La bellezza di colori assoluti
nella loro incredibile varietà e
luminosità
colti nell'attimo in cui la forza
che si imprigiona dal braccio del barcaiolo
scivola via sull’acqua
che si imprigiona dal braccio del barcaiolo
scivola via sull’acqua
nel senso fluido del viaggio
con l’orizzonte d’una verzura
rigogliosa
che pare apparentemente chiudere
ciò che invece si può
soltanto immaginare
realisticamente e favolosamente
aperto
di Davide Pugnana
Vidi questo scatto di Steve Mc Curry diversi anni fa, in una
mostra a Lucca; ma non ricordo in quale sede. Ricordo bene però l'impressione
abnorme che mi fece il riunirsi, al limite del visionario e dell'irreale, di quella
fantasmagoria di colori che parevano bloccati in un'esistenza più che fluida
plastica: i mulinelli sinuosi, le increspature dei getti, le rugosità minute
dei gorielli, ogni più piccola particella in movimento animata dal tonfo del
remo sembrava intagliata in un muscolo di roccia; le pieghe stesse della giubba
del barcaiolo partecipavano di un chiaroscuro vicino alle ocre immobili delle
venature geologiche. In alto, il punctum prospettico, innescato dalle tessere
gialle della poppa, finiva in quel magnifico copricapo di un bel lapislazzuli,
di un tonalismo così perfettamente cilindrico da ricordare quelli dipinti da
Piero della Francesca e da Giovanni Bellini.
Avvicinandomi ancora, notai che in quel tappeto
si potevano contare almeno venti tipi di blu di altissima nobiltà - qui il
cobalto e l'oltremare, là una campitura di azzurrite sporcata di verde e fusa a
striature violacee che, nel digradare nella fuga ad imbuto verso lo scenario di
fondo, si approfondivano in bellissime tinte di guado e indaco, di verdi sordi,
il cui dominio uniforme subiva gli intervalli di scagliette luminose e trovava
il giusto respiro.
L'effetto spettacolare di questa timbrica
fredda era esaltato dalla fiammata dei fiori; una lingua di fuoco anch'essa
fissata nel cristallo, che il barcaiolo trasportava senza quasi avvertirne la
presenza.
Quando scesi in strada, la
sensazione latente - quel lavorìo sottopelle dell'oltre-focus subliminale
dell'icona - era quella di un sentimento misto che un po' mi parlava di fiaba
fantastica e un po' del silenzioso, imperturbabile viaggio dei corpi senza vita
sull'acqua.
Caro Gianni,
per un pelo domenica non sono volato a Genova per vedere l'antologica di McCurry; ma spero di potervi andare presto. Sul sito, ho visto che in mostra ci sono sia il barcaiolo, sia la mendicante (anche la 'seconda', quella proustianamente ritrovata del secondo, feroce scatto, quando il tempo le ha lavorato il volto e trasformato la tensione e la grazia degli occhi in un altro paesaggio); e ci sono numerosi 'generi' fotografici, tutti quelli che un obiettivo può fissare e un coraggioso ed eroico Ulisse del nostro tempo, animato da una sottile vena da antropologo, può scovare; tutti quei 'generi' non retorici, non letterari, non cartolineschi che davvero danno spessore a qualsiasi portfolio artistico, quale che sia il linguaggio scelto. In McCurry passa tutta quella materia umana costretta a girare dentro uno zodiaco di temi eterni; e dentro questo quadro di archetipi - che, se andiamo a vedere, appartiene ad ogni epoca - rinnova, riscopre, incendia. E' la qualità dello sguardo che rende grande il "vangelo fotografico" di McCurry.
