaglia di “sospettosa
attenzione del pontefice” e di “untuosa ipocrisia e falsità” del nipote. Nel mezzo del
goyesco volo di mostri zoomorfi della ragione dormiente e l’urlo espanso di Munch, nascono due capolavori assoluti
della pittura fisiognomica ottocentesca, doppio preludio al novecentesco male
di vivere: la prodigiosa serie dei cinque “ritratti di
monomaniaci” dipinti da Géricault su
commissione del suo medico, all’altezza del 1820,
mentre è in cura in un manicomio di Parigi, psicologicamente sfibrato dalla
tensione della Zattera della Medusa.
Caroli sceglie come “primario” Il rapitore di bambini,
nel quale la luce folle del nucleo ossessivo - il rapimento dei bambini - si concentra nella fissità vigile dello
sguardo, estraneo al flusso di vita esterno e mandato in fuga oltre la tela,
teso verso un oggetto del desiderio che non visto e, proprio per quest’assenza/presenza, potentemente evocato. “Restano cinque volti che - per livello di qualità -
afferrano il problema della Follia là dove l’aveva abbandonato
Leonardo da Vinci, volti che sembrano conoscere tutto dei progressi della
scienza psicologica non solo nei decenni, ma nei secoli trascorsi, e che
mettono il tema della Fisiognomica, dunque del Profondo, sul tavolo anatomico
in cui opererà la psichiatria positivista del giovane Freud (stiamo d’altronde per arrivarci).”
Caroli è storico dell’arte che non abbandona i suoi pittori a saggio finito;
si ciba letteralmente del loro lavoro e instaura con la loro lezione iconica
una sorta di dialogo ininterrotto, fatto di macinazioni puntigliose fino alla
stremo, di eterni ritorni, di gratitudine, di innamoramenti, di scelte di vita
e di pensiero. Per questo egli torna incessantemente sull’interpretazione di opere già affrontate in saggi
precedenti. È il caso del Ritratto del dottor Gachet di van Gogh, la cui
decifrazione iconografica troviamo disseminata in due saggi (Trentasette. Il
mistero del genio adolescente, Mondadori 1996 e la già citata Storia
della fisiognomica). Questo ritratto vangoghiano nasconde una della più
alte rappresentazioni moderne della malinconia e, nel contempo, incarna un
esempio magistrale di autoritratto camuffato. A darcene testimonianza è una
lettera di Vincent a Theo, nella quale l‘identificazione col
soggetto rappresentato viene portata in superficie con lucida autocoscienza: “il dottor Gachet è rosso di capelli come me, e come me
è malinconico…”. La malinconia è qui evocata
da tre elementi iconici: la canonica posa saturnina della figura, in obliquo e
con la testa appoggiata sul pugno chiuso (o, talora variata, con nella posa del
mento appoggiato sulla mano), già presente nell’adolescente innamorato di Giorgione ma inventata, come “pensiero in figura”, dal Durer; la
presenza significativa di una pianta in primo piano, la digitale che allude
alla professione di Gachet, medico che aveva dedicato la sua tesi di laurea
proprio allo studio della malinconia, in età pre-freudiana; e, ultimo elemento
di questo apparato cifrato di segni, la presenza di due romanzi del naturalismo
letterario, Manette Salomon e Germinie Lacerteux dei fratelli
Goncourt, che evocano, il primo, il mondo dei pittori e, il secondo, un caso
umano patologico dai caratteri tragici.
Il pregio maggiore della ‘linea introspettiva’, spina dorsale
della storiografia caroliana, è senz’altro quello di
aver collocato la dottrina psicoanalitica freudiana entro il solco di una
tradizione culturale occidentale non solo nutrita di modelli letterari (gli
archetipi della tragedia greca; le opere di Goethe e di Dostoevskij; le
incursioni nell’inconscio da parte dei poeti),
come finora è stato messo in luce; ma altresì di aver riletto la psicoanalisi
come scienza nutrita dalle icone fondanti dell’immaginario artistico; da quei “primari” divenuti patrimonio dell’inconscio collettivo della civiltà. Quando alle soglie
del XX secolo, Freud pubblicherà L’interpretazione dei
sogni, la psicologia del profondo poggerà, quindi, su di un terreno di
innesti il cui cammino era stato dissodato dalla leonardesca scienza dei moti
dell’anima, perfezionata da cinque
secoli di sapienza pittorica, fino al dramma dell’uomo ridotto a rocchio di macelleria nella figurazione-deformazione
baconiana.
Ad un massimo grado di
svisceramento dei recessi psicologici funge da contrappunto, alle soglie del
Settecento, un’arte diurna, frutto di uno
sguardo pittorico narrativo, attento a registrare il brulichio sociale di una
nuova classe sociale in ascesa, quella borghesia protagonista del XIX secolo,
che troverà la sua epica moderna nell’affermazione della
forma del romanzo realista moderno, quello di Madame de La Fayette, di Defoe,
di Richardson, di Fielding e della grande fioritura dei maestri dell’Ottocento. Su questo asse, si sviluppa la terza ’via’: il romanzo della
pittura. Caroli dedica l’intero capitolo
alla pittura del Settecento, non solo secolo dell’Illuminismo, del Rococò, della dolcezza del vivere infusa dall’anciem régime; ma anche “il secolo della psicologia, il secolo dei poveri, il
secolo delle donne. Direi che è il secolo nel corso del quale l’umanità raggiunge una diversa dimensione di pensiero e
di vita, e la raggiunge attraverso traumi ed evoluzioni storico-filosofiche che
cambiano profondamente la società e la civiltà.” Nei confini mobilissimi e sfrangiati di questo scenario dove i vecchi
paradigmi vengono vagliati dal tribunale della Ragione, messi in crisi e
superati, o inglobati, da un nuovo
linguaggio filosofico e sociale, la pittura gioca un ruolo fondamentale.
