Un’ingiusta reputazione
Davvero non è facile spiegare
perché da sempre un’aura di rusticale opacità avvolga la rapa. Ovvero la Brassica campestris, pianta della importante
famiglia delle Brassicacee che allinea sulle nostre tavole non pochi ortaggi
imprescindibili per una gustosa e sana alimentazione: cavolfiori, cavoli,
ravanelli, rape… Ed è su quest’ultima umile e generosa figlia dei campi,
coltivata da millenni per le sue radici carnose e largamente impiegata nella
nutrizione umana e animale, che si è esercitata la fantasia, spesso malevola,
degli stessi beneficati. Sarà che la rapa nasce dalla terra e nella terra,
saranno le sue forme sgraziate e grottesche o che nel corso dei secoli si è
andata connotando come cibo per gente povera e bestie, tant’ è che la rapa ha
visto crescere attorno a sé una fama di ottusità e dabbenaggine che non accenna
a estinguersi. Ancora ai nostri
giorni, infatti, annoveriamo il diffusissimo epiteto “testa di rapa” che non è
certo percepito come un complimento e non si dimentichi, poi, il modo di dire
“cavare il sangue da una rapa” per sottolineare l’inutilità a impegnarsi in una
relazione con una persona ritenuta inadeguata o in un’attività destinate, l’una
e l’altra, a rimanere improduttive, sprecando tempo e fatica. La nostra Brassica campestris, insomma, ha
sofferto e soffre di una reputazione tanto bassa e volgare quanto immeritata,
ennesima manifestazione dell’ingratitudine degli uomini.
Uomini e rape
Originaria dell’Asia
sudoccidentale, la rapa era nota a quelle popolazioni nomadi che se ne cibavano
e ne utilizzavano le foglie come foraggio per i cavalli. Apprezzata da Greci e
Romani per le sue virtù salutari, adattabile a tutti i tipi di terreno purché
sufficientemente umido, fu estesamente coltivata durante il Medioevo in tutta
Europa, occupando, per secoli, nell’alimentazione umana il posto che, dopo la
scoperta dell’America, sarebbe stato della patata. Senza particolari esigenze
climatiche, con un ciclo biologico piuttosto rapido, di facile conservazione,
si è imposta alla coscienza collettiva come la regina delle radici commestibili
e l’uomo europeo si è largamente nutrito della sua polpa bianca, gialla o
rosata, dal vago aroma di noce, cruda o cuocendola al forno o sotto la cenere,
elaborando con essa i più vari tipi di zuppa o ragù, l’antico rapulatum..
Il tempo delle rape
Le rapa da utilizzare come scorta
invernale deve essere seminata tra la seconda metà di giugno e settembre, da
sola oppure insieme a miglio, avena, granturco, grano saraceno, trifoglio,
fieno greco e altre piante da foraggio. “Le rape”, scrive Antonio Mazzarosa, un
aristocratico lucchese dell’Ottocento che pensava italiano, attento osservatore
delle pratiche agricole della sua terra, “si svelgono alla metà di novembre, e si
pongono fitte fitte in linea sugli orli del campo convenientemente rincalzate
di terra; ove continuano a vegetare, e servono alla famiglia per il broccolo, e
alle bestie per la rapa ridotta in minuti pezzi e mescolata con la paglia”. Non
si dimentichi, dunque, il proverbio contadino per cui
Tutto a suo tempo
e rape in Avvento
Non oltre i primi dieci giorni
dell’ultimo mese dell’anno, infatti, le rape invernali andranno estratte dal
terreno e avviate alla conservazione che avverrà in scatole di sabbia o terra
asciutta.
Anche per il poeta latino di
origine iberica Marco Valerio Marziale (40 – 102) le rape raccolte a ridosso
del solstizio d’inverno sono talmente buone che le mangia volentieri nientemeno
che Romolo, leggendario fondatore e primo re di Roma:
Haec tibi brumali gaudentia frigore rapa
quae damus, in caelo Romulus esse solet
(eccoti le rape che
si sono godute il freddo brumale
cibo abituale di
Romolo lassù in cielo).
