Nel XVII
sec. l’Europa è percorsa da una vena di follia. Incantesimi, caccia alle
streghe, superstizione, Inquisizione, magia, alchimia intralciano e aprono al
contempo la strada alla rivoluzione scientifica.
L’arte
barocca raccoglie e amplia la duplicità insita nei nuovi tempi: razionalità
connessa alla spiegazione/riduzione matematica del mondo, fuga verso realtà
illusorie e drammaticamente coinvolgenti.
La Spagna è
una terra sostanzialmente estranea alla nuova scienza naturalistica. La
modernità, lì, pare frantumarsi in imperizia e approssimazione. Cervantes
s’inserisce perfettamente in questo clima sonnolento, conformista e
antiereticale com’è, attratto com’è dalle stravaganze della diversità e
dall’appiattimento sui poteri costituiti.
Il Don
Chisciotte è un meticoloso réportage sull’arretratezza della provincia
spagnola. Ma allegorie e simboli ne dilatano enormemente lo spazio, dilagano
oltre la cornice e assurgono a emblema, convincente per lo scetticismo che lo anima.
Un esempio può essere la discesa nella caverna di Montesino, nel cuore dell’arida
Mancia eppur percorsa da un fiume carsico, la Guadiana.
L’ambiente
irreale, “magico”, apre la possibilità ad una sorta di rito iniziatico. Il
tempo reale non coincide col tempo mentale: Chisciotte crede di permanere tre
giorni (come Gesù nel sepolcro).
Sancio mimerà
una ironica iniziazione cadendo nell’anfratto di antiche rovine.
Il Don
Chisciotte può essere visto – forse in modo troppo scaltro o troppo ingenuo –
come un gioco di specchi, in cui l’inganno dell’occhio e della mente fa pendant col “desencanto”. A tale esito e
sentimento lo sfaldamento dell’impero di Carlo V da un lato, la persecuzione
antislamica e antiebraica seguita alla “reconquista”
dall’altro, hanno gettato il Paese (un popolo in apnea, dice Ortega Y Gasset).
Il Don
Chisciotte è come un tromp-d’oeil: una serie di piani potenzialmente infiniti
s’accavallano e si rispecchiano in rimandi continui (Velasquez con Las Meninas può rendere l’idea al
livello pittorico di tale sommatoria rapsodica di prospettive: il quadro è già
dentro il quadro, il pittore stesso ed il punto di vista dell’osservatore
stesso vi sono già compresi).
Che cosa è
reale, dov’è l’inganno? Impossibile discernere: il prospettivismo, portato alle
conseguenze estreme, ammette e, al tempo stesso, confuta tutte le affermazioni
senza bisogno di prove
L’arabo Cite
Hamete Benengeli è evocato da Cervantes come il mitico primo autore di un
romanzo ispirato alle gesta dell’hidalgo.
Successivamente
egli si pone come semplice traduttore. Nel capitolo XXIV (2a p.) si scopre che
Benengeli era già, a sua volta, traduttore di una storia più antica.
Entra poi in
scena De Avellaneda che, effettivamente, ha pubblicato una seconda parte
apocrifa del romanzo. Cervantes se ne serve per arricchire ulteriormente i
riccioli del suo affresco barocco (costui ”rischia il rogo, e lo merita, per
avermi descritto così”, dice Don Chisciotte).
Intanto
l’opera sul “vero” personaggio si va compiendo all’unisono con le sue
avventure, la storia si vive mentre la si scrive (un gioco simile al
"ritratto" di O.Wilde). Nel XXXIII (2a p.)si dirà: “ma questo nella
storia non c’è ancora”.
Il tempo si
dilata, si sfasa e diviene a sua volta illusorio. Nel II e III (2a p.) Il
romanzo figura già stampato. “Vendute 30.000 copie”, si precisa nel XVI. Come
in una macchina del tempo, Chisciotte agisce anche sul passato (LIX,2).
Avvertito da de Avellaneda, cambia il corso degli eventi e va a Barcellona
anziché a Saragozza. L’autore spiega al lettore: “Mi accusavano di
denigrazione, allora ho cambiato carattere ai personaggi”. E nel XXX, 2: “molti
hanno già conosciuto, dopo aver letto il romanzo” (ancora non scritto) “le
gesta del Cavaliere dalla Triste Figura”
Nel cap.
LXXII,2 si viene a sapere che lo stesso Don Chisciotte ha già letto la sua
storia. La finta Altisidora racconta che nell’inferno i diavoli giocano col
romanzo già finito. All’inizio del XLIV,2 compare un nuovo primo traduttore di
Benengeli.
Il
travestimento è l’aspetto fondamentale della crisi d’identità che diviene il
motivo dominante del romanzo moderno.
Questo
capitolo, il XLIV, 2, è quasi una teorizzazione della genesi del romanzo, della
sua necessità storica. E’ la parte nella quale il maggiordomo “è e non è” la Tribolata. Altrettanto “Sono e non sono” tutti i personaggi
cervantiani, da Dulcinea al Cavalier del Bosco, Dalla principessa di
Miccomiccone al cavaliere degli specchi-maschera della morte. E’ e non è la
realtà stessa. In questo modo la maschera di Cervantes s’oppone e rovescia in
ironia il sogno rinascimantale di Calderon e dell’Ariosto (la vita non è sogno,
è teatro e commedia). Così egli scioglie anche il dubbio di Amleto: l’essere è anche il non-essere.
O almeno
così sarebbe se non intervenisse, senza sosta e puntualmente, l’esito realistico
(spesso per mezzo di Sancio oppure dell’autore stesso che, in prima persona,
chiama il lettore a giudicare), che riporta al pensiero comune, all’ovvietà del
senso. Con molti distinguo, però: non c’è cosa né oggetto che, filtrato dalla
ragione della mente, permanga immutata. Il dubbio si riproduce, inesausto, al
livello più elevato (o se preferite più profondo) dell’intelletto. E così via,
all’infinito, specchio dopo specchio.
24 settembre 2012
Nessun commento:
Posta un commento