Una delle icone più rappresentative della ritrattistica del XVIII secolo è il Giovane
con un castello di carte di Jean-Baptiste Chardin: un ritratto di fanciullo
intento al gioco delle carte, in cui il pittore recupera gli esiti più alti
della luce e del ’tonalismo’ e li fonde con “una straordinaria
sottigliezza espressiva”, resa psicologia
nel calmo e pausato indugio del pennello che descrive l’intimità estatica di un passatempo così totalizzante
da farsi “buco nero che esclude
completamente il mondo esterno”. All’atmosfera incantata
di Chardin risponde una vena ritrattistica più cinica e impietosa, che affonda
nella denuncia della vacuità sociale. È il caso del bellissimo Gentiluomo
con tricorno di Fra Galgario: “uno dei ritratti più
poderosi, potenti, e anticipatori, di tutta la cultura europea. A parte la
meraviglia della pittura, che non ha nulla da invidiare ai più celebrati
maestri del passato […] è ciò che si
legge dell’anima del ritrattato a
rivelare le incredibili capacità di resa psicologica e di analisi
storico-sociale del pittore bergamasco: occhi dietro i quali si percepisce,
oltre all’arroganza del privilegio, il
più puro nulla; labbra color susina in cui sono annidati tutti i vizi e la
decadenza di una certa nobiltà; la posa altezzosa; le luci argentee e plumbee
delle ineguagliabili lacche che intessono il ricchissimo abito; tutto, in
questo ritratto, ci dà l’immagine di una società che sta correndo verso la
propria dissoluzione sociale.” Nel serrato
rinnovamento del vocabolario ritrattistico, Caroli allinea esempi straordinari;
troviamo l’Autoritratto a pastello di
Liotard; il brano di mirabile fattura descrittiva del borsone di cuoio del Corriere
di Giuseppe Maria Crespi; la diafana e quasi rarefatta Fanciulla con colomba
di Rosalba Carriera; fino alla povera gente fissata da Giacomo Ceruti con
una tavolozza limpida e trasparente che approda a notevoli risultati
psicologici.
Ma utilizzare l’espressione “romanzo della pittura” significa evocare la formicolante sarabanda della commedia umana
borghese. Quella che abbiamo imparato ad amare sulle scene veneziane dipinte da
Pietro Longhi, i cui concerti diventano “dei veri brani di
teatro”; del poligrafo William
Hogarth, “che è pittore ma anche
letterato, che è letterato ma anche uomo di teatro, che è uomo di teatro ma
anche personalità impegnata nel rinnovamento sociale”; e che ci ha lasciato due rumorosissime, gremite e
festose tele come Matrimonio alla moda e Carriera del libertino:
opere che costituiscono il cuore pulsante del “romanzo della pittura”; o, meglio, di una
pittura che si fa teatro allorché si distende a raccontare “vere e proprie storia con immagini in sequenza”: è lo spazio, policentrico e scomposto, di un
matrimonio secondo la moda dell’epoca, con la dissoluta
brigata disposta a corona attorno agli sposi ridanciani; i commensali sbracati
nei fumi del vino e il primo piano della cocotte che aggiusta le calze e tende
la scarpina inaugurando il moderno erotismo domestico. “Così è la vita, nel Settecento, così ce l’hanno raccontata i pittori che l’hanno attraversata interpretandone le novità e
fiutandone i cambiamenti”. Proprio sullo
scorcio finale del secolo, nell’anno 1793, compare
nella storia dell’arte un’apparizione che ci porta nel secolo successivo. È un
dipinto di Fussli, Gertrude, Amleto e il fantasma del padre di Amleto: c’è la lama di luce che irrompe da destra, effigia di un
contorno severo il fantasma del padre per attraversare il volto terrorizzato di
Amleto e accenderne di bianco spettrale l’ampio bavero, per
finire poi la sua corsa nel profilo sconvolto di Gertrude, il cui bel gioco
scomposto delle diafane braccia conclude il teatro del gesto e la
concatenazione delle tre psicologie.
Su quest’opera di fine Settecento si chiude la trattazione di
Flavio Caroli; la sua lettura globale del “pensiero in figura” occidentale, ricomposto attraverso l’intrecciarsi di tre cammini: quello della luce, quello
dell’introspezione e quello del
romanzo della pittura. Tre momenti assoluti che hanno segnato la linea
destinale della nostra storia artistica e che, oggi, finalmente trovano posto
in un affresco storiografico organico e aggiornato, e il cui rigore scientifico
costituisce una della più sistematiche acquisizione della storia dell’arte in Italia.
Come la domanda del suo
maestro Roberto Longhi - riecheggiante come lo spettro del padre di Amleto al
fondo di tutta la ricerca dello studioso - anche la risposta saggistica di
Caroli è stata all’altezza delle
aspettative del grande padre intellettuale. L’intensità della risposta caroliana lascia sugli artisti toccati - e sui
lettori - quella che Giovanni Testori chiamava “la traccia sul corpo dell’opera e del
pittore, un segno, proprio come accade quando si fa l’amore per davvero, dove è inevitabile che si lasci o
si riceva un segno, che, magari, è solo una bava di lumaca, ma comunque non è
uguale a niente, non è come se nulla fosse stato.”
Flavio Caroli, Le tre vie
della pittura, Electa 2012, pp. 111, euro 12,90
1 commento:
Molto interessante! Ho letto altro di Caroli ma questo libro, grazie al commento di D. Pugnana, credo proprio che lo acquisterò.
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