Firenze.
“La malafemmina
è
come l’ellera:
disfà il muro
che abbraccia”
disfà il muro
che abbraccia”
A Firenze le migliori casate della città, direttamente o attraverso i
propri intermediari, non disdegnavano di affittare case e stanze alle
prostitute. È il caso di Rosso di Giovanni di Nicolò de’ Medici che, come
riporta il Catasto fiorentino del 1427, il primo nella storia di Firenze,
cedeva l’uso di un’abitazione nei pressi di Chiasso Malaluna a Biagio
d’Antonio, macellaio di carni suine che, a sua volta, subaffittava sei piccole
stanze a un gruppo di prostitute. Altissima la pigione. Per ogni locale, le
donne si impegnavano a versare una cifra mensile che oscillava tra le 10 e le
13 lire, ovvero assai più del salario medio di un artigiano fiorentino, quattrini
che presumibilmente dovevano finire tutti o almeno in gran parte nella borsa
dei Medici all’inizio della loro avventura politica a Firenze. ‘Malacucina’ era
il toponimo che nella città toscana additava lo spazio esclusivo riservato ai
tenutari, ai ruffiani, alle meretrici. San Frediano era il quartiere a più alta
densità di luoghi del genere, designato nel gergo furbesco e malandrino del
tempo come ‘Camaldoli’ per via di un convento camaldolese ospitato proprio in
quella zona. Fin dal 1403 toccava a una speciale magistratura fiorentina, gli
Ufficiali dell’Onestà, sovraintendere alle attività connesse al sesso a
pagamento, inteso, appunto, come un servizio necessario e, soprattutto,
un’occupazione che, al pari e più di altre, rappresentava una fonte di lauti
guadagni che potevano essere convenientemente tassati e diventare così
occasione di introiti per l’intera comunità. Gli Ufficiali, oltre a vigilare
sui lupanari, sulle prostitute e i ruffiani, imporre tasse e concedere licenze,
svolgevano anche visibili compiti di ordine pubblico: giravano infatti in
coppia, armati e accompagnati e protetti da una scorta.
Per il trasgressivo Antonio Beccadelli detto il Panormita (Palermo, 1394
– Napoli, 1471), esponente di rilievo dell’Umanesimo italiano, non era Roma ma
Firenze il cuore della civiltà culturale e artistica che stava rifiorendo: e il
cuore di Firenze era, secondo lui, rappresentato proprio dalle sue cortigiane.
“Lì”, non lontano dal Mercato Vecchio, assicurava questo letterato nomade dalla
penna colta ed elegante, esisteva “un posto gioioso” dove è possibile
incontrare “puttane e signore dalle quali potrete avere molti piaceri.” E non
sorprenda la spregiudicatezza del Beccadelli che tra la generale condivisione,
in tutta tranquillità, era solito affermare che le cortigiane sono più utili al
mondo delle monache più devote.
Abili, abilissime le fiorentine, le donne in generale, ma soprattutto le
cortigiane famose che, come si suol dire, “facevano tendenza” in città, a
mantenere desto il desiderio maschile, richiamandolo su zone erogene certo
consuete ma sapientemente valorizzate. Per esempio, il seno, spinto verso
l’alto da un corsetto attillato e reso ben visibile da vertiginose scollature.
Se ne lamenta, un po’ moralisticamente come suo solito, Dante, che, per bocca
dell’amico letterato e avversario politico Forese Donati, condanna
l’impudicizia delle sue concittadine:
O dolce frate, che vuoi tu
ch’io dica?
Tempo futuro m’è già nel
cospetto
cui non sarà quest’ora molto
antica,
nel qual sarà in pergamo interdetto
alle sfacciate donne fiorentine
l’andar mostrando con le poppe
il petto.
(Dante, Purgatorio, XXIII,
97-102)
Ma era nell’alcova che ai frequentatori delle cortigiane era riservata la
più audace delle sorprese erotiche. Stiamo parlando dell’uso delle mutande,
considerate negli anni del Magnifico Lorenzo, un indumento lussuoso e
lussurioso di esclusivo monopolio delle più raffinate dispensatrici dei piaceri
di Venere: calzoncini in tela bianca nella sua versione più semplice, intessuti
d’oro e d’argento nelle situazioni di maggiore raffinatezza. Nihil sub sole novi, potrebbe dire
qualcuno.