Diciamolo pure, Gianni, c'è vera fotografia - fotografia d'autore - quando quel lembo di realtà (uomini e cose) isolato e solidificato genera una nuova figura dell'immaginario, per cui gli stessi statuti dello sguardo subiscono un profondo rinnovamento. Questa educazione al vedere con l'occhio dell'astrazione (ab-straere, appunto "cavare fuori" il non-visto) la tiriamo in ballo con i rossi e i verdi sciolti sulle sale da biliardo di Van Gogh; con le vedute tonali di Corot e con i cieli puliti di Segantini; con gli scintillanti giovani di Renoir e con la corsa del cavaliere azzurro di Kandiskij o con il pensiero dipinto di Balthus e De Chirico: di fronte a quelle tele ripetiamo che nessuna mela, nessuna lampada, nessun corpo umano, nessun cavallo in corsa, nessuna tenda rarefatta di luce e nessuna piazza immobile nell'ora vuota di un disteso mezzogiorno, potrà più essere la stessa. L'icona diventa " "vangelo" educativo dell'occhio: forse per la prima volta, il nostro campo visivo subisce una battuta di arresto del flusso abitudinario, si scheggia, si fa obliquo e rifocalizza l'alfabeto dei dettagli consueti, o il patrimonio tutto di realtà.
Questa condizione ontologica mi pare possa valere anche per la fotografia che definiamo "d'autore". Quante volte ci sorprendiamo a guardare la riva di fiume pensando al dejeuner sur l'herbe di Cartier Bresson, o la giostra di una piazza sotto la pioggia assimilandola al carosello di Monsieur Barré di Doisneau? Quante volte un nudo di donna ha preso la forma della modella di Diego Rivera nell'obiettivo di Fritz Henle, o dei viaggiatori abbandonati al sonno avevano la stessa sostanza delle pose spettrali di Walker Evans? E quanto massonico politichese (sì, anche quello della nostra Italia) ha preso l'aria delle tavole rotonde e dei saloni di Erich Salomon? Ci sono scatti singoli o, come nel caso di McCurry, interi portfoli che rinominano la realtà dal grado zero per farsi molle generatrici di 'nuovi' scenari visivi - 'classici' , fin dal loro primo apparire. Scatti che rompono la crosta spessa del già-visto e rifondano l'aura delle cose rappresentate.
Ecco, tra i tanti scatti meravigliosi della mostra genovese presenti sul sito, due mi hanno profondamente colpito in questa direzione conoscitiva di ri-velazione dell'iride ( sebbene scorrendo la 'gallery' anche molti ritratti di donne nere si siano sovrapposti, nella mia memoria figurativa, agli splendidi bronzi di Giuseppe Bergomi esposti a Pietrasanta, soprattutto la foto di ragazza a mezzo busto con orecchini e collana bianca e gialla). I due pezzi che mi hanno attraversato per potenza iconica e profondità di visione sono il monaco adolescente che si abbandona, con braccia simili a rampicanti, nell'intarsio ligneo di una porta affacciata su un altro mondo proibito e visionario; e il gruppo di 'bagnanti' che con minimo sforzo popolano quest'angolino sacro di universo, e, intrise d'acqua ridono, parlano, si accarezzano, si piegano a cercare il velo, o si aggiustano la veste gialla su spalle che si aprono con la dolcezze del cammeo. In questo trionfo del momento assoluto, ogni età, ogni status sociale, ogni fede, si intensifica di energia naturale da primo giorno della creazione, quando trattiene qualcosa del brillio della cima della vita, in perfetta coincidenza con tutto l'universo. Che McCurry indugi nella penombra sognante di una giovinezza destinata al monastero o si fermi presso una riva scintillante di corpi femminili senza peso, è sempre la cifra di uno sguardo che fa la fotografia 'd'autore' e crea "vangeli" visivi: classici, perché già protesi oltre la loro epoca.
Davide
Caro Gianni,
per un pelo domenica non sono volato a Genova per vedere l'antologica di McCurry; ma spero di potervi andare presto. Sul sito, ho visto che in mostra ci sono sia il barcaiolo, sia la mendicante (anche la 'seconda', quella proustianamente ritrovata del secondo, feroce scatto, quando il tempo le ha lavorato il volto e trasformato la tensione e la grazia degli occhi in un altro paesaggio); e ci sono numerosi 'generi' fotografici, tutti quelli che un obiettivo può fissare e un coraggioso ed eroico Ulisse del nostro tempo, animato da una sottile vena da antropologo, può scovare; tutti quei 'generi' non retorici, non letterari, non cartolineschi che davvero danno spessore a qualsiasi portfolio artistico, quale che sia il linguaggio scelto. In McCurry passa tutta quella materia umana costretta a girare dentro uno zodiaco di temi eterni; e dentro questo quadro di archetipi - che, se andiamo a vedere, appartiene ad ogni epoca - rinnova, riscopre, incendia. E' la qualità dello sguardo che rende grande il "vangelo fotografico" di McCurry.
