Olivolì,
olivolà…
L’oliva cantata
Tutta la geografia dell’olivo, dalla Puglia all’Umbria,
dall’Abruzzo alla Toscana, dalle Marche alla Liguria è disseminata di semplici
melodie e versi ingenui che ricordano la
fatica antica della raccolta delle olive, aiutano a far passare il tempo di
lavoro e contribuiscono a ingannare la pene dell’ultima impegnativa opera
campestre prima dell’inverno: nenie, tarantelle, rispetti, canti a due voci
trattano, anche con qualche ironia, lo sforzo e le difficoltà della raccattatura.
Qui siamo a Molfetta:
Uè
cummà Uelin
Com
s’accoggghien l’aliv?
S’accogghien
ad un ad un…
Ma più spesso il canto argomentava del sentimento amoroso.
Così, la caduta dell’oliva dalla pianta veniva letta e metaforicamente
rielaborata come il segno di una passione tanto inesausta quanto dolorosamente
contraddetta. Tra i testi più belli quello intitolato Cade l’uliva, un accorato rispetto toscano, (variante regionale
dello strambotto, antica forma popolare di poesia amorosa), riscoperto e
cantato nei primi anni sessanta dalla voce straordinaria di una mai dimenticata
Caterina Bueno:
Cade
l’uliva e non cade la foglia
le
tue bellezze non cadono mai,
sei
come il mare che cresce a onde,
cresce
per vento e per acqua mai.
E
tu sei come l’erbo tenerino,
quanto
più cresci più’dveti bellino;
e
tu sei come l’erbo tenerello,
quanto
più cresci più doventi bello.
Almeno altrettanto intenso e ricco di poesia Addio, addio amore, un canto abruzzese
dell’area di Ortona, in cui, anche in questo caso, i frutti e le foglie che
giunti a maturazione si staccano dall’olivo sono paragonati a un sentimento
d’amore che, come tutte le cose di questo mondo, è destinato a finire:
Nebbi’a
la valle e nebbi’ ala muntagne
ne
la camapagne nen ce sta nesciune
Addije,
addije amore
casch’
e se coje
la
live e cascha l’albere li foje
Cascha
la live e casche la ginestre,
cascha
la live e li frunne ginestre
Addije,
addije amore
casch’e
e se coje
la
live e casch’a l’albere li foje
L’oliva,
un cibo da strada
Si facevano vedere agli angoli delle
strade, ai margini dei mercati, in occasione di modeste fiere di quartiere o di
festività patronali o anche agli ingressi dello stadio Olimpico, quando urgeva
qualche evento sportivo pallonaro che richiamasse gente. La loro apparizione
coincideva con i primi temporali, quelli che spezzavano definitivamente la
calura estiva e preannunciavano già l’autunno. Li chiamavamo “olivari”,
conosciuti anche nella variante “olivaroli”, oppure “olivedorci” dal grido con
cui segnalavano la loro presenza ai potenziali clienti. Erano i venditori
ambulanti di olive fresche, conciate, immergendole in una soluzione al due per
mille di soda caustica, e mantenute in acqua appena appena salata: un mestiere
antico nella capitale, documentato sin dal XVII secolo.
Un lavoro stagionale, il loro, che durava
dalla fine d’agosto (d’altra parte la saggezza popolare ha sempre affermato che
“Per l’Assunta” - 15 agosto – “l’oliva è unta”), sino all’autunno inoltrato
quando l’oliva, ormai matura si scuriva sull’albero e si faceva sempre più
adatta per la mola del frantoio.
Per pochi spiccioli, l’”olivaro”,
organizzatosi con un banchettino precario, recipiente in coccio e mestolo
bucherellato, te ne riempiva un cartoccio a forma di cono di robusta carta
gialla, quella da pane, che, se pure s’intrideva di salamoia, era in grado di
resistere sino all’ultima oliva.
