Recensione-intervista
Conversazione con Adonay Navarro
“Dipingere
è avere fantasia e operazione di mano,
di
trovare cose non vedute (cacciandosi sotto ombra
di
naturali) e forma con la mano, dando a dimostrar
quello,
che non è, sia.”
(Cennino Cennini, Trattato della pittura)
Se
ci proviamo in una salgariana spedizione da internauti e selezioniamo
“Honduras” tra le voci enciclopediche
di Saper.it scopriamo l’arcobaleno cartografico di un mondo meraviglioso. Ma
rispetto al flusso immaginifico della penna dei romanzieri, oggi è la
piattaforma virtuale a ridisegnare spazi e tempi, usi e costumi, confini e
cultura di un’intera etnia, disponendola nei lemmi di una mappatura ad icone;
la quale, oltre a metterci nella più agevole disposizione di spirito per la navigazione
fantastica, ci offre una nitida istantanea
dell’Honduras: questo stato dell’America Centrale, affacciato sul Mar delle
Antille e punteggiato da pelaghi di 5000 metri che scoraggiarono lo stesso Colombo.
E su questa scia leggendaria, veniamo a conoscenza dell’etimologia del nome,
forgiato sull’ispanismo hondura che
significa “profondità”. Un serpeggiante clima tropicale avvolge Tegucigalpa, la
capitale amorosamente ribattezzata dagli abitanti col nomignolo Tegus; lo
spagnolo domina come lingua, ma declinato e arricchito localmente da inventivescreziature
lessicali, come vogliono le leggi universali delle variazioni della lingua nel
tempo, nello spazio e nella società; la fede religiosa si biforca tra
cattolicesimo e protestantesimo; l’unità monetaria porta il fascinoso nome di
lempira. “Assai ricco è il manto vegetale”, punteggiato di cedri, mogani,
sapodille, ceibe e intervallato da boschi di querce e conifere, e mangrovie
sparse sugli orli delle coste. Nelle linee di questo arabesco
si muovono tapiri, giaguari, coccodrilli, caimani, iguane, tartarughe, avvoltoi
e altre specie rare.
Questo
“vasto altopiano” ha i suoi confini geografici, a Nord, verso il Mar delle
Antille e, a Sud, tra Nicaragua e oceano Pacifico, contornato infine a Ovest da
El Salvador e Guatemala. Non manca la pagina dolorosa connaturata alla storia
del “secolo breve”, perché anche l’Honduras ha conosciuto il ventre molle de “i
problemi lasciati in eredità dai regimi dittatoriali, violazione dei diritti
umani, criminalità, povertà, analfabetismo”. A riequilibrare la bilancia verso
le conquiste di civiltà e progresso troviamo il lemma “Cultura” articolato in
quattro aree. Complessivamente, la spina dorsale della cultura honduregna è di
matrice spagnola, ma su de essa si è depositata, per accrescersi, l’influenza
europea, il cui alfabeto, tra barocco e moresco, ha lasciato tracce incise
nelle “espressioni architettoniche, artistiche, religiose di forte
peculiarità”. A questo corredo occidentale risponde con solennità atavica “il
sito maya di Copàn, dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO nel 1980,
posto quasi al confine con il Guatemala e le cui rovine archeologiche
(la ‘scalinata dei geroglifici’, i templi dell’acropoli, le sculture)”, prima
che monumenti, incarnano documenti della civiltà che lì visse a partire dal II
secolo. Ma il vero e proprio tessuto connettivo dell’arte honduregna
contemporanea sono gli artisti, alcuni dei quali hanno raggiunto un respiro
internazionale, mentre un vivaio di giovani - come mi raccontava, nel corso
dell’intervista, Adonay Navarro - si formano orientandosi in vari indirizzi,
dal figurativo all’astratto, con un deciso sperimentalismo dei materiali e dei
supporti. L’ultima sezione “Cultura: arte” riserva la chiusa enciclopedica ad
un aureo
quadrilatero
della pittura e della scultura honduregna: Pinto Rodezno (1965); Dario
A. Rivera Trejo (1958), MAFFELA (Maria Ofelia Garcia Casanova) e
Yovany
Adonay Navarro (1974).
Ho
conosciuto Adonay Navarro circa un mese fa. Il primo contatto percettivo con alcune
sue opere mi ha richiamato prepotentemente alla memoria il concetto espresso da
Cennino
Cennini nel suo Trattato della
pittura, posto ad epigrafe dell’intervista. Non so per quali meandri,
quella meditazione sulla centralità dell’intelletto pittorico che sorregge la
mano dell’artista e lo spinge a “trovare cose non vedute” si è affacciata in me
senza reale giuntura con quel linguaggio formale che mi stava davanti, figlio
di un altro secolo e di un altro vocabolario pittorico. E in verità, nemmeno ad
intervista ultimata riuscii a dare un senso all’accostamento, che continuava a
sembrarmi imbastito sulle fondamenta di un castello di sabbia. Non vi scorgevo
un orizzonte di senso che andasse al di là della pretestuosa suggestione
intellettualistica. La risposta arrivò impreveduta. L’avrei trovata, qualche
tempo dopo, leggendo alcune pagine di Raffaello Borghini, autore di un
meraviglioso trattato (Il riposo,1584),
sulle cui tracce mi aveva messo un saggio di Vittorio
Sgarbi (La stanza dipinta, riedito 2012). In un
capitolo, il critico trasceglieva un’espressione di Borghini per definire il
midollo concettuale dell’opera di Valerio Adami, pittore del
Novecento. Secondo Borghini, l’arte è “un abito intellettivo” che fa “con certa
e vera ragione di quelle cose che non sono necessarie, il principio delle quali
non è nelle cose che si fanno, ma in colui che le fa.” Se quindi la radice
prima dell’abito intellettivo è nell’interiorità dell’autore che astrae, che
sviscera interpreta trascende il dato di realtà in una visione stilistica
nuova, perché questa condizione mi appariva così calzante uardando le opere di
Adonay Navarro? Nonostante l’irrequieto e policentrico sperimentalismo del suo
percorso di scavo espressivo, una tonalità di fondo lavorava ad unire le opere della
‘prima maniera’ con i più recenti approdi: il disegno. Quel disegno che Adonay
Navarro immerge nelle profondità del pensiero e nell’esplorazione degli oggetti
con l’ostinata, straziante vitalità degli esercizi quotidiani. Nei suoi dipinti
e nella modellazione delle sue
sculture, la linea grafica non traccia la figura; non funge cioè da elemento
strutturante; ma ne scopre l’intima essenza.
Adonay
Navarro concepisce il disegno come una vera e propria forma conoscitiva, la
quale, nell’arco del processo creativo, finisce per dettare il primo tempo dell’interpretazione. Come
“abito intellettivo” il disegno perde la sua connotazione preparatoria per
assumere un nobile statuto di autonomia intellettuale. Forte di questa sua
centralità, esso diventa elemento unificatore dello stile. In questo sistema
estetico, disegnare non significa più muoversi sul terreno delle intenzioni
estetiche, del collaudo, dell’approssimazione
all’idea; poiché è già tutto questo insieme. Il nodo pensiero/disegno porta
l’arte di Adonay Navarro lontana da ogni semplificazione popolare, prossima al
candore naif; e si apre invece ad una strofa pittorica e plastica dove volti,
oggetti, luoghi, persone, brani di memoria e proiezione dei desideri, si fanno
simbolo (o archetipo) trovato in forza di astrazione.
Il
nucleo pulsante dell’intervista all’artista dovrebbe essere, malgrado la
modernità giornalistica del “genere”, quello di sortire un effetto maieutico:
lasciare un ritratto in piedi dell’autore, tale da mettere a nudo le linee di
intersezione tra mondo concettuale e mondo della forma artistica, fornendo così
al lettore più sprovveduto un’idea intensa e convincente del suo percorso.
Un’intervista-bussola, per dir così, tanto più necessaria
in mezzo all’affollata piazza dell’arte contemporanea, col suo arcobaleno di
chiavi espressive.
Un’intervista
che sia “un abito intellettivo”, capace di tradurre al meglio l’uniforme della
critica d’arte, in tempi in cui risulta sempre più difficile andare tra i
talenti a lume di naso; come è sempre più difficile assottigliare i coni
d’ombra disegnando esaurienti planimetrie delle correnti e delle personalità
del panorama artistico contemporaneo.
Adonay Navarro tu sei molto giovane; ma
hai già alle spalle una carriera straordinaria: esposizioni,mostre, simposi,
biennali, riconoscimenti e il recente Premio Unico de Subasta 2012. Il tuo iter
espositivo ha un respiro cosmopolita che va dall’America all’Europa, fino a
cornici prestigiose, anche per l’esperienza diretta su una materia come il
marmo, conosciuto lavorando nei simposi di Carrara. Da dove parte questo percorso? Qual è stato il tuo esordio?
Ho
sempre avuto un’attitudine alle forme plastiche, fin da piccolo. Questo mi ha
portato ad iscrivermi, negli anni Novanta, alla scuola di Belle Arti in Honduras,
l’Escuela Nacional de Bellas Artes, una formazione dalla quale uscii laureato
nel 1993.
Mi piacerebbe conoscere più da vicino la
tua formazione artistica. Ad esempio, chi sono stati i tuoi maestri?
La
mia formazione è relativa all’Honduras; lì sono le mie radici e lì c’era la
possibilità di vedere il museo e di venire a contatto con opere notevoli. Se
dovessi individuare un professore che mi ha ispirato, il primo nome sarebbe
quello di Obed Valladores. Si era formato a Carrara e aveva istruito a
sua volta la prima generazione di artisti honduregni, tra i quali Dario
Rivera. Il laboratorio del mio maestro Valladores si chiamava
“Buonarroti” in onore di Michelangelo.
Il Rinascimento italiano è presente
nell’immaginario artistico honduregno?
Certo!
Noi dell’Honduras guardiamo agli artisti del Rinascimento; gli artisti della
mia generazione, ma anche i giovani allievi, studiano Michelangelo. Personalmente,
però, mi sento più vicino a Bernini e a Canova.
Sai che le mani di Apollo
e Dafne sono opera di Giuliano Finelli, uno dei quattro carraresi al seguito
delle nutrite maestranze del Bernini? Era dotato di uno straordinario talento e
di una grande sapienza tecnica. Un virtuoso. Pare che Bernini non abbia più
toccato quelle mani.
Per
me Apollo e Dafne è il massimo
risultato del Bernini, forse la sua opera più grande. Sì, le mani sono straordinarie.
Di Antonio Canova amo Le tre grazie e
in particolare Paolina Borghese.
E nel classicismo del nostro tempo?
Nel
nostro tempo? Non è facile decidere. Diciamo che tra i ’classicisti’, tra gli
artisti che creano un dialogo con la tradizione, mi colpisce soprattutto Mitoraj.
Mi piacerebbe sapere se, a partire dai
tuoi esordi, pittura e scultura sono stati compresenti. Spesso nelle tue opere
i due linguaggi - colore e modellazione plastica - si intrecciano per dar corpo
ad un coerente dettato formale. È stato così fin dall’inizio?
Io
sono nato come scultore e ho sempre lavorato la scultura; ma la formazione
generale dell’Accademia ti porta a sperimentare anche la pittura. Diciamo che,
per quanto riguarda la mia ricerca, dal 1995 la scultura tridimensionale si
arricchisce della pittura. Ogni opera deve sortire creta o marmo o terracotta,
a seconda del tema trattato; oppure servirsi degli apporti della pittura,
sempre a seconda del soggetto.
Come se fosse il soggetto a decidere la
materia.
Ti
faccio un esempio. Per la mia opera, per i soggetti che scelgo, il bronzo non
va bene. Non lo uso mai, perché non traduce ciò che voglio esprimere. Uso
invece la pietra, la creta, il legno, a volte il cotone. Il simposio del 2001, a Carrara, mi ha dato
la possibilità di conoscere e lavorare il marmo, che prima non conoscevo, se
non per sentito dire.
Abbiamo toccato i punti di snodo della
tua formazione; della tua biografia intellettuale, fatta di maestri e modelli
ai quali hai guardato. Ma c’è ancora un lievito segreto che vorrei approfondire
ed è il tuo rapporto con l’Honduras. Ad un artista si chiede sempre di che
materia è fatto, del suo rapporto con il luogod’origine. Che cosa passa
dell’Honduras nella tua opera?
All’Honduras
è legata la mia famiglia e il senso di appartenenza profondo e totalizzante che
fa di un luogo il ’tuo paese’. E l’Honduras è anche la terra che ha visto la
mia prima ispirazione. Lì sono le radici della mia cultura artistica, piena dei
suoi colori accesi. Ho lavorato questa materia umana e culturale per quindici
anni e dopo questa lunga ricerca ho vissuto una situazione di riflessione sulla
mia opera, ho rimeditato sullo stile.
E che cosa è successo durante questo
passaggio?
Ho
sentito di dover tornare al disegno, di farne qualcosa di più. Di renderlo uno
strumento conoscitivo. Mio padre fece le scuole con il pennino e l’inchiostro e
io ho deciso di tornare al pennino. La china che vedi nelle mie opere la faccio
io, con le foglie di sakatinta, che mio padre mi ha insegnato a trattare.
Adonay, per molti artisti, il disegno
rappresenta una fase iniziale; è l’intelaiatura dell’opera, il suo cartone preparatorio;
o, più in generale, il disegno è il luogo dove liberamente si approccia
all’idea, si prende confidenza con il soggetto attraverso una messa a fuoco
aurorale che poi passerà nella messa in opera delsoggetto. Questa fase di
studio viene cancellata nella corsa alla perfezione stilistica del finito. La
stessastoria del disegno nell’arte occidentale mostra la presenza di fogli,
diari, quaderni, taccuini che sembrano ricoprire una posizione ancillare
rispetto all’opera in pittura. Perché hai deciso per il primato del disegno?
Sono
tornato, e torno sempre, al disegno come ad una necessità personale; per
rinnovare lo stile; perché il linguaggio che usavo non si adatta più alla
realtà, al mio universo familiare. Ad un certo punto, sento che la ricerca
subisce un arresto, finisce per incagliarsi in alcune secche. A me è successo
nel periodo in cui lavoravo a Chicago. Mi sono dedicato al tratto, alla pulizia
della linea. In molte interviste ho parlato del blocco dell’ispirazione. Un
critico mi ha persino detto di non dirlo.
Una linea sintetica che Longhi avrebbe
chiamato ’floreale’ per la sua serpentinata musicalità e che, nel recente ciclo
per il Vaticano, mi pare sfiori quasi la frase calligrafica, soprattutto nel
tratteggio dei volti enelle linee delle architetture a china su fondo giallo.
Il
ciclo per la mostra in Vaticano si chiama Re-estructura:
sono disegni realizzati a china e pennino. Dopo il blocco creativo sono
nati degli esperimenti incentrati sul disegno. Dietro le figure ci sono i
pletogrifici che io vidi nelle grotte dei miei luoghi e che ho iniziato a ricreare
in alcune tele. Lì ho appreso, per la prima volta, un segno sintetico.
Questo alfabeto disegnativo è per te come
una ‘lingua’ con la quale leggi il mondo. Mi viene in mente ciòche Nabokov
chiamava “la biografia dello stile”, perché davvero seguire le evoluzioni del
tuo disegno significa rivivere dall’interno la fasi del tuo processo creativo.
Ti propongo questa riflessione propriosfogliando il catalogo delle tue opere e
guardando le immagini presenti nel tuo blog[Adonaynavarro.wordpress.com]. Colpisce la varietà degli stili e dei
linguaggi, come se il tuo ‘segno’ nonsi stabilizzasse mai su di un baricentro;
ma trovasse il suo punto di forza nell’attraversamento irrequieto degli stili;
stili in movimento, spesso così diversi da creare l’impressione di opere uscite
dalle mani di artisti diversi.
Sì,
il disegno rappresenta per me una vera e propria lingua, della quale ogni volta
devo tornare ad impararne le strutture, la grammatica, aggiungere o togliere o
correggere le frasi. La metafora calza bene. Sia in scultura che in pittura ho
sempre impiegato più stili; e ogni registro formale era legato ad una
situazione di vita oltre che ad un’esigenza espressiva.
Il dialogo con la materia è diverso per
il pittore e lo scultore. Per il primo, il corpo a corpo con la materiasi fa
più docile (c’è la linea, il colore, il disegno), a meno che non si dia il caso
di ‘action painting‘ o altriapprocci spiccatamente gestuali; mentre per il
secondo, la sfida con la modellazione gestuale, tattile, e con iproblemi messi
in gioco dalla creazione tridimensionale, è una condizione permanente dalla
quale dipendeil risultato finale dell’opera. Come vivi il passaggio da un
linguaggio all’altro? Da un supporto materiale ad un altro?
Questo
passaggio è stato presente, nella mia creazione, fino dagli anni della
formazione, poi negli esordi e dura tutt’ora. È una condizione che vivo da
sempre; ma che non ha mai costituito uno strappo. C’è semmai continuità. Il
passaggio, in realtà, è un dialogo di linguaggi e di materiali propri della pittura
e della scultura.
Nell’arte
delle origini erano fusi, solo più tardi si è teso a separale; per cui spesso
chi è pittore è pittore e chi è scultore è scultore. La mia sperimentazione,
invece, è sempre aperta a livello di materiali, alla loro possibile commistione.
Molti supporti possono stare assieme. In Hicos de mais, un’opera del 2004, ad
esempio ho utilizzato legno, cotone, resina, carbonato di calcio. Ma, come ti
ho detto, ogni opera, ogni soggetto, può essere realizzato solo in quel materiale, o in quella specifica
combinazione di materiali, e non altri.