Diciamolo pure, Gianni, c'è vera fotografia - fotografia d'autore - quando quel lembo di realtà (uomini e cose) isolato e solidificato genera una nuova figura dell'immaginario, per cui gli stessi statuti dello sguardo subiscono un profondo rinnovamento. Questa educazione al vedere con l'occhio dell'astrazione (ab-straere, appunto "cavare fuori" il non-visto) la tiriamo in ballo con i rossi e i verdi sciolti sulle sale da biliardo di Van Gogh; con le vedute tonali di Corot e con i cieli puliti di Segantini; con gli scintillanti giovani di Renoir e con la corsa del cavaliere azzurro di Kandiskij o con il pensiero dipinto di Balthus e De Chirico: di fronte a quelle tele ripetiamo che nessuna mela, nessuna lampada, nessun corpo umano, nessun cavallo in corsa, nessuna tenda rarefatta di luce e nessuna piazza immobile nell'ora vuota di un disteso mezzogiorno, potrà più essere la stessa. L'icona diventa " "vangelo" educativo dell'occhio: forse per la prima volta, il nostro campo visivo subisce una battuta di arresto del flusso abitudinario, si scheggia, si fa obliquo e rifocalizza l'alfabeto dei dettagli consueti, o il patrimonio tutto di realtà.
Questa condizione ontologica mi pare possa valere anche per la fotografia che definiamo "d'autore". Quante volte ci sorprendiamo a guardare la riva di fiume pensando al dejeuner sur l'herbe di Cartier Bresson, o la giostra di una piazza sotto la pioggia assimilandola al carosello di Monsieur Barré di Doisneau? Quante volte un nudo di donna ha preso la forma della modella di Diego Rivera nell'obiettivo di Fritz Henle, o dei viaggiatori abbandonati al sonno avevano la stessa sostanza delle pose spettrali di Walker Evans? E quanto massonico politichese (sì, anche quello della nostra Italia) ha preso l'aria delle tavole rotonde e dei saloni di Erich Salomon? Ci sono scatti singoli o, come nel caso di McCurry, interi portfoli che rinominano la realtà dal grado zero per farsi molle generatrici di 'nuovi' scenari visivi - 'classici' , fin dal loro primo apparire. Scatti che rompono la crosta spessa del già-visto e rifondano l'aura delle cose rappresentate.
Ecco, tra i tanti scatti meravigliosi della mostra genovese presenti sul sito, due mi hanno profondamente colpito in questa direzione conoscitiva di ri-velazione dell'iride ( sebbene scorrendo la 'gallery' anche molti ritratti di donne nere si siano sovrapposti, nella mia memoria figurativa, agli splendidi bronzi di Giuseppe Bergomi esposti a Pietrasanta, soprattutto la foto di ragazza a mezzo busto con orecchini e collana bianca e gialla). I due pezzi che mi hanno attraversato per potenza iconica e profondità di visione sono il monaco adolescente che si abbandona, con braccia simili a rampicanti, nell'intarsio ligneo di una porta affacciata su un altro mondo proibito e visionario; e il gruppo di 'bagnanti' che con minimo sforzo popolano quest'angolino sacro di universo, e, intrise d'acqua ridono, parlano, si accarezzano, si piegano a cercare il velo, o si aggiustano la veste gialla su spalle che si aprono con la dolcezze del cammeo. In questo trionfo del momento assoluto, ogni età, ogni status sociale, ogni fede, si intensifica di energia naturale da primo giorno della creazione, quando trattiene qualcosa del brillio della cima della vita, in perfetta coincidenza con tutto l'universo. Che McCurry indugi nella penombra sognante di una giovinezza destinata al monastero o si fermi presso una riva scintillante di corpi femminili senza peso, è sempre la cifra di uno sguardo che fa la fotografia 'd'autore' e crea "vangeli" visivi: classici, perché già protesi oltre la loro epoca.
Davide
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