Al
son de sta campana, ogni dona da ben se fa putana (proverbio veneto).
Alla fine del XV secolo Venezia appariva al
culmine della sua potenza economica, politica e commerciale. Forte di un
efficiente apparato di governo, la Serenissima comprendeva i territori
corrispondenti all’odierno Triveneto, la parte orientale della Lombardia con
Bergamo, Brescia e Cremona, il Polesine, la riviera romagnola e, a est,
l’Istria. Imponente e articolata la sua rete di traffici che si allargava
all’intero Mediterraneo e a buona parte del vicino Oriente. Nonostante che già
a metà del XVI secolo cominciassero a manifestarsi gli effetti dello
spostamento delle correnti commerciali dal Mediterraneo all’Atlantico e che
nell’Adriatico si facesse sempre più aggressiva la presenza turca , Venezia
rimaneva la maggiore città commerciale e industriale d’Italia: la manifattura
della lana, la lavorazione del vetro artistico, i prodotti di lusso che
abbellivano i luoghi del potere e del culto di tutta Europa, l’intenso sviluppo
dell’attività editoriale, permettono alla Serenissima di conservare ancora
tanta parte del proprio splendore e la propria importante collocazione sullo
scenario politico ed economico continentale. Anche all’indomani di Cateau
Cambresis e della riaffermata egemonia spagnola sull’Italia, lo Stato veneziano
cercherà sempre di garantirsi una sua autonomia facendo appello a tutte le
risorse che avevano fatto un tempo della città veneta una potenza navale e
mercantile esaltata da ruolo decisivo giocato dal Leone di san Marco nella
grande vittoria cristiana di Lepanto (1571). Ancora ricca fino all’opulenza,
edonista sino all’eccesso, la società veneziana, rispetto a un mondo
circostante in gran parte ancora soggetto a vincoli feudali, appariva più
mossa, più vivace e per alcuni tratti e, per quanto consentivano i tempi,
addirittura laica e liberale. Allegra e soddisfatta la sua vita notturna che
vedeva al centro, apprezzate e ricercate, proprio le cortigiane che nella città
lagunare sembravano trovare il loro luogo d’elezione. Per loro nessun
provvedimento restrittivo, nessuna tassa specifica, nessuna possibilità di
vedersi confiscare i beni accumulati: erano ben 11.654 le ‘màmole’ che, come
testimoniano i vivaci e dettagliati Diari
di Marin Sanudo, popolavano la città e l’entroterra vivacizzando l’esistenza di
aristocratici e ricchi mercanti, militari e imprenditori che, altrimenti, nelle
loro sontuose dimore di Murano, del padovano e del bassanese non avrebbero
saputo come godersi le ricchezze accumulate per mare, nella mercatura e nelle
rapaci imprese di conquista lungo le coste dell’Adriatico.
Una
condizione privilegiata
Una condizione privilegiata che non poteva
sfuggire all’occhio attento di Pierre de Bourdeille, signore di Brantome ed
elegante scrittore (1540 – 1614) che nelle pagine delle sue Vies des dames galantes non può fare a
meno di magnificare “le meraviglie della città di Venezia, le sue
particolarità, e la libertà di cui godevano tutti gli abitanti, fino alle
puttane e cortigiane”. Sì, l’immaginazione degli uomini di tutta Europa non
poteva non rimanere impressionata dal racconto dello spettacolo fornito dalle
bellissime ed elegantissime cortigiane veneziane a passeggio per la città
lagunare: seguite da un corteggio di paggi e servitori, le ‘oneste’, altissime
su zoccoli che le innalzavano anche di trenta/quaranta centimetri, incedevano
per le calli vestite di raffinati soprabiti di velluto, le ‘zimarre’, ornati di
bottoni d’oro e impreziositi di pelliccia di ‘vaio’, ovvero di scoiattolo.
Anche le sopravvesti erano foderate di pelliccia e le sottane, lunghe fino ai
piedi, erano di raso e seta cangiante. Biondo – rosse le loro capigliature, una
nuance che piacque a Tiziano
Vecellio, valorizzate ed esaltate da una profusione di gioielli e un uso
sapiente del trucco che non si limitava al viso ma valorizzava soprattutto il
seno:
fazzendose
le tete rosse e bianche
e
descoverte per galanteria.
Dimentiche spesso, le ‘oneste’, del
fazzoletto giallo da collo che indicava la loro professione e del divieto di
esibirsi e pavoneggiarsi in piazza San Marco. E non sono rari i casi di
rampolli di famiglie benestanti veneziane che per amore delle “màmole”
dilapidano per intero il proprio patrimonio:
Gli
giovani incauti e oziosi, che punti dal dardo d’amore e ad altro non attendono,
ch’alla lascivia per parer belli alle loro amate, e fallace Donne: il più delle
volte vogliono abbattersi d’incorrer nell’amor di tali meretrici, le quali ad
altro non mirano, che acavarli di mano le loro sostanze proprie, e tenerli
perpetuamente nelle dure leggi d’amore, le quali conversano con loro
lusinghevoli parole, e falsi gesti, e inchini. Onde avviene che quelli tali
datsi in preda a così mendaci lusinghe di varie Donne, traboccano
precipitosamente nel peccato della lussuria: del quale non vogliono ritrarre il
piede se non con totale sterminio delle loro facultà.