Un piacere aggiunto a quel sapore
dolce/salato consisteva nello sputare il nocciolo e colpirlo col piede al volo,
urlando: “Tiro. Goal!” trasformando così, immantinente, per lo straordinario
potere delle fantasia ragazzina, ognuno di noi negli amatissimi centravanti
della Roma, della Lazio, della Nazionale…
Un gioco rumoroso e blandamente atletico
che al gusto dell’oliva ne aggiungeva altri, indimenticabili. Quelli
dell’infanzia che si faceva adolescenza, dell’amicizia virile, di una
spensieratezza semplice. E per dirla col poeta:
Pochi momenti come questi belli…
Olive
malandrine
Nel gergo malandrino della piccola
criminalità milanese del secolo scorso, quella bonaria, capace ancora di un suo
codice d’onore, non feroce come l’attuale, “farsi un’oliva” significava rubare
una macchina per scrivere, quindi, per antonomasia, un’Olivetti. Oggi,
quell’azienda all’avanguardia del progresso tecnologico quale si configurava
cinquant’anni fa, un gioiello della nostra industria leggera del dopoguerra non
c’è più. Fatta oggetto di speculazioni finanziarie, depotenziata, smantellata,
ridimensionata sopravvive melanconicamente in qualche piega del mondo volatile
della cosiddetta telefonia mobile e non ho idea di come gli attuali ladruncoli
lombardi possano designare fra loro l’atto poco bello di sottrarre ai legittimi
proprietari un computer portatile.
Le olive, al plurale, per la loro forma
ovoidale, non potevano non trasformarsi nella facile metafora sessuale dei
testicoli: per cui “cambiare l’acqua delle olive” è un modo appena appena meno
garbato del più diffuso e ipocrita “andare a lavarsi le mani” e senz’altro meno
diretto di “fare un po’ d’acqua”. Tutte interdizioni di decenza sempre meno diffuse,
ci pare, nel nostro parlare quotidiano. E, sempre per rimanere nell’area delle
parti basse, oliva è la vulva e olivetta il (la ?) clitoride, dettaglio
anatomico divenuto strategico nel dibattito femminista degli anni settanta e
poi, però, in gran parte dimenticato.
Olive
televisive
Se dico “Società Anonima Commercio
Lavorazione Alimentari”? Nessuna reazione, nessuno la (ri)conosce. Se utilizzo
il suo acronimo SACLA, magari a qualcuno viene in mente qualcosa. Se metto
l’accento sulla seconda A, trasformando SACLA in SACLÀ, allora sì che si
affollano i ricordi… Legati naturalmente a Carosello, una delle più felici
invenzioni della televisione italiana, che, all’inizio del miracolo economico,
lasciava intravvedere i segni di un modesto benessere e si lasciava alle spalle
il ricordo di annose povertà e, soprattutto, la memoria recente degli anni duri
del dopoguerra. Gli adulti maturi di oggi, allora bambini, ricordano ancora le
buffe storielle televisive che a partire dal 1957 nell’arco di un paio di minuti
attraverso moderne, sorridenti favolette ti sottolineavano la qualità, bontà,
economicità di un prodotto
Così, una parola di due sillabe, tronca e
insensata, alla fine degli anni sessanta riuscì ad avvicinare la famiglia
italiana a nuovi consumi: prodotti alimentari vegetali, conservati sottolio o
sottaceto in grandi confezioni di vetro trasparente, disponibili non più solo
stagionalmente, ma per tempi anche assai più lunghi. Una novità per i tempi
perché la SACLÀ
è stata la prima azienda conserviera a comunicare e promuovere la propria
immagine presso i consumatori. Un’operazione che avvenne, al solito, attraverso
le immagini di un vero e proprio film in miniatura e un jingle (motivetto
musicale) che definire accattivante è dire poco: Vi ricordate le anche le
parole? Follemente indimenticabili: Olivolì,
Olivolà, Olivolì, Olive SACLÀ ! E destinate nel giro di pochi giorni a
diventare in famiglia, a scuola, sui luoghi di lavoro dei veri e propri
‘tormentoni’, fischiettati, ripetuti all’eccesso, riadattati. È la pubblicità,
bellezza!
Per me, in quegli anni poco più che
adolescente, le SACLÀ in particolare ma in genere tutte le olive da allora
assumeranno le fattezze di una bella e brava cantante, attrice e show girl che
in quegli anni ha interpretato alcuni degli ilari raccontini televisivi di
Carosello (la parola spot ancora non era ancora arrivata!) che magnificavano i
vantaggi di un’alimentazione a base di olive: si chiamava Minnie Minoprio, era
di origini italo-inglesi e così sexy che una sua esibizione televisiva provocò
addirittura un’interrogazione parlamentare.
Un’altra Italia, un’altra televisione, non
saprei davvero dire se migliori o peggiori delle attuali!
(Pagine da
Luciano Luciani, Un’oliva tira l’altra,
collana I mangiari, mpf, Lucca 2012)
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