04 marzo 2014

"Il maestro e Margherita" di Michail Bulgakov

di Emilio Michelotti

Il modo migliore per accedere al mondo magico del Maestro e Margherita, anziché quello di ripetere o allungare l’elenco delle «fonti» che le letture intertestuali hanno compilato o di percorrere o accrescere il labirinto di riposti significati che le letture interpretative hanno tracciato, sarà allora quello di porsi una domanda falsamente «semplice», adeguata però alla falsa «semplicità» del testo, una domanda che un celebre «formalista» russo, Boris Ejchenbaum, si era posto per l’opera di un autore prediletto da Bulgakov, cioè per Il cappotto di Gogol´. Possiamo domandarci «come è fatto Il Maestro e Margherita?»

È vero che si tratta di un «romanzo magico», usando questa espressione in un senso non generico, ma nel senso di una vera e propria opera di magia. Per cercare di capire «come è fatto» possiamo però immaginare questo romanzo come un atto di prestidigitazione, di una magia, cioè, sui generis, frutto di un artificio più o meno occulto che si tratta di «smontare».
Il Maestro e Margherita è un’unione di due romanzi, un «romanzo nel romanzo», meccanismo non nuovo (al pari del «teatro nel teatro»), ma qui sostanzialmente rinnovato. Non è la storia della scrittura di un romanzo: il romanzo di cui si parla nel romanzo che si intitola Il Maestro e Margherita, infatti, è già stato scritto e poi distrutto e la storia che si narra riguarda il suo recupero, la sua resurrezione attraverso la scoperta che esso, pur essendo inedito e proibito, e bruciato dallo stesso autore, non solo ha avuto lettori straordinari, soprannaturali, ma la sua stessa prodigiosa ricostruzione è opera di questi lettori ultraterreni che ne attestano la veridicità.

Il romanzo in questione è, infatti, un’opera che vuole rivelare per la prima volta il reale svolgersi di un grande evento effettivamente accaduto, tanto che il suo autore, il Maestro, respinge con sdegno la qualifica di «scrittore», che lascia ai letterati suoi persecutori, e preferisce definirsi uno «storico». Il romanzo scritto dal Maestro è la riscrittura di un altro libro, che egli considera non rispondente alla realtà degli eventi in esso narrati, è la riscrittura d’un libro sacro: il Vangelo. Il suo protagonista è Gesù, chiamato col nome aramaico di Yeshua Hanozri, nel momento finale della sua vita terrena, quello della condanna e della crocifissione. L’altro protagonista del romanzo storico del Maestro è Ponzio Pilato, il procuratore romano della Giudea, che ratifica la condanna di Gesù. Il Maestro e Margherita è fatto col procedimento del romanzo nel romanzo, ma con un particolare rapporto tra contenitore e contenuto: il contenuto contiene, a sua volta, una terza scatola cinese o una terza matrioska, ossia un altro testo narrativo: il Vangelo come testo di riferimento.

Lasciamo il romanzo contenuto, quello del Maestro, e consideriamo il romanzo contenitore, quello di Bulgakov, il quale, ovviamente, è l’autore di entrambi. Ma dei due romanzi egli è autore con uno statuto diverso, con un diverso livello di stile, con un enigmatico sdoppiamento che costituisce un aspetto importante della magia del romanzo nel suo insieme. Non si tratta soltanto di differenza di scrittura: ieraticamente severa, classicamente equilibrata, sontuosamente elegante nel romanzo del Maestro; effervescente, sbrigliata, corrosiva nel romanzo sul Maestro. C’è anche l’impersonalità del primo romanzo che contrasta con la soggettività del secondo: chi narra la storia evangelica non si sa, la voce narrante sembra venire da un’altezza o profondità insondabili, trovando nel Maestro semplicemente un portavoce, colui che, intuito il Vero, lo trasmette senza una propria interferenza; il narrante del romanzo sul Maestro, invece, non intuisce per una virtù superiore, ma ricostruisce per indizi le vicende che riferisce con divertita partecipazione, attraverso una mimica verbale che ne sottolinea la presenza.