Noi abbiamo dietro alle spalle un secolo
che è stato definito “breve”; ma questa brevità è tutta percorsa daun
vertiginoso sperimentalismo in ogni campo artistico, tanto che spesso si sente
ripetere che “è statoespresso tutto”. Il Novecento è stato il secolo delle
avanguardie storiche; degli antitetici percorsi diPicasso e Dalì; delle
correnti informali; dell’arte concettuale; dei riusi materici dell’Arte Povera;
del corpo dell’artista sottoposto è performance di ogni tipo. Quanto ha
influito la sperimentazione novecentesca sulla tua opera?
Sulla
mia opera ha influito molto la lezione di Marcel Duchamp, il suo riuso ironico
e provocatorio degli oggetti della modernità nella chiave del ready-made. Duchamp ha influenzato molto
le correnti artistiche honduregne. Ma non amo il facilismo del Novecento. Molti
giovano artisti, in Honduras, saltano l’apprendimento artistico per dedicarsi
all’astratto. C’è molto del ready-made,
ma anche un omaggio al classicismo, in un’opera come Interno/Esterno.
Interno/Esterno
è forse l’opera più
rappresentativa in questa direzione, quella che mi ha permesso di miscelare la
passione per la classicità con l’avanguardia. L’ho realizzata nel 2005 e si
trova in una collezione privata in Honduras. Nella parte inferiore, ho
mantenuto un registro linguistico classico che riecheggia i modelli delle
Veneri, con il panneggio ad effetto bagnato, velificato sulla pelle e con il
gioco di pieghe sinuose; dai fianchi in su, tutto si capovolge, si passa ad un
altro linguaggio che è quello della musica e dell‘oggetto moderno. Ho scelto
così di modellare il busto a forma di chitarra. Ma non è una chitarra della fantasia;
è una chitarra reale, che lo spettatore può suonare, può pizzicare. C’e in questa
scelta la volontà di rompere la distanza sacrale che divide il pubblico
dall’opera; e l’uso della chitarra reale mi dava la possibilità di interagire
con lo spettatore, di creare un’unione con chi guarda.
Adonay, tra le tue ultime opere ci sono i
Gerberizados, che, come scrive il
critico Ramòn Caballero, “contengono campioni di terra, pietra, residui
vegetali estratti dalla zona mineraria dove ancora si lavora con il metodo a
cielo aperto”; frammenti honduregni racchiusi in piccoli vasetti di vetro viaggiano
nel mondo, diventando “metafora preziosa di una nazione”. Caballero la
definisce “un’arte reale-surreale”.Una nuova direzione di scavo e di
ricerca?
Sì è
una nuova ricerca che si affianca a quella del ciclo dei Re-estructura, che invece
si mantiene dentro l’esercizio del disegno. Oltre alla scelta dei frammenti,
nel vasetto c’è anche la presenza di un codice a barre, ossia di un elemento
tecnologico reale. C’è dentro l’informazione dell’Honduras. Sono una serie di cinquanta
pezzi. Ma nei Gerberizados c’è anche un intento di tipo civile, la denuncia
di un tema forte come quella della miniera e dell’esportazione, presente anche
in un’altra serie recente, i Fossilis modernus, fossili custoditi
in astucci di legno che fungono da cornice, e attorno ai quali ho disegnato,
sempre a china, motivi floreali, piante, alberi.
Adonay ho un’ultima domanda. Pensi che
l’arte possa ancora generare del “nuovo”? Che possa ancora raccontare il nostro
tempo con icone potenti? Pensi che un artista, insomma, possa ancora essere
testimonedel suo tempo storico, mettendosi davanti a uomini e donne, civiltà
potere e miti, come la storia dell‘arte ci ha insegnato?
L’arte
sempre ha rappresentato la Storia. Ciò che conosciamo del passato è veicolato
spesso dall’arte, che è una forma di pensiero. In questo senso, ho trovato
molto significativa l’ultima mostra che ho visto a Firenze, Arte
torna Arte. Mi sono piaciuti gli artisti moderni che si misurano con il
classico. Ad esempio Lorenzo Bartolini e Picasso: mi ha impressionato il loro
modo di stare assieme. Anche gli artisti del nostro tempo dovrebbero lavorare, ricercare, sperimentare secondo il loro
vocabolario, ma cercando di mantenere una linea di continuità con la
tradizione. È un messaggio che invio anche ai movimenti artistici
dell’Honduras, invitando i giovani a guardare all’arte del Novecento e, allo
stesso tempo, a crescere stando dentro un continuo rapporto di scambio con i
maestri della tradizione classica.
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