di Luciano Luciani
Continua
anche ai nostri giorni il dibattito sulla natura della poesia. Eugenio Montale,
uno che se ne intendeva, in un articolo apparso intorno alla metà del Novecento
sulle pagine del “Corriere della sera” in proposito così si interrogava e si
rispondeva: “Che cos’è la poesia? Per conto mio non saprei definire quest’araba
fenice, questo oggetto determinatissimo, concreto eppure impalpabile, questa
strana convivenza della musica e della metafisica, del ragionamento e dello
sragionamento, del sogno e della veglia…”
In
tempi più recenti, un bravo poeta originario della collina lucchese e nostro
contemporaneo, Lio Attilio Gemignani, autore di una raccolta poetica, Mia
Toscana, insieme intensa e delicata, tra memoria e bilancio
esistenziale, si muove sulla stessa lunghezza d’onda e giudica la “poesia come
mistero di ogni uomo. Quella zona segreta che ognuno di noi custodisce ed è
fatta di dolore e di piacere, di commozione e di spiritualità, Noi misuriamo sulla strofa la nostra
interiorità”.
“Ragione
cantata” (Lamartine”, “malattia” (Kafka), “un modo di prendere la vita alla
gola” (Frost), la poesia continua a mantenere ignoti, impenetrabili,
inconoscibili i suoi caratteri e moventi, origine e forza: a tutt’oggi non
siamo riusciti a trovare risposte. Procediamo per approssimazioni circa i suoi
modi di essere e manifestarsi, sempre elusivi, diversi, sorprendenti…
Riflessioni,
le mie, per niente originali, ma autentiche e sollecitate dalla lettura
dell’ultima silloge poetica di Giacomo Bini, da tempo abituato a praticare
questa particolarissima forma espressiva, per parteciparci sentimenti ed
emozioni, rabbie e desideri, convinzioni e indignazioni: una pluralità, anche
eccessiva, di toni e accenti che vanno dall’effusione lirica al recupero
memoriale, dai versi d’amore alla retorica civile per raccontare il difficile
mestiere di vivere hic et nunc, qui e
ora: in un tempo spigoloso e tagliente quant’altri mai, in un luogo di antica civiltà,
ma, certo, non esente dai problemi complessi di un faticosa e contraddittoria
modernità.
“Poeta
di pianura”, Giacomo appare intimamente legato alla sua terra, la Lucchesia, e alle sue
genti di ieri e di oggi, ancora sospese tra un secolare mondo contadino e gli
ultimi decenni segnati dall’irrompere di una contemporaneità globalizzata che,
insieme alle prospettiva di formidabili - e sino a oggi aleatorie - possibilità,
ci ha regalato anche nuove, inedite ingiustizie che sono andate a sommarsi alle
antiche.
Contro
le recenti e le vecchie povertà, materiali e soprattutto morali, s’impenna la
voce del Poeta, talora troppo stentorea e non sempre capace di evitare il
rischio di un’oratoria certo franca, schietta, ma, almeno a mio parere, troppo
gridata. Più convincenti, invece, da rimanere in maniera duratura alla
coscienza dei Lettori i versi intrisi di ricordi familiari; la riscoperta, con
gli occhi di allora e la nostalgia dell’oggi, del tempo e dei giochi incantati
dell’infanzia e della primissima adolescenza; e poi, forse, la novità più
significativa di questa raccolta, i testi, ricorrenti, che richiamano un amore
coniugale vissuto con pienezza di affetti, sensualità e gratitudine per la
propria compagna di vita.
Sempre
sincera l’ispirazione di questo Poeta “col cuore come un temporale”, vera,
plausibile la sua commozione che s’impasta col piacere di una parola poetica
densa ed evocativa, capace di suscitare in chi legge i continui cerchi
concentrici di una suggestione mai fine a se stessa.
Con
l’intenzione, invece, di ricordare agli uomini l’inesauribile ricchezza dell’esistenza
e le sue straordinarie diversità e affermare le fondamentali verità umane che,
giorno dopo giorno, devono servire da pietra di paragone al nostro vivere.
Giacomo Bini, Col cuore come un temporale, Comune di Capannori, 2014, pp.50, sip
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