27 marzo 2013

"La pittura contemporanea. Dal Romanticismo alla Pop Art " di Flavio Caroli

di Davide Pugnana


“Ma qual è allora la prospettiva
entro cui si colloca la
domanda su ciò che,
 in una determinata epoca, cultura,
società si è detto e scritto
 a proposito di un’opera d’arte
o di uno stile di pittura?” (1)




Scrive Francesco Porzio(2): “Fra gli amori di Arcangeli ce ne sono alcuni che hanno fatto l’arte italiana, forse europea, del secondo dopoguerra. Ma la statura del critico era tale, che accade un fenomeno curioso: man mano che ci si inoltra nella lettura, i pittori svaniscono tremolando nella cronaca, mentre lentamente prende forma una delle riflessioni più profonde mai condotte, in Italia, sul significato e sul destino dell’arte moderna.” Questa riflessione, che procede assumendo il punto di vista della scrittura come dote metamorfica del critico di trasferirsi tutto nei suoi pittori, di cibarsi del loro lavoro introiettando linee colori spazi luci ombre, in un processo in cui la materia pittorica si deposita in profonde macerazioni interiori, mi sembra il miglior grimaldello per comprendere la natura singolare di un saggio vero e appassionato come La pittura contemporanea dal Romanticismo alla Pop art (Electa, Milano 2013, pp. 166) Opera del 1987, questo saggio ha la statura di un classico della storiografia: una piccola Bibbia portatile per chi desideri aver chiaro il quadro storico complessivo delle tendenze e delle poetiche europee della pittura occidentale, dall’Ottocento agli anni Sessanta del Novecento. La ristampa, con una veste tipografica tutta incentrata sul malinconico Ritratto del dottor Gachet, aggiunge una tessera preziosa al serrato mosaico storiografico che, dalla fine degli anni Settanta, ossia dal ventaglio di monografie su Lorenzo Lotto, sulla dialettica forma/informe in Burri e sul tema della dimensione politica nell’arte, Caroli è andato svolgendo senza sosta e con un’ampiezza prodigiosa di visione fino ad oggi.


Non intendo qui discutere i puntelli periodizzanti e il campionario di opere trascelte da Caroli nel lungo viaggio compiuto dalla pittura occidentale, dalla generazione del Romanticismo europeo alle avanguardie novecentesche, fino al decennio Cinquanta-Sessanta della Pop Art. Del suo impianto storiografico; del suo metodo e della sua visione storica degli eventi; della sua capacità di scorciare momenti di snodo in quadri di sintesi, come della sua finissima ricostruzione dei “primari” del pensiero in figura, ho già dato conto recensendo Le tre vie della pittura (Libere Recensioni, Novembre 2012). Quest’ultimo saggio mi dà la possibilità di focalizzare il cannocchiale dell’analisi su di un aspetto che ho sempre avvertito come cifra caratterizzante della produzione saggistica caroliana, e, per dir così, come un valore aggiunto: la scrittura. Non la prosa saggistica che racchiude un testo nei confini del suo “genere” scientifico; ma un tipo speciale di aderenza del testo verbale al testo pittorico che viene definita scrittura d’arte.


Non sembri questa prospettiva un tradimento della vocazione argomentativa e della missione persuasiva della forma-saggio. Leggere un saggio per come è scritto; considerarne la fattura della prosa non equivale a perdersi nell’elogio della forma, o nell’indugio estetizzante del lavorio di cesello. Considerare il saggio - e nella fattispecie un saggio su di una materia visiva come l’arte pittorica - alla luce della scrittura significa toccare due livelli: da un lato, studiare il metodo di ri-creazione delle opere, pittoriche o scultoree, attraverso la “messa in parole” della loro sostanza visiva; dall’altro, cercare di delineare i caratteri di questo uso della scrittura critica dotata di statuto estetico e imbastita su valenze poetiche ed espressive. Si può, quindi, parlare di “scrittura d’arte” quando la prosa acquista un’autonomia di bellezza tale da affrancarsi dal brano pittorico preso in esame, senza per questo perdere di rigore scientifico e di profondità interpretativa. Su questo terreno, tenuto sul filo di confine tra scienza e arte, prende corpo una sapiente traduzione in linguaggio verbale dell’immagine pittorica. Nel 2005, Vittorio Sgarbi ha dedicato un intero libro alla comprensione della scrittura d’arte, assumendo come esempi massimi della tradizione Vasari e Longhi. Riaprendolo, per cercare un’ulteriore sponda teorica valida alla scrittura caroliana, ne riscopro la forza degli assunti. Nel capitolo Ricostruire l’immagine, la prosa longhiana e la natura della scrittura d’arte sono presentati così: “Quando si legge una pagina di Longhi […] quando si leggono i saggi su Piero della Francesca, su Caravaggio e sulla pittura ferrarese, si scopre, si abbia o no in mente il quadro, che la parola riesce effettivamente, quasi in virtù di un’equivalenza, a ricostruire l’immagine, e questo è il vero scopo della critica. Cioè, la critica deve essere capace di formare un nuovo corpo che si affianca al quadro e sta in piedi da solo. Ci sono pagine di Longhi talmente poetiche, talmente forti, che potrebbero quasi far a meno del testo pittorico che le ha motivate. Senza dubbio è importante che abbiano un rapporto con quell’immagine, ma sono così riuscite che potremmo anche non vedere il quadro.”(3)


A voler cercare nei secoli passati un brano prosastico di questa levatura, l’esempio forse più significativo proviene da un’epistola datata maggio 1544 al “signor compare Tiziano”(4). Sotto il cielo di una sera veneziana prossima alla notte, Pietro Aretino ha cenato in solitudine, contravvenendo alle sue abitudini di uomo mondano. Da giorni ha la quartana, una febbre di origine malarica che ritorna ogni quattro giorni. I cibi non gli lasciano in bocca nessun gusto e il corpo di uomo prossimo ai cinquant’anni si muove a fatica. La lettera registra in presa diretta, come una stenografia degli istanti, i gesti e i pensieri di quella sera di amara, cupa solitudine. Pietro si alza da tavola “sazio de la disperazione” e si trascina al davanzale della finestra, abbandonando sulla balaustra “il petto e quasi il resto di tutta la persona”. Fuori, Venezia pulsa di luci e di vita; sul Ponte Rialto, nella riva dei Camerlinghi, nella Pescaria, il popolo sciorina e si dà convegno per assistere alla regata “di barcaiuoli famosi”. Voci miste, “turbe” salgono dalle calli alla finestra dello scrittore, mentre in lontananza le barche sono pigre navicelle volanti che s’incontrano nell’ora del giorno, quando il mare abbraccia il cielo e nessun contorno li separa più. Come dentro una veduta veneziana di Federica Galli, le gondole sono spaurite virgole nere nello specchio di silenzioso cristallo della laguna; e lasciano scie invisibili di solchi sulla pelle del Canal Grande, mentre “forestieri” e “terrazzani” stanno in una calma attesa da scacchiera. In Pietro, la morsa della quartana diventa umor melanconico: “fatto noioso a se stesso”, sente la terribilità del pensiero che divaga senza approdi nel vuoto. Alza gli occhi verso il cielo, come secoli dopo faranno Constable e Turner per studiare, in quelle loro tele cariche di meteorologia visionaria, brani di nuvole e di tempeste. Un sussulto lo scuote: “da che Iddio lo creò, [quel cielo] non fu mai abbellito di così vaga pittura di ombre e di lumi.”. L’occhio di Aretino si dilata: il cielo di Venezia subisce una trasformazione repentina. Al dato naturale delle nuvole, del vento, delle striature violacee e bluastre del tramonto si sovrappone una campitura di chiaroscuri. I guizzi del reale ricordano pigmenti di colore, velature, trasmutano di essenza. Qualcosa che sopravviene ad un tratto spacca in due la lettera e ne muta registro. Qualcosa che deve essere affiorato nella memoria dello scrittore: in quell’istante di risveglio la penna vorrebbe trattenere tutte la fibra percettiva del cielo, ogni sua grana, ogni suo tono, ogni suo palpito e respiro. “Onde l’aria era tale quale vorrebbero esprimerla coloro che hanno invidia a voi per non poter essere voi, che vedete nel raccontarlo io.” Solo la mano di Tiziano ha saputo raccontare quel brano di natura diventando quel cielo che adesso stava negli occhi febbrili dell’Aretino. A metà della stesura, l’epistola abbandona i toni di basso dello sfogo solitario; la vaghezza dei pensieri, fino a quel momento sbrigliati negli scenari aridi della malinconia, trovano nello spazio tra paesaggio lagunare colto sur le motive e memoria figurativa uno squarcio improvviso nel quale s’allineano e mescolano gli sfondi sconvolgenti dipinti da Tiziano. Poter esser Tiziano! Pietro ha sostato davanti ai suoi dipinti per lunghe ore, portandoci sopra lo sguardo palmo a palmo; ne conosce ogni agguato d’ombre, ogni campitura, ogni velatura e semitono. I suoi occhi hanno interiorizzato e amato con gioia feroce le estenuate, pausate lotte di timbri caldi e freddi, le ocre i blu i viola delle nuvole a stracci, contro le quali l’indice di Alfonso d’Avalos si disegna repentino e il gruppo della Madonna e Santa Caterina si dispone. L’accensione del cielo veneziano era già tutta nella lama di luce che fende d’un bagliore l’orizzonte abbasso della Pala Gozzi (1520), e racconta il fermo stagliarsi degli edifici, l’incidersi contro un cielo aranciato della punta del campanile di San Marco, alla cui geometrica fermezza risponde, quasi per contrappunto, il torto profilo delle foglie sul ramo e il zigzagare delle nuvole verso la Vergine. Sferzato da questi brani pittorici, anche la scrittura epistolare di Pietro si fa porosa registrazione, non più verbale ma pittorica, dello scenario lagunare: le maglie sintattiche si allentano, i verbi scintillano, la tavolozza lessicale si apre a tastiera accordando con somma precisione sostantivi e aggettivi. Aretino ricreerà sulla pagina, unendo memoria figurativa e moderna trascrizione en plein air, i cieli di Tiziano venati di rossi sangue e di neri contro squarci di luce improvvisa: “Imprima i casamenti che, benché sien pietre vere, parevano di materia artificiata; e dipoi scorgere l’aria ch’io compresi in alcun luogo pura e viva, in altra parte torbida e smorta. Considerate anco la meraviglia ch’io ebbe dei nuvoli composti d’umidità condensa, i quali in la principal veduta si stavano vicino ai tetti de gli edifici, e mezzi ne la penultima, però che la diritta era tutta d’uno sfumato pendente in bigio nero. Mi stupii certo del color vario di cui essi si dimostravano: i più vicini ardevano con le fiamme del foco solare; e i più lontani rosseggiavano d’uno ardore di minio non così bene acceso. Oh con che belle tratteggiature i pennelli naturali spingevano l’aria in là, discostandola dai palazzi con il modo che la discosta il Vecellio nel far de paesi! Appariva in certi lati un verde azzurro, e in alcuni altri un azurro verde, veramente composto de le bizzarrie della natura, maestre dei maestri. Ella con i chiari e con gli scuri isfondava e rilevava in maniera ciò che le pareva di rilevare e di sfondare, che io, che so come il vostro pennello è di spirito dei suoi spiriti, e tre e quattro volte esclamai: ‘Oh Tiziano, dove sète mò?’


Questa capacità di costruire un’equivalenza tra testo pittorