di Mirta Vignatti
Della grande triade del post-modernismo nordamericano (Pynchon, Wallace, De Lillo), credo che D.F. Wallace sia colui che nelle sue opere estremizza più degli altri la destrutturazione della materia narrativa enfatizzando la parola come unità dotata di possibilità combinatorie pressoché infinite.
Della grande triade del post-modernismo nordamericano (Pynchon, Wallace, De Lillo), credo che D.F. Wallace sia colui che nelle sue opere estremizza più degli altri la destrutturazione della materia narrativa enfatizzando la parola come unità dotata di possibilità combinatorie pressoché infinite.
Penso sia questo l'assunto concettuale che sta a
monte di quasi tutta la produzione letteraria di D.F.W. e non mi pare
che -almeno in questo godibilissimo romanzo- tale impostazione teorica
vada a cozzare con la leggibilità e la positiva fruizione da parte del
lettore.
Il talento dell'autore qui si dimostra talmente grande, i
registri scelti e il trattamento della trama sono talmente raffinati che
credo di poter affermare che “La scopa del sistema” sia uno dei romanzi
dell'autore più riuscito. Dal concetto astratto del mondo moderno come
caos che l'autore interfaccia con una bulimia linguistica e verborragica
impressionante, emerge sì una trama sconquassata, demenziale, assurda,
ma è pur sempre trama avvincente, coerente e coesa fino alla fine. E
questa credo sia la sfida che DFW cerca sempre di raccogliere e vincere
contro le complessità del sistema: l'autore sviluppa un puzzle di
personaggi più o meno plausibili infilati in storie che s'intrecciano,
elaborate sul registro del comico, del grottesco, del surreale, a volte
del non-sense. Dietro c'è -come dicevo- la sfida di poter raccontare il
mondo (così assurdo, destrutturato, insopportabile nella sua banalità)
combinando storie altrettanto assurde e paradossali con un numero n
all'infinito di parole che creano un effetto di marea crescente tale da
disorientare il lettore. (Dato che questo è l'obiettivo: non
gratificare, rassicurare, confortare il lettore -leggi anestetizzare- ma
disorientarlo, visto che è il caos ciò che lo circonda)
. Se “La scopa
del sistema” conserva ancora un grado di leggibilità e di piacevolezza,
il vero gap Wallace lo otterrà anni dopo con Infinite Just, vero totem
del post-modernismo, dove il lettore è chiamato ad uno sforzo inane di
concentrazione e applicazione, con una trama stavolta al massimo grado
di destrutturazione.
Ma in questo romanzo, scritto da un giovane,
geniale e talentuoso Wallace ai suoi esordi (nel 1987 aveva soltanto 25
anni), la giustapposizione di storie, di frammenti di esiti linguistici
da varie fonti, di elementi di pura surrealità, è ancora condotta con
spirito giocoso e cattura il lettore che riesce a seguire senza problemi
la volutamente costruita dispersione del testo. Certamente la
disperazione interiore di D.F.W. , che imploderà a pieno nelle sue
ultime fatiche letterarie, non riuscirà più a dominare il caos con la
scrittura, nonostante tutti i suoi sforzi titanici. Fino ad arrivare
agli ultimi drammatici esiti del percorso personale dell'autore.
Considero questo romanzo un valido strumento per approssimarsi al
post-modernismo nordamericano, ed è il caso di segnalare anche l'ottima
prefazione di Stefano Bartezzaghi (mai scelta del prefattore fu più
saggia) e l'eccezionale traduzione di Sergio Claudio Perroni, che qui dà
il meglio di sé in maniera encomiabile.
David F. Wallace, “La scopa del sistema”, Einaudi 2012.
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