(Giacomo Franco, Habiti delle donne venetiane).
Qualche nome? Angela del Moro, conosciuta
come la Zaffetta,
cioè figlia di uno zaffo, uno sbirro, apprezzata dall’Aretino, dal Sansovino,
da Tiziano e amante, tra gli altri, del cardinale Ippolito de’ Medici; la Zufolina; l’Andriana
Schiavonetta, maritata, a cui faceva da mezzana la madre; la celeberrima
Veronica Franco… Una città, Venezia, dove si trovarono del tutto a loro agio
letterati come Pietro Aretino (1492 – 1556), che proprio sulla laguna scrisse i
celebri dialoghi delle prostitute, Ragionamento
della Nanna e dell’’Antonia (1534) e Dialogo
nel quale la Nanna insegna alla Pippa
(1536), e Lorenzo Venier (1510 – 1556), poeta noto per due poemetti osceni in
ottave, La puttana errante (1531) tre
libri per complessive 138 stanze, un attacco frontale contro la cortigiana
Elena ballerina descritta come affetta dal ‘mal francese’, dedita ad amori
bestiali e pronta a vendersi per soli 4 scudi, e Il trentuno della Zaffetta, 114 strofe dove si racconta in versi il
trentuno cioè uno stupro collettivo
ai danni della povera Zaffetta, costretta ad avere rapporti sessuali con
trentuno uomini di fila come pena per un rifiuto amoroso. A Lorenzo Venier
viene attribuita anche la famosa Tariffa
(titolo completo Tariffa delle puttane
ovvero ragionamento del forestiere e
del gentil’huomo: nel quale si dinota ilprezzo e la qualità di tutte le cortigiane di Venegia col nome delle ruffiane; ed
alcune novelle piacevoli da ridere
fatte da alcune di queste famose signore agli amorosi), un dialogo tra un
nobile veneziano e un visitatore, in cui vengono prese in esame le peculiarità
erotiche, con relativi costi, delle più conosciute “màmole” operanti nella
città lagunare. I Veneziani, fa dire Pietro Aretino alla Nanna, protagonista
dei Ragionamenti, in cui “insegna a la Pippa sua figliuola ad esser
Puttana”, “hanno il gusto fatto a lor modo, e vogliono culo, e tette, e robbe
sode, morbide, e di quindici, o sedici anni, e fino in venti e non de le
petrarchescarie”.
Per
tutti i gusti
A San Marco e dintorni ce n’è davvero per
tutti i gusti: alla fine del Quattrocento, le locali venditrici di sesso,
incalzate dalla concorrenza, non hanno particolari remore morali ad acconciarsi
i capelli secondo la moda maschile e a offrire un ulteriore “servizio”,
nonostante che le pratiche erotiche sodomitiche, come abbiamo visto, siano le
più sospette e detestate dalle autorità laiche ed ecclesiastiche. Sembra
prevalere un clima diffuso di esaltazione sensuale che coinvolge anche i più
giovani:
I
puti te dirà: “mostra la mona”
e
ti la mostrerà per un sesin.
Venivano meno i confini tra donne per bene
e prostitute, in base all’assunto per cui in ogni donna si nasconde una
sgualdrina. Lo ribadiscono in terza rima i versi del Manganello, 1530, operina tanto facile quanto oscena
impropriamente attribuita all’Aretino:
Femina
non fu mai che non sia croia (dura,
testarda);
femina
non fu mai che non sia pazza;
femina
non fu mai che non sia troia.
Elle
vorrebbon star sempre a la piazza,
e
tirar la sampogna e ‘l manganello,
sempre
con la bugada e con la guazza.
Femina
non fu mai senza coltello;
femina
non fu mai senza ruina;
femina
non fu mai senza bordello.
Attorno alla Venezia rinascimentale,
dunque, una larga fama di libertà, tolleranza e spregiudicatezza dei costumi:
una nomea non confermata, però, dai dati in possesso degli storici che sembrano
parlare un linguaggio piuttosto diverso. Ci dicono, infatti, che anche Venezia
confermava la tendenza di tante altre città del Rinascimento a circoscrivere la
prostituzione in un’area ben definita: nel caso specifico quella del cosiddetto
Castelletto, aperto fin dal 1358, non troppo distante da Rialto, il cuore pulsante
delle attività economiche cittadine. Ai Signori di Notte, una speciale
magistratura, era affidato l’incarico di controllare quella particolare zona
della città, le sue abitatrici, l’andirivieni dei clienti… E, se i documenti
veneziani dimostrano che una qualche forma di protezione veniva garantita
contro le violenze, le rapine, le aggressioni, raccontano anche un’altra
realtà: quella fatta di vessazioni, di richieste di denaro o, più spesso, di
prestazioni sessuali gratuite imposte alle donne dagli addetti alla
sorveglianza che non avevano particolari scrupoli a trarre vantaggio dalla loro
posizione di potere. E non è arbitrario pensare che il famigerato Consiglio dei
Dieci, costituitosi con compiti di sorveglianza e repressione interna dopo la
congiura popolare del 1310, si sia servito spesso di cortigiane e prostitute
come efficaci strumenti per carpire informazioni e metterle al servizio della
sua occhiuta polizia segreta.
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