Xenia, Liber
XIII, XVI
Tra le rape da inverno vanno
ricordate alcune varietà particolarmente apprezzate dai consumatori: la “rapa
precocissima d’Olanda” e la “rapa di Norfolk”.
La rapa estiva, destinata a un
consumo immediato, si semina invece a partire da marzo e si raccoglie prima che
le radici ingrossino troppo caricandosi di cellulosa e diventando così poco
digeribili. Quando? Ce lo indicano due proverbi:
Se vuoi la buona rapa
per Santa Maria (15 agosto) sia nata
oppure il toscano
Accidenti a quella rapa
se d’agosto ‘un è nnata
I tipi estivi più apprezzati? La
“rapa bianca piatta di Milano” e la “rapa bianca lodigiana”.
Oggi, nel nostro Paese, la rapa
si coltiva soprattutto nel nord – Italia e tra le province più “vocate” a tale
coltura merita di essere ricordata quella di Cuneo; non disprezzabile, però, la
produzione toscana e campana. All’estero spiccano alcune aree francesi, i Paesi
Bassi e la Scozia.
Vitamine e minerali. Luci e ombre
Poco stimata sul piano
nutrizionale il nostro ortaggio ha, invece, recentemente proprio su questo
terreno conquistato parecchi crediti . Risulta, infatti, ricco di vitamina B6 e
C e abbonda di sali minerali quali il calcio, il fosforo, il magnesio, il
potassio. Al punto che la
Scuola medica salernitana (XI–XII secolo) ne rilevava le
proprietà diuretiche ed emollienti, depurative e rinfrescanti utili nella cura
delle cistiti, gotta, litiasi, delle malattie della pelle e, mescolata con
grappa e miele, dell’apparato respiratorio. Più problematico intorno ai
benefici della rapa è stato Castore Durante da Gualdo (1529-1590), umanista,
archiatra del terribile papa Sisto V e autore del prezioso Tesoro della sanità, breviario cinquecentesco della salute e della
vita quotidiana, uno tra i primi esempi di letteratura divulgativa di argomento
igienico – sanitario. Per il medico umbro il simpatico ortaggio “Genera
ventosità e aquosità nelle vene, e opilazione nei pori. È di tarda digestione,
e talora mordica il ventre e lo fa gonfiare, riscalda le reni: cruda è nemica
allo stomaco; arrostite, e acconcie con aceto in insalata eccitano l’appetito”.
Insomma, per il volgarizzatore controriformista la rapa è più ombre che luci.
Un atteggiamento svalutativo nei
confronti della nostra brassicacea
ribadito anche da un proverbio di area toscano/lucchese:
Disse Cristo agli apostoli suoi
non mangiate rape ch’è cibo da buoi
Naturaliter insipida, scipita, sciocca la rapa, che raccoglie pure
le critiche della secolare saggezza del popolo romano:
Chi cià er pepe lo mette a le rape,
e chi nun ce l’ha le magna sciape
La rapa nel canto popolare
Un proverbio che, a leggerlo
bene, lascia trapelare non solo un’opinione negativa sulla nostra radice
edibile, ma ripropone il tema dell’eterno fatalismo della plebe capitolina non
intaccato neppure dalle promesse di libertà e giustizia della Rivoluzione
francese. Anzi! Nei versi che seguono, il cantastorie romano Camillo Fiorentini
detto Cacarone utilizza anche la rapa e il suo “fiore” per ribadire l’astio
antifrancese e il sentimento filo papalino degli abitanti della Città eterna:
Fior de carote,
oh, state zitta, mamma, e nun piagnete
che Francia ce le vò le cortellate.
Fiore de rapa,
magna l’ajo, francese, schiatta e crepa,
che qui se more pe’ difenne er papa.