“Un pezzo di carne con dua occhi”: questo le meretrici per il domenicano
Girolamo Savonarola (1452 – 1498), priore del convento di San Marco a Firenze. Vaccae pingues, grasse vacche, le donne
d’amore ai suoi occhi di asceta radicale e riformatore cristiano: pubbliche
concubine che non si vergognano neppure di giacere con preti e frati, colpevoli
le une e gli altri di quel peccato di lussuria che “fa perdere la grazia di
Dio, et etiam lo intelletto”.
Ma la città che era stata laurenziana fin nelle midolla, che aveva amato
gli svaghi carnascialeschi e l’essere percorsa dalle “liete brigate,
consapevole e fiera del suo ruolo di capitale delle bellezze umanistiche in
fondo, dopo un’adesione iniziale, non aveva nessuna intenzione di trasformarsi
in una severa “nuova Gerusalemme”. Puntuale il rogo ridusse in cenere le
speranze dell’utopia savonaroliana e i suoi appassionati e intolleranti
protagonisti.
Interessante anche l’origine geografica delle prostitute pubbliche a
Firenze intorno alla metà del XV secolo: nessuna fiorentina, più di un terzo
provenienti dai Paese Bassi, in virtù della fama di grande sensualità delle
fiamminghe, un quarto circa tedesche, qualche francese, rarissime le inglesi.
Dati rassicuranti circa la moralità delle donne di Firenze, ma che trascurano,
probabilmente in maniera voluta, lo
stato della prostituzione privata. Questa doveva, invece, essere assai fiorente
se qualche anno dopo il ritorno dei Medici a Firenze (1512) possiamo leggere
che le puttane “le vanno come pare loro e … le menono la coda più che mai”. Per
gli amori facili Firenze è rimasto, dunque, ancora un vero e proprio locus amoenus, destinato però nel giro
di neppure un quarto di secolo a intorbidarsi, stretto tra i ricorrenti
sussulti del cupo moralismo savonaroliano e un clima culturale dominante
intriso del rarefatto platonismo di derivazione ficiniana. E, se al tempo di
Cosimo I (1519 – 1574) era possibile trovare a Firenze il raffinato cenacolo
erotico - letterario che ruotava intorno alla celeberrima, e ormai non più
giovane, Tullia d’Aragona (1506 – 1556), il compito di garantire soddisfazioni
meno rarefatte ai fiorentini toccava alle intellettualmente più modeste
Maddalena Salterella, Fioretta Bolognese, Nannina Zìnzara e la Cecca… Così, nel 1562,
racconta la città e le sue venditrici d’amore un nobile veneziano che, offeso
nell’onore, chiede, senza particolari speranze di ottenerla, giustizia alla
magistratura fiorentina degli Otto di Guardia: “Accade signori che come fanno
li huomini senza consorte alchuna volta conversano con donne et meretrici come
è intervenuto a me che essendo indotto a casa la Giulia Napolitana et convenuto
seco che lei venissi a dormire a casa mia gli lasciar scudi 4 d’oro … Parve che
la prefata o da lei o da altri fusse consigliata a farmi scorno et così manchò
non ostante che lei mi habbia fatto burlare da infinita suoi amici di modo che
ricorrendo all’officio dell’honestà et pensando che mi dovesse essere administrata
iustitia è accaduto che ho visto apertamente gli smisurati et aperti favori
fattili d’alchuni di detto uffizio...” Sarà invece proprio la letteratissima
cortigiana Tullia d’Aragona a rimanere invischiata nella normativa anti
prostituzione emanata nel 1546 da Cosimo che vietava per le ‘donne pubbliche’
l’uso di vesti di seta e tornava a imporre loro di portare sulla testa, ben
visibile “un velo o pezzo di stoffa oppure una striscia larga non meno di un
dito di colore giallo” prevedendo per ogni trasgressione multe e pene di ogni
tipo. Solo grazie alla solidarietà femminile, espressasi attraverso i buoni
uffici di Eleonora, moglie del duca, Tullia d’Aragona venne assolta.
L’umiliazione, però, era stata troppo grande e la donna, offesa e delusa, deciderà
di allontanarsi da Firenze e di abbandonarla alla pesante cappa di
autoritarismo politico e religioso che cominciava ad avvolgerla, preferendole
Roma, la città all’origine della sua fama.
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