di Gianni Quilici
Di Sergio Tori ho scritto in precedenza quando ci aveva lasciati a poco più di 50 anni. Lo avevo definito foto-poeta. Del poeta scrivevo “aveva il sentimento bruciante delle 'cose', la trasfigurazione metaforica, la forza ritmico-musicale”.
Del fotografo vorrei
ragionare in questo blog.
Sergio fotografava da
sempre nei suoi numerosi ed errabondi viaggi nel mondo; ma sopratutto dalla
fine degli anni '90 questa passione era diventata ancora più divorante e
professionale. Era entrato a far parte del Circolo fotografico lucchese
“PhotoLife” nel 2001 ed aveva iniziato ad esporre. Mostre a Lucca e, ogni anno,
a Montecarlo, al Teatro dei Rassicurati, e infine nel 2003 a Milano e a New York.
Per non scrivere
astrattamente scelgo una sua foto qui riprodotta (“Il bambino di Essauira”)
che è quella che a me pare la più poetica e complessa anche
formalmente.
Ad un primo sguardo colpisce quel sentimento di libertà che il bambino che corre (colto col piede alzato), i gabbiani che volano distendendosi con le loro ali, l'orizzonte stesso indefinito esprimono con rara efficacia.
Questo sentimento liberatorio, osservando con più attenzione la foto, viene “esaltato” da due aspetti: la simbolicità maggiore che il bambino e i volatili acquistano nello scatto in campo lungo e in controluce, con il quale diventano quasi delle silhouette; la bellezza formale dell'inquadratura, che si divide cromaticamente (bianco-nero) in due parti più o meno uguali e in contrasto tra loro.
Risultato: una foto che, per un verso, si avvicina all'astrazione della grafica (molto moderna); per un altro verso è invece non solo concreta, ma poetica (la cattura dell'attimo bressoniano).
Sergio Tori. Il bambino di Essauira. Marocco.
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