Messo in luce questo primo meccanismo del romanzo di Bulgakov, ci si domanda come operano gli ingranaggi che regolano i movimenti dei due sistemi narrativi, stabilendo tra essi una rete di corrispondenze. Va detto che i due sistemi sono due mondi, due entità spazio-temporali, oltre che due universi simbolici: il romanzo del Maestro si svolge a Gerusalemme («Yerushalayim») all’inizio dell’era cristiana, il romanzo sul Maestro si svolge a Mosca 1900 anni dopo, nel 1929. L’opposizione tra questi due mondi è netta e la narrazione la mette in concreta evidenza: spazio-tempo sacro quello di Gerusalemme, sede del Mistero cristiano; spazio-tempo non semplicemente profano, ma addirittura dissacrato quello di Mosca, centro di un’ideologia atea. Per questo il romanzo del Maestro ha subito traversie rovinose, tanto da poter essere tratto in salvo, e col manoscritto anche il suo autore, soltanto grazie a un intervento portentoso, che costituisce la storia del Maestro e Margherita.

Del resto, se è lecito un rapido passaggio dal mondo della «finzione» a quello della biografia, per ragioni affini l’autore del Maestro e Margherita, Michail Bulgakov, patì lui stesso tante traversie, come si accennava all’inizio, e il suo romanzo si salvò prodigiosamente, giungendo sino a noi, sia pure cinque lustri dopo la sua morte, grazie alla dedizione della Margherita di Bulgakov, la moglie (Elena Sergeevna) che, al pari della protagonista del romanzo, dedicò la sua vita al suo Maestro e poi alla sua memoria.

I congegni di raccordo tra i due sistemi narrativi devono essere particolarmente sottili per poter sincronizzare analogicamente i movimenti del mondo sacro di Gerusalemme e di quello empio di Mosca. Ma Il Maestro e Margherita non è fatto soltanto di questi due sistemi o mondi: c’è un mondo terzo, che non è quello della terza dimensione temporale, dopo il passato gerosolimitano e il presente moscovita: non è il futuro, anzi il futuro è assente nel romanzo di Bulgakov che è il più antiutopico o autopico che si possa dare, senza per questo essere disperato, poiché il mondo terzo, o terzo sistema narrativo, è atemporale o sovratemporale: è eterno. È un sovramondo, da dove viene inviato sulla terra, a Mosca, un essere misterioso per trarre a salvezza colui che ha intuito e servito la Verità: il Maestro. La salvezza del Maestro, se è dovuta a questo intervento ultraterreno, lo è però anche grazie a un’energia tutta terrena, pur nella sua eccezionalità di dono impareggiabile: l’amore di una donna, Margherita, eletta dalle forze ultraterrene a sua eterna compagna, quando alfine sarà loro concessa la Pace dopo le prove dell’esistenza terrena.

L’essere misterioso che giunge sulla terra, a Mosca, in pieno regime comunista, a punire i persecutori del Maestro e a proteggere lui e il suo manoscritto, l’essere che, oltre a svolgere questa funzione, può apprezzare l’opera del Maestro e comprovare la verità della sua narrazione perché degli eventi narrati è stato testimone, questo essere è il diavolo, alias, nel romanzo, Woland. Non si tratta quindi soltanto di congegni di raccordo tra i tre diversi sistemi narrativi (quello del presente, quello del passato e quello dell’eterno, oltre al metasistema che pervade il tutto: quello dell’amore, nelle due ipostasi di amore terreno e di amore celeste): si tratta del rapporto tra Woland e Hanozri, cioè di una questione metafisica, come già allude l’epigrafe del romanzo, tratta dal Faust di Goethe, dove a una domanda: «… Dunque tu chi sei?» la risposta è un enigma: «Una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene».

Doppio enigma, qui, perché se è vero che Woland «opera costantemente il Bene» e del Bene punisce i nemici, sia pure con una gaia spietatezza e talora un’imperturbabile crudeltà, ci si domanda se davvero egli «vuole costantemente il Male». La demonologia del Maestro e Margherita, così come la sua teologia, sconcerta, anche se mai si deve dimenticare che siamo in un mondo dell’immaginario, non riducibile a teoria. Anche qui, seguendo il metodo finora applicato, anziché abbandonarci, come tanti altri dotti esegeti del romanzo, ad alti voli filosofici, ci atterremo sobriamente al «come è fatto» il romanzo, cercando nel testo i procedimenti di significato, e non solo di struttura, della narrazione.

