05 settembre 2013

"Venezia, una città in amore" di Luciano Luciani




Al son de sta campana, ogni dona da ben se fa putana (proverbio veneto).
Alla fine del XV secolo Venezia appariva al culmine della sua potenza economica, politica e commerciale. Forte di un efficiente apparato di governo, la Serenissima comprendeva i territori corrispondenti all’odierno Triveneto, la parte orientale della Lombardia con Bergamo, Brescia e Cremona, il Polesine, la riviera romagnola e, a est, l’Istria. Imponente e articolata la sua rete di traffici che si allargava all’intero Mediterraneo e a buona parte del vicino Oriente. Nonostante che già a metà del XVI secolo cominciassero a manifestarsi gli effetti dello spostamento delle correnti commerciali dal Mediterraneo all’Atlantico e che nell’Adriatico si facesse sempre più aggressiva la presenza turca , Venezia rimaneva la maggiore città commerciale e industriale d’Italia: la manifattura della lana, la lavorazione del vetro artistico, i prodotti di lusso che abbellivano i luoghi del potere e del culto di tutta Europa, l’intenso sviluppo dell’attività editoriale, permettono alla Serenissima di conservare ancora tanta parte del proprio splendore e la propria importante collocazione sullo scenario politico ed economico continentale. Anche all’indomani di Cateau Cambresis e della riaffermata egemonia spagnola sull’Italia, lo Stato veneziano cercherà sempre di garantirsi una sua autonomia facendo appello a tutte le risorse che avevano fatto un tempo della città veneta una potenza navale e mercantile esaltata da ruolo decisivo giocato dal Leone di san Marco nella grande vittoria cristiana di Lepanto (1571). Ancora ricca fino all’opulenza, edonista sino all’eccesso, la società veneziana, rispetto a un mondo circostante in gran parte ancora soggetto a vincoli feudali, appariva più mossa, più vivace e per alcuni tratti e, per quanto consentivano i tempi, addirittura laica e liberale. Allegra e soddisfatta la sua vita notturna che vedeva al centro, apprezzate e ricercate, proprio le cortigiane che nella città lagunare sembravano trovare il loro luogo d’elezione. Per loro nessun provvedimento restrittivo, nessuna tassa specifica, nessuna possibilità di vedersi confiscare i beni accumulati: erano ben 11.654 le ‘màmole’ che, come testimoniano i vivaci e dettagliati Diari di Marin Sanudo, popolavano la città e l’entroterra vivacizzando l’esistenza di aristocratici e ricchi mercanti, militari e imprenditori che, altrimenti, nelle loro sontuose dimore di Murano, del padovano e del bassanese non avrebbero saputo come godersi le ricchezze accumulate per mare, nella mercatura e nelle rapaci imprese di conquista lungo le coste dell’Adriatico.

Una condizione privilegiata
Una condizione privilegiata che non poteva sfuggire all’occhio attento di Pierre de Bourdeille, signore di Brantome ed elegante scrittore (1540 – 1614) che nelle pagine delle sue Vies des dames galantes non può fare a meno di magnificare “le meraviglie della città di Venezia, le sue particolarità, e la libertà di cui godevano tutti gli abitanti, fino alle puttane e cortigiane”. Sì, l’immaginazione degli uomini di tutta Europa non poteva non rimanere impressionata dal racconto dello spettacolo fornito dalle bellissime ed elegantissime cortigiane veneziane a passeggio per la città lagunare: seguite da un corteggio di paggi e servitori, le ‘oneste’, altissime su zoccoli che le innalzavano anche di trenta/quaranta centimetri, incedevano per le calli vestite di raffinati soprabiti di velluto, le ‘zimarre’, ornati di bottoni d’oro e impreziositi di pelliccia di ‘vaio’, ovvero di scoiattolo. Anche le sopravvesti erano foderate di pelliccia e le sottane, lunghe fino ai piedi, erano di raso e seta cangiante. Biondo – rosse le loro capigliature, una nuance che piacque a Tiziano Vecellio, valorizzate ed esaltate da una profusione di gioielli e un uso sapiente del trucco che non si limitava al viso ma valorizzava soprattutto il seno:

fazzendose le tete rosse e bianche
e descoverte per galanteria.

Dimentiche spesso, le ‘oneste’, del fazzoletto giallo da collo che indicava la loro professione e del divieto di esibirsi e pavoneggiarsi in piazza San Marco. E non sono rari i casi di rampolli di famiglie benestanti veneziane che per amore delle “màmole” dilapidano per intero il proprio patrimonio:

Gli giovani incauti e oziosi, che punti dal dardo d’amore e ad altro non attendono, ch’alla lascivia per parer belli alle loro amate, e fallace Donne: il più delle volte vogliono abbattersi d’incorrer nell’amor di tali meretrici, le quali ad altro non mirano, che acavarli di mano le loro sostanze proprie, e tenerli perpetuamente nelle dure leggi d’amore, le quali conversano con loro lusinghevoli parole, e falsi gesti, e inchini. Onde avviene che quelli tali datsi in preda a così mendaci lusinghe di varie Donne, traboccano precipitosamente nel peccato della lussuria: del quale non vogliono ritrarre il piede se non con totale sterminio delle loro facultà.
(Giacomo Franco, Habiti delle donne venetiane).

Qualche nome? Angela del Moro, conosciuta come la Zaffetta, cioè figlia di uno zaffo, uno sbirro, apprezzata dall’Aretino, dal Sansovino, da Tiziano e amante, tra gli altri, del cardinale Ippolito de’ Medici; la Zufolina; l’Andriana Schiavonetta, maritata, a cui faceva da mezzana la madre; la celeberrima Veronica Franco… Una città, Venezia, dove si trovarono del tutto a loro agio letterati come Pietro Aretino (1492 – 1556), che proprio sulla laguna scrisse i celebri dialoghi delle prostitute, Ragionamento della Nanna e dell’’Antonia (1534) e Dialogo nel quale la Nanna insegna alla Pippa (1536), e Lorenzo Venier (1510 – 1556), poeta noto per due poemetti osceni in ottave, La puttana errante (1531) tre libri per complessive 138 stanze, un attacco frontale contro la cortigiana Elena ballerina descritta come affetta dal ‘mal francese’, dedita ad amori bestiali e pronta a vendersi per soli 4 scudi, e Il trentuno della Zaffetta, 114 strofe dove si racconta in versi il trentuno cioè uno stupro collettivo ai danni della povera Zaffetta, costretta ad avere rapporti sessuali con trentuno uomini di fila come pena per un rifiuto amoroso. A Lorenzo Venier viene attribuita anche la famosa Tariffa (titolo completo Tariffa delle puttane ovvero ragionamento del forestiere e del gentil’huomo: nel quale si dinota ilprezzo e la qualità di tutte le cortigiane di Venegia col nome delle ruffiane; ed alcune novelle piacevoli da ridere fatte da alcune di queste famose signore agli amorosi), un dialogo tra un nobile veneziano e un visitatore, in cui vengono prese in esame le peculiarità erotiche, con relativi costi, delle più conosciute “màmole” operanti nella città lagunare. I Veneziani, fa dire Pietro Aretino alla Nanna, protagonista dei Ragionamenti, in cui “insegna a la Pippa sua figliuola ad esser Puttana”, “hanno il gusto fatto a lor modo, e vogliono culo, e tette, e robbe sode, morbide, e di quindici, o sedici anni, e fino in venti e non de le petrarchescarie”.

Per tutti i gusti
A San Marco e dintorni ce n’è davvero per tutti i gusti: alla fine del Quattrocento, le locali venditrici di sesso, incalzate dalla concorrenza, non hanno particolari remore morali ad acconciarsi i capelli secondo la moda maschile e a offrire un ulteriore “servizio”, nonostante che le pratiche erotiche sodomitiche, come abbiamo visto, siano le più sospette e detestate dalle autorità laiche ed ecclesiastiche. Sembra prevalere un clima diffuso di esaltazione sensuale che coinvolge anche i più giovani:

I puti te dirà: “mostra la mona”
e ti la mostrerà per un sesin.

Venivano meno i confini tra donne per bene e prostitute, in base all’assunto per cui in ogni donna si nasconde una sgualdrina. Lo ribadiscono in terza rima i versi del Manganello, 1530, operina tanto facile quanto oscena impropriamente attribuita all’Aretino:

Femina non fu mai che non sia croia (dura, testarda);
femina non fu mai che non sia pazza;
femina non fu mai che non sia troia.
Elle vorrebbon star sempre a la piazza,
e tirar la sampogna e ‘l manganello,
sempre con la bugada e con la guazza.
Femina non fu mai senza coltello;
femina non fu mai senza ruina;
femina non fu mai senza bordello.

Attorno alla Venezia rinascimentale, dunque, una larga fama di libertà, tolleranza e spregiudicatezza dei costumi: una nomea non confermata, però, dai dati in possesso degli storici che sembrano parlare un linguaggio piuttosto diverso. Ci dicono, infatti, che anche Venezia confermava la tendenza di tante altre città del Rinascimento a circoscrivere la prostituzione in un’area ben definita: nel caso specifico quella del cosiddetto Castelletto, aperto fin dal 1358, non troppo distante da Rialto, il cuore pulsante delle attività economiche cittadine. Ai Signori di Notte, una speciale magistratura, era affidato l’incarico di controllare quella particolare zona della città, le sue abitatrici, l’andirivieni dei clienti… E, se i documenti veneziani dimostrano che una qualche forma di protezione veniva garantita contro le violenze, le rapine, le aggressioni, raccontano anche un’altra realtà: quella fatta di vessazioni, di richieste di denaro o, più spesso, di prestazioni sessuali gratuite imposte alle donne dagli addetti alla sorveglianza che non avevano particolari scrupoli a trarre vantaggio dalla loro posizione di potere. E non è arbitrario pensare che il famigerato Consiglio dei Dieci, costituitosi con compiti di sorveglianza e repressione interna dopo la congiura popolare del 1310, si sia servito spesso di cortigiane e prostitute come efficaci strumenti per carpire informazioni e metterle al servizio della sua occhiuta polizia segreta.









Nessun commento: