foto di Caterina Donatelli |
Il revisionismo storico strisciante che si manifesta in queste circostanze è un assassinio a mani fredde, della memoria!
Storie
semplici
Da piccola nessuno mi raccontava le favole; non
conoscevo i sette nani di Biancaneve, né le scarpette di vetro di Cenerentola,
o le avventure spericolate del Gatto con gli stivali, c’era qualcosa di più
speciale da raccontare: c’erano le storie di famiglia. Storie semplici, rubate all’infanzia di mia madre e alla “grande casa gialla”, dimora
colonica di tenaci mura in mattoni e ciottoli di fiume intonacate, pronte a
contenere il palcoscenico vibrante del quotidiano, dove si esprimeva
protagonista la vita, in un misto di tinte forti intrise di gioie, dolori,
passioni e morte.
Adoravo sedere davanti alle sue ginocchia, o
perdermi tra i bianchi capelli sottili e opachi dei nonni, quando decidevano di
tirami dentro al microcosmo del loro passato; era un esercizio fecondo per
l’immaginazione, oltrepassare le parole, lasciarsi catturare dal suono delle
voci che mutava nella descrizione degli avvenimenti e scoprire negli sguardi,
impalpabili veli di nostalgia.
Raccontavano di vite sconosciute, forse di sogni
mai realizzati o di verità nascoste; una sorta di controstoria fatta di piccole
cose, un cesto pieno di straordinari particolari secondari, che restituivano un
circuito fiabesco di sentimenti, in un affollato mondo di presenze quasi
mitologiche e simboliche, come nei quadri narranti di Henri Rousseau.
Molte di queste storie appartenevano al periodo
della guerra: i soldati tedeschi, gli sfollati, i bombardamenti, le corse
notturne nelle campagne per raggiungere i rifugi dove, pressati l’uno
all’altro, si respirava l’odore aspro della paura.
Spesso, nei racconti di mia nonna riaffiorava il
volto di un giovane soldato tedesco di nome Andrea; entrò nella sua vita per
pochi giorni, ma bastò per lasciare nella memoria una traccia di malinconia che
il tempo non fu capace di cancellare.
Era l’autunno del ’43, o del’ 44, gli alberi si
preparavano ad assumere i colori caldi del tramonto, la natura è indifferente
agli avvenimenti degli esseri umani.
I soldati tedeschi combattevano lungo la costa;
spesso le truppe si ritiravano verso l’interno, forse per riposare e fare
rifornimenti prima di ritornare al fronte, così capitava di averli attorno e in
casa: Nin ci faciôie ni’ende¹,
volevano solo un po’ di cibo, rubavano delle galline o qualche frutto.
A volte li sorprendeva a giocare con i bambini,
ma bastava che passassero degli aerei tedeschi per vederli correre urlanti,
tenendo le braccia in alto fino alla fatica, su e giù per le terre attorno a
casa, come fossero loro stessi dei bambini.
Poi un giorno arrivò Andrea. Era mattino, il
sole aveva da tempo illuminato le pareti; in cucina sul misero tavolo di legno,
attendevano tre grosse tazze di latte caldo con vicino delle fette di pane,
coperte dal tovagliolo di lino del corredo tessuto dalle sue mani, prima di
maritarsi.
Lei trafficava nelle stanze con i figli appena
svegli, sentì dei rumori e si affacciò sull’ uscio: poco lontano vide un
carrarmato tutto crivellato di colpi, probabilmente era arrivato durante la
notte.
Ne uscì un soldato con la divisa imbrattata di
sangue, trascinandosi come un vecchio si avvicinò indicando con gesti mescolati
a poche parole in italiano, il carrarmato dove c’era il suo camerata morto, non
sapeva cosa fare; doveva restare lì e aspettare l’arrivo di nuovi ordini.
Lo guardò bene, era giovane, avrà avuto
ventidue-ventitrè anni, i capelli spettinati un po’ scuri, due sopracciglia
marcate, il corpo stanco segnato dalla paura: gli chiese se avesse fame, il
ragazzo rispose di sì con la testa e così entrarono in casa. Disse di chiamarsi
Andrea, questo era il nome che lei ricordava, in Germania aveva la famiglia,
gli amici e voleva sposarsi, da tempo aspettava notizie da sua madre e dalla
fidanzata. Jie friccicôje l’uecchie
quande m’arcundôie di la mamme² .
Restarono a chiacchierare a lungo, il soldato
aveva voglia di parlare, quella donna che lo ascoltava mentre sbrigava le
faccende giornaliere circondata dai suoi bambini, i profumi semplici della
cucina, tutto lo riconduceva a una normalità oramai dimenticata, probabilmente
gli dava la sensazione di avere ancora una possibilità. Passò il giorno.
La mattina successiva arrivò una lettera, non
erano notizie né della madre né della fidanzata, ma l’ordine di tornare al
fronte, di tornare a combattere.
Corse da mia nonna, piangeva e tremava, con lo
sguardo smarrito le mise la lettera tra le mani, lei non sapeva leggere, ma
bastò poco per capire. Seguì un lungo silenzio. Ferma con i pugni sui fianchi
abbassò gli occhi, sentiva il peso della rassegnazione che il ragazzo intimamente
provava, allora con un gesto deciso, si arrotolò sulle braccia le maniche del
vestito, pronta ad allontanare quella triste sensazione il più possibile.
Richiamò suo marito dai campi e gli disse di
andare allo spaccio del paese a comprare la medicina per il sapone. Accese un
bel fuoco, mise a bollire l’acqua dentro un’enorme pentola appesa al gancio
annerito che dondolava al centro del focolare, poi aprì la credenza per
preparagli il pranzo con quello che aveva - erano “a masseria”, una mezzadria
feudale che obbligava la restituzione di parte dei raccolti ai padroni, ma quello
che avanzava era sufficiente per sfamare tutti e per avere le dispense con
qualcosa dentro, da mangiare.
Il soldato seguiva ogni operazione in silenzio,
rapito, quasi assente, lasciò che i suoi occhi si abbandonassero ai movimenti
precisi e rassicuranti della donna che, con il suo impegno e la sua presenza,
stava tessendo intorno alla sua disperazione una tela di speranza. Quando mio
nonno tornò dal paese, lei ordinò al ragazzo di togliersi la divisa di dosso e
meticolosamente la mise a lavare nella tinozza con l’acqua bollente e la
medicina. Sinnù ‘nzi scuticciôie³.
In fretta uscì e andò a raccogliere dei ceppi e
della legna che mise ad ardere nel forno: quelle
dua ci si cucioie lu pane4. Quando la cupola di mattoni
divenne incandescente prese degli stracci bagnati, li arrotolò intorno ad un
bastone e con bracciate energiche ripulì il piano dalle ceneri; strofinò con
forza la divisa e la lavò per bene nella vasca dove si sciacquavano i panni, prese
una sedia e la “cacciò dentro” al forno con lo schienale rivolto verso la
semisfera e vi poggiò sopra i vestiti del soldato, che si asciugarono con il
tepore.
Lo rivestì come si fa con un bambino, vide che
mancavano dei bottoni ed allora si procurò la divisa del compagno morto e li
ricucì uno per uno con il filo doppio, così non li avrebbe più persi.
Quando fu pronto gli mise in mano un fagotto con
del pane, un tocco di prosciutto, del formaggio e un pezzetto di turrune chi li carracine5, un
dolce ch’era riuscita a procurarsi per i suoi bambini, barattandolo con delle
uova fresche.
A quel punto il soldato ruppe il silenzio e
chiese a mia nonna un fazzoletto, lei prontamente andò in camera e dal cassetto
del comò ne tolse uno tutto nuovo, era bianco, da uomo; il ragazzo lo prese, se
lo passò tra le mani, sapeva di pulito, come fosse un oggetto prezioso lo mise
delicatamente in tasca abbozzando un sorriso.
Si salutarono sulla porta e lei ricorda che
disse: “Se mai campo, voi sarete i miei primi parenti”. E andò via. Camminava
con la testa girata all’indietro e quando i tratti del viso non si
distinguevano più, lentamente tirò fuori dalla tasca il fazzoletto bianco e lo sventolò fino a quando non scomparve dietro
agli alberi. Non è più tornato.
Una
volta per provocarla le dissi: “Nonna! Hai dato da mangiare a un tedesco, i
tedeschi hanno ammazzato la nostra gente”. Lei, con un sorriso strappato alla
compostezza rispose: Ere sule nu
bardascie6.
1 Non ci
facevano niente
2 Gli
brillavano gli occhi quando mi raccontava della mamma
3 Altrimenti
non si pulivano
4 Quello
dove si cuoceva il pane
5 Torrone
con i fichi secchi
6 Era solo un ragazzo
ô ed û si leggano come eu ed u francese
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