Spostiamoci in avanti di quasi un
secolo, verso nord. Siamo nella Milano di fine Ottocento, la città più ricca
d’Italia che si accinge a raggiungere e superare i 300mila abitanti. Proprio
qui, legioni di fanciulli, donne, anziani, malati, disoccupati, senza casa
conoscono quotidianamente i morsi della fame… Una filantropa, precorritrice del
moderno welfare, Alessandrina Ravizza (1846-1915), in grande solitudine, fondò
allora la Cucina
per gli ammalati poveri: un vasto locale disadorno situato in via Anfiteatro,
un luogo generalmente considerato mal frequentato e insicuro dalla Milano
perbenista. Magre le risorse economiche, grande l’entusiasmo, eccellente la
stima che la Ravizza
riscuoteva presso i piccoli negozianti al dettaglio che fornirono a prezzi
bassissimi le loro merci e fecero addirittura credito. Poi, soccorsero la sua
inesauribile creatività, il suo straordinario fervore, la capacità di
commuovere e coinvolgere attraverso serate musicali e teatrali, mostre,
conferenze finalizzate alla raccolta di fondi. Imitata da altri enti e
associazioni e, più tardi, istituita anche dallo stesso Comune di Milano, la Cucina rappresentò l’ennesimo
miracolo socio – assistenziale di Alessandrina che, dalla ingenua gratitudine
del proletariato milanese si vide innalzata al rango di contessa, la “Contessa
del brodo”.
Anche qui, però, non mancarono,
sempre provenienti dal mondo popolare, voci di dissenso e di critica che,
comunque, testimoniano quanto quella sua iniziativa fosse entrata nel profondo
della vita quotidiana dei milanesi poveri e poverissimi. Così recita, infatti,
la prima strofa di una canzone d’osteria di fine ‘800:
A la mensa collettiva
a gh’è el mangià che stracca
se va denter con la forza e se vègn foeura
con la fiacca
………………………………………………………………..
quatter rav in insalada fettin ben ben tajaa
merluzz che rifilen el campana ‘me on dannàa
(il
merluzzo che ti rifilano puzza da morire)
Le rav, le rape, diventano così, nell’immaginario simbolico popolare,
un’unità di misura della miseria e della fame.
Rape di carta
Sì, nelle campagne del vecchio continente si sono mangiate
tante, tante rape e per generazioni! E non sono poche le tracce di questa
consuetudine alimentare rimaste nella letteratura. E se lo scrittore francese,
Francois Rabelais (1494–1553), con più di una punta di disprezzo, definiva
“masticarape” gli agricoltori del Limousin nel Plateau Central della Francia,
dall’Orlandino di Teofilo Folengo veniamo a
sapere che mangiarape era epiteto assegnato a tutti i Lombardi, senza
dimenticare che si trattava d’indicazione geografica larga al punto da
abbracciare l’intera pianura Padana: "..Pur
saper dè' ch'io son di Lombardia / e ch'in mangiar le rape ho del restio.. ..e
questo voglio ch'a color sia detto / che chiaman: "lombarduzzo mangia
rape"..."
Un appellativo resistente, almeno sino alla
fine del XVII secolo come riporta il Tasso
napoletano di Gabriele Fasano, versione in dialetto partenopeo della Gerusalemme liberata. Qui troviamo
l’elenco dei popoli d’Italia definiti in base alle loro abitudini alimentari:
“mangiarape” i lombardi; “mazzamarroni” gli abitanti dell’Appennino
tosco-emiliano; “mangiafoglie” i cremonesi; “pane unto” gli abruzzesi;
“cacafagioli” i fiorentini; “cacafoglie” o “mangiafoglie” i napoletani…
Ludovico Ariosto (1474–1533), in una sua satira, la terza,
tende piuttosto a valorizzare il carattere domestico ma affidabile, mediocre ma
sicuro della nostra radice:
Chi brama onor di sprone e di capello
serva re, duca, cardinale o papa,
io no, che poco curo questo e quello.
In casa mia mi sa meglio una rapa
ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco,
e mondo, e spargo poi di aceto e sapa
che all’altrui mensa tordo, starna o porco
selvaggio; e così sotto una vil coltre
come di seta o d’oro, ben mi corco.
Modeste qualità quelle della
rapa, ben ribadite mezzo secolo più tardi da Giulio Cesare Croce (1550-1609),
che nel suo celeberrimo Le sottilissime
astuzie di Bertoldo fa morire il suo causidico eroe contadino
con aspri duoli
Per non poter mangiar rape e
fagiuoli.
E nel suo testamento morale
Bertoldo ribadisce che
Chi è uso alla rapa non vada ai pasticci
Insomma, i due letterati emiliani
sembrano rielaborare l’antico proverbio per il quale:
Meglio una rapa in casa mia
che un cappone in quella
di chicchessia
Della serie no place like home. Ma non sempre l’apprezzamento per la rapa era
stato così cordiale. In proposito le cronache riportano che nel 1305 nel corso
di una delle numerose guerre con i vicini marchesi del Monferrato, duemila
fanti astigiani entrati a Pontestura, non trovando da mettere sotto i denti
altro che rape, riversarono tutta la loro rabbia sul proprio comandante
ricoprendolo di ogni sorta di epiteti. E gli andò pure bene…
Rape da fiaba
E poi ci sono le fiabe… In questo
particolarissimo genere narrativo, le rape diventano gigantesche e
contribuiscono a punire i furbastri e gli avidi, aiutando a ristabilire un
minimo di giustizia sociale. Così avviene nella fiaba dei fratelli Grimm La rapa, dove un contadino povero offre
il suo ciclopico ortaggio al re e ne viene ricompensato con denaro, terre, oro
e armenti, mentre al fratello ricco che, invidioso della fortuna del contadino,
aveva a sua volta portato ogni sorta di regalie sperando in una ricompensa
ancora più grande, tocca come bene prezioso proprio l’enorme rapa.
In una celeberrima fiaba popolare
russa intitolata La rapa gigante a
due vecchi contadini risulta impossibile sradicare una colossale rapa cresciuta
inopinatamente nel loro orto. Chiedono allora l’aiuto della giovane nipote.
Niente, quel maledetto ortaggio ipertrofico ed extralarge non si lascia
svellere. Né le cose migliorano con l’intervento del cane di casa che chiama in
soccorso il gatto della famiglia… Solo, però, il coinvolgimento di un ultimo,
decisivo, minuscolo soccorritore, un piccolo topo, permetterà a questa catena
solidale che accomuna uomini e animali anche nemici tra loro di avere ragione
della smisurata radice e farla diventare una ricchezza per tutti. Di questo
racconto fiabesco diffusissimo in area slava che esalta l’aiuto reciproco e
generoso, raccomandiamo la lettura ai sempre più numerosi sostenitori di un
individualismo forsennato nei rapporti sociali ed economici.
Le rape arrapanti
Insomma, stiamo parlando di un
cibo adatto a regolare il tono fisico complessivo, e questo spiega perché
Plinio il Vecchio (23–79) nella sua Naturalis
Historia e il contemporaneo Dioscoride Pedanio, (40–90) medico, botanico e
farmacista greco attivo negli anni di Nerone, abbiano concordato
nell’attribuire alla rapa proprietà afrodisiache, specialmente se conservata in
salamoia insieme alla ruchetta, altro vegetale in fama d’essere particolarmente
amica di Venere.
Per il solito Castor Durante, medico
rinascimentale, le cime di rapa, mangiate lesse, oltre a favorire la minzione e
a irrobustire la vista, “accrescono il coito”. Attenzione, però, a non
esagerare perché
Donna nuda e rapa dura
portan l’uomo a sepoltura
e non si perda il bisenso sessuale
di quella rapa dura.
La contiguità della rapa ai
piaceri d’amore nasce probabilmente dalle sue radici grosse, enfiate che
rimandano all’immagine del membro virile. Non sono pochi i dialetti italiani
che registrano il verbo arraparsi nel
senso di eccitarsi sessualmente. Una relazione confermata dal detto toscano
Pepe, noce moscata e sapa (senape)
(tre sostanze considerate afrodisiache)
fanno buona la rapa
Un Viagra d’altri tempi,
senz’altro più saporoso dell’attuale pasticca blu e di sicuro con minori controindicazioni.
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