Giorgio Montagnoli (primo a sin.), foto Gianni Quilici
di Luciano
Luciani
La poesia, ha
scritto qualcuno che se ne intendeva, è una pianta selvatica che cresce
dappertutto senza essere stata seminata e il poeta è un paziente – e curioso –
botanico, che, per raccoglierla, si inerpica lungo impervi sentieri di
montagna. Una metafora, questa, che non dovrebbe dispiacere a Giorgio
Montagnoli, scienziato e didatta per mestiere, impegnato uomo di pace per
intima sensibilità, poeta per vocazione e caro amico, che la sua piantina
poetica è andato a cercarsela in Garfagnana, sull’Alpe di Trassilico, a San
Pellegrinetto: un bacino i cui confini sono costituiti da monti possenti,
pareti accidentate, rapidi, impetuosi e trasparenti corsi d’acqua. Rari gli
abitanti, aggrumati in piccoli nuclei di case sparse posizionate là dove un
tempo sorgevano gli ovili dei pastori dell’Alpe, e quasi tutti anziani
quotidianamente impegnati a fare i conti con condizioni di vita aspre e appena
appena sfiorate dai modesti agi di una modernità peraltro arrestatasi alla metà
del secolo scorso. Con loro, sia pure nella posizione privilegiata del
cittadino che ha scelto di trascorrere con la famiglia, in quei luoghi remoti,
il proprio tempo libero e di riposo dai doveri dello studio, della ricerca e
insegnamento, l’Autore, per quasi quarant’anni, ha condiviso l’impegno a
mantenere in vita questa minuscola società montanara: altrimenti condannata
dalle leggi bronzee dell’Economia, del Mercato e del Consumismo a un destino di
totale spopolamento, all’abbandono delle rustiche abitazioni, al degrado delle magre
ma dignitose proprietà, all’estinzione come comunità.
Si tratta di
donne (soprattutto donne!), uomini, animali domestici, creature dell’Alpe
appenninica abbarbicate a stili di vita semplici e antichi. Protagonisti, in gran
parte inconsapevoli e a loro modo eroici di una resistenza ostinata e tenace ai
disastri della dilagante cultura di massa, almeno nella sue forme più vistose e
volgari. E proprio questi umili, ultimi, testardi abitatori della montagna
compresa tra il mar Tirreno e la pianura emiliana agli occhi del Poeta
assurgono al ruolo di silenziosi testimoni e preziosi interlocutori di un
lungo, intenso e poetico, monologo interiore. Giorgio Montagnoli lo conduce interpellandoli
uno a uno, selezionando di ognuno la storia personale le caratteristiche
fisiche e quelle morali ai fini di una personalissima riflessione in versi
sugli eterni temi della condizione umana: il senso, direzione e significato del
vivere; l’accettazione, mite, paziente del proprio destino, ancorché segnato
dalla sofferenza, come unica risposta possibile ai drammi dell’esistenza; la
vita che prosegue dopo la morte negli altri nelle cose, nella natura, nel perenne,
sempre uguale e sempre diverso, rinnovarsi dei giorni e delle stagioni; la
gioia di una fedeltà imperterrita al proprio ambiente povero e disadorno, alla
famiglia, agli amici.
Stellina,
Marigiana, Battì, Effige, Adriana, Gianni, Amelia… e poi Beppe, Tina, Paranà e
altri ancora e ancora… Partecipando loro dubbi e scoperte, consapevolezze e
stupori, il poeta li interroga e si interroga lungo il filo teso e sottile di
versi sommessi e urgenti, strutturati secondo una complessa e sapiente
disposizione ritmica e contenutistica. Ne emergono, strofa dopo strofa, i
lineamenti essenziali di una modesta epica paesana e le tracce significative di
un’attenta, acuta antropologia del popolo della montagna: un’umanità semplice,
elementare a tutt’oggi impegnata nella quotidiana prova con dure, difficili, ormai
inattuali condizioni materiali di vita. Le stesse che abbiamo rifiutato,
collettivamente, circa mezzo secolo fa in nome del benessere, di maggiori
consumi e opportunità. Certo, sarebbe sciocco negarlo, qualcosa e forse più di
qualcosa abbiamo acquistato. Molto altro, però, rischia di perdersi e per sempre
tanto sul terreno della morale (lo spirito di solidarietà, il sentimento della
continuità familiare, lo spirito comunitario), quanto in campi più contigui
all’operatività umana (la tenacia, lo spirito di sacrificio, il senso dell’
autonomia nell’organizzare il proprio lavoro). Insomma, abbiamo pensato di
poter sostituire l’anima col prodotto interno lordo e col reddito pro capite e ci
siamo comportati come i rampolli viziati di certe casate aristocratiche dell’
Ottocento che dilapidavano i beni di famiglia ai tavoli da gioco di tutti i
Casinò d’Europa: così abbiamo sperperato un patrimonio morale fatto di
tradizioni, credenze, valori, culture.
E
oggi, quando mille rughe sembrano ormai bruttare la facciata ottimistica del
nuovo a tutti i costi, oggi che non siamo più così sicuri di noi stessi e della
nostra “modernità” e di frequente, anzi, appariamo disorientati e smarriti,
allora torniamo a ricercare le abitudini, i volti, i sapori, i suoni di una
volta, quasi bisognosi di un momento di pausa per poter riflettere e riposare…
Scrive
l’Autore nel denso saggio finale posto a corredo e integrazione della silloge:
“Sono convinto che ci sia sempre tempo per cambiare strada; basta ricominciare
dal bello e dal gratuito, e anche dall’inutile, che però riveli proprietà
carezzevoli per il nostro cuore, anche se faticate, e in maniera inconsapevole…
Ricominciare
dalla poesia?”
Giorgio Montagnoli, Il caldo delle pietre , collana La
memoria poetica, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca 2012, pp. 96, Euro 13,00
Nessun commento:
Posta un commento