L’incipit del Maestro e Margherita immette subito il lettore in una situazione paradossale, dove la realtà quotidiana è incrinata dalla presenza inquietante di una forza enigmatica e viene narrata con un tono ironico-giocoso che continuerà nel corso di tutto il «romanzo sul Maestro» ovvero nella parte sovietico-moscovita: «Nell’ora di un tramonto primaverile insolitamente caldo apparvero presso gli stagni Patriarsie due persone» .

Le due persone sono Michail Aleksandrovic Berlioz, direttore di una rivista letteraria e presidente di una delle più importanti associazioni letterarie di Mosca, il Massolit, come ne suona la sigla; l’altra è il giovane poeta Ivan Nikolaevic Ponyrëv, noto con lo pseudonimo letterario di Bezdomnyj (il «Senza casa»). La conversazione tra i due è delle più strane: un poema su Gesù scritto da Ivan Bezdomnyj nello spirito antireligioso sovietico non soddisfa l’ateismo militante dell’ideologo Berlioz. Ciò che Berlioz non può accettare è che Gesù sia presentato da Bezdomnyj come una persona realmente esistita, mentre, egli sostiene, Gesù storicamente non c’è mai stato e si tratta di una finzione, di un mito. Mentre l’ideologo ammaestra in questo senso il poeta, ecco comparire un terzo personaggio, tanto strano da sembrare uno straniero agli occhi dei due sovietici. Lo sconosciuto si inserisce garbatamente nella conversazione, portandola su temi «alti» come l’esistenza di Dio, l’autonomia dell’uomo, la predestinazione e si presenta ai due stupiti interlocutori come un «esperto di magia nera»: Woland ovvero il diavolo. Tutta la linea «moscovita» si svolgerà come una satira ora lieve ora violenta, con una coloritura grottesca e carnevalesca e una fantasia insieme macabra e giocosa di cui faranno le spese tutti i tipi alla Berlioz, cioè i rappresentanti dell’establishment moscovita, mettendo a nudo la miseria umana del mondo sovietico comunista a tutti i suoi livelli, dai più bassi ai più elevati.

È la realtà in cui è prigioniero e vittima il Maestro, che, con la sua dedizione spirituale alla ricerca del Vero, è l’antitesi di quel mondo: la satira è «antisovietica», dato che si tratta della Russia postrivoluzionaria, ma la si può immaginare anche appuntata su un’altra società di massa, sia pure meno oppressiva di quella totalitaria. Il punto di vista della satira, infatti, è estremamente alto: quello di un Vangelo riletto in chiave mistica. In questo Vangelo, che è stato riscritto dal Maestro e che il lettore viene a conoscere attraverso varie fonti (il racconto di Woland, che è stato testimone degli eventi; il sogno di Ivan Bezdomnyj, che subirà una trasformazione dal momento della sua comparsa all’inizio del romanzo; il manoscritto del Maestro, prodigiosamente ricostituito da Woland), un Vangelo che diventa una sorta di testo assoluto, i cui protagonisti, Hanozri e Pilato, sono compresenti nel romanzo, quasi uscissero dal testo evangelico, in questo Vangelo Gesù è una figura più che umana, misteriosamente divina, e Pilato, vero protagonista del veridico romanzo del Maestro, appare una figura umana, troppo umana, capace di vivere il dramma del dubbio, della solitudine, della viltà, in un confronto infinito con colui che egli ha mandato a morte, ubbidendo alla plebe e al potere. Sono la plebe e il potere come entità collettive, e sono i singoli esseri umani in quanto dotati di libertà i portatori del Male e del Bene: il diavolo è una sorta di provocatore e sperimentatore che, come una sottodivinità soggetta alla divinità suprema di cui il mite Gesù è un’emanazione, compie una missione a Mosca per salvare il Maestro e il suo manoscritto, divertendosi a dimostrare che l’«uomo nuovo», preteso risultato della volontà rivoluzionaria, è non meno miserabile dell’antico.

Il Maestro e Margherita si chiude con la dissolvenza del passato (il mondo di Gerusalemme), i cui protagonisti, Gesù e Pilato, usciti dal tempo, continuano nell’oltretempo un dialogo iniziato nel romanzo del Maestro, in quell’oltretempo e oltrespazio dove, in una zona inferiore, sono stati accolti il Maestro e Margherita, mentre il presente, la quotidianità moscovita, dopo gli «esperimenti» fatti da Woland e dal suo corteggio, riprende la sua routine. Solo Ivan Bezdomnyj è mutato, ma non al punto di diventare un altro, del tutto estraneo a quella quotidianità. Il romanzo si rinchiude su se stesso, come una sfera magica, nel cui terso cristallo sono apparse vicende e figure misteriose e fascinose. È vano cercare di coglierne gli occulti meccanismi: la sfera, senza svelare come è fatta, mostra le sue visioni ogni volta che la si scruta, senza mai esaurirne i significati. È la sfera che Michail Bulgakov continuò a far ruotare fino alla sua morte nella città terrena in cui era vissuto il Maestro prima di ascendere a una città celeste che aveva sognato.


Da Il Maestro e Margherita, il capolavoro di Bulgakov, riporto un passo indimenticabile, l'incontro tra Margherita e il Maestro, molto di più che un "semplice" colpo di fulmine! E sfido a scagliare la prima pietra chi non ha mai sognato di essere protagonista di un incontro così.
Sono state pubblicate innumerevoli traduzioni di questa opera, in libreria ne ho confrontate quattro o cinque e alla fine ho scelto quella di Vera Dridso edita da Einaudi.

***

Essa aveva in mano orribili fiori gialli inquieti. Non so come si chiamino, ma sono sempre i primi ad apparire a Mosca. Questi fiori si stagliavano nettamente sul suo soprabito nero primaverile.
Aveva fiori gialli!  Un brutto colore. Dalla Tverskaja svoltò in un vicolo e si voltò. Conosce la Tverskaja, no?  Lungo la Tverskaja camminavano migliaia di persone, ma le garantisco che essa vide me solo e mi guardò, non dico preoccupata, ma addirittura in un certo qual modo morboso. Fui colpito non tanto dalla sua bellezza, quanto dalla straordinaria, mai vista solitudine nei suoi occhi!  Ubbidendo a quel richiamo giallo, anch'io svoltai nel vicolo e la seguii. Camminavamo in silenzio lungo il vicolo triste e storto, io da un lato, lei dall'altro. Non c'era anima viva. Mi tormentavo perché mi sembrava che fosse necessario parlarle, e temevo che non sarei riuscito a pronunciare neppure una parola, e lei se ne sarebbe andata, e non l'avrei mai più rivista. E s'immagini, a un tratto fu lei a parlare:
- Le piacciono i miei fiori?
Mi ricordo chiaramente il suono della sua voce, alquanto bassa, ma con brusche variazioni di tono, e - è sciocco, lo so - parve che un'eco risuonasse nel vicolo e si ripercuotesse nel muro giallo e sporco. Passai in fretta sull'altro marciapiede e, avvicinandomi a lei, risposi:
- No.
Mi guardò sorpresa, e, di colpo, in modo del tutto inatteso, sentii che per tutta la vita avevo amato proprio quella donna! Che storia, eh?     Lei dirà, naturalmente, che sono pazzo.
Non dico niente, - esclamò Ivan, e soggiunse: - La supplico, continui!
L'ospite continuò.
- Si, mi fissò sorpresa, e poi, dopo avermi fissato, chiese:
- Non le piacciono i fiori?
Nella sua voce mi parve sentire dell'ostilità. Le camminavo accanto, cercando di tenere il passo, e, con mio grande stupore, non mi sentivo affatto imbarazzato.
- No, mi piacciono i fiori, ma non questi.
- Quali le piacciono?
- Le rose.
Rimpiansi le mie parole, perché lei ebbe un sorriso contrito e gettò i suoi fiori nel rigagnolo. Li raccattai, un po' confuso, e glieli porsi, ma lei, sorridendo, li respinse ed essi mi rimasero in mano.
Camminammo così, silenziosi, per un po', finché lei non mi tolse i fiori di mano e li gettò sul selciato, poi infilò sotto il mio braccio la mano col guanto nero svasato, e proseguimmo vicini.

- E poi? - disse Ivan. - Per favore, non salti niente!
- E poi? - l'ospite ripeté la domanda. - Quello che successe poi, lo può indovinare lei stesso -. Inaspettatamente si asciugò una lacrima con la manica destra, e prosegui: - L'amore ci si parò dinanzi come un assassino sbuca fuori in un vicolo, quasi uscisse dalla terra, e ci colpi subito entrambi. Così colpisce il fulmine, così colpisce un coltello a serramanico!   Del resto, lei affermava in seguito che non era così, che ci amavamo da molto tempo pur senza esserci mai visti, e pur vivendo lei con un altro... e io, allora... con quella, come si chiama...
Con chi? - chiese Bezdomnyj.
- Con quella, ma si... quella... mm... - rispose l'ospite schioccando le dita.
- Lei era sposato?
- Ma si, perché crede che schiocchi le dita?... Con quella... Varen'ka... Manecka... no, Varen'ka...  il vestito a strisce, il Museo... Ma non ricordo.

Ebbene, lei diceva che con quei fiori gialli in mano era uscita, quel giorno, perché io la potessi finalmente incontrare, e che se questo non fosse avvenuto, si sarebbe avvelenata, poiché la sua vita era vuota.
Si, l'amore ci colpì in un baleno. Lo sapevo già, quel giorno, dopo un'ora, mentre eravamo, senza accorgerci dell'esistenza della città, sul lungofiume sotto le mura del Cremlino,
Parlavamo come se ci fossimo lasciati il giorno prima, come se ci conoscessimo da molti anni. Ci accordammo per trovarci l'indomani nello stesso posto, sulla Moscova, e ci incontrammo. Il sole di maggio splendeva per noi.
Ben presto, quella donna divenne la mia moglie segreta.
Veniva da me quotidianamente, di giorno, e ad aspettarla io cominciavo sin dal mattino. Questa attesa si manifestava col fatto che spostavo gli oggetti sul tavolo. Dieci minuti prima mi sedevo vicino alla finestra e mi mettevo in ascolto, aspettando che il vecchio cancello sbattesse. È strano: prima che la incontrassi, poca gente veniva nel nostro cortiletto, anzi, non veniva mai nessuno, mentre adesso mi sembrava che tutta la città vi si precipitasse. Sbatteva il cancello, batteva il mio cuore, e, si figuri, dietro il finestrino, al livello del mio viso, appariva immancabilmente un paio di stivali sporchi. L'arrotino. Ma chi aveva bisogno di un arrotino nella nostra casa? Arrotare che cosa? Quali coltelli?
Lei entrava una sola volta dal cancello, ma io avevo provato il batticuore almeno dieci volte, non dico una bugia. Poi, quando giungeva la sua ora e le lancette indicavano mezzogiorno, il batticuore continuava finché senza tacchettio, quasi silenziose, davanti alla finestra non mi passavano le scarpe con un nodo di camoscio nero, stretto da una fibbia d'acciaio.
A volte scherzava, e fermandosi davanti alla seconda finestra, bussava al vetro con la punta della scarpa. Nello stesso istante io mi ritrovavo davanti a quella finestra, ma la scarpa scompariva, scompariva la seta nera che velava la luce, e io correvo ad aprirle.
Nessuno sapeva del nostro legame, glielo garantisco, anche se questo non succede mai. Non lo sapeva suo marito, non lo sapevano i conoscenti. Nella vecchia casetta dove possedevo quello scantinato, naturalmente, sapevano, vedevano che mi veniva a trovare una donna, ma non ne conoscevano il nome.

- E chi è? - chiese Ivan, interessato in sommo grado a quella storia d'amore.
L'ospite fece un gesto a significare che non l'avrebbe mai detto a nessuno, e continuò il suo racconto.
Ivan seppe che il Maestro e la sconosciuta si amavano talmente che divennero assolutamente inseparabili. Ivan ora si immaginava con chiarezza le due camere dello scantinato della casetta, dove regnava sempre il crepuscolo a causa del lillà e della palizzata. I logori mobili di mogano, lo scrittoio con l'orologio che suonava ogni mezz'ora, e libri, libri, che andavano dal pavimento di legno lucido fino al soffitto annerito dal fumo, e la stufa.
Ivan apprese che, sin dai primi giorni della loro relazione, il suo ospite e la moglie segreta erano venuti alla conclusione che a farli incontrare all'angolo della Tverskaja con il vicolo era stato il destino, e che erano stati creati eternamente l'uno per l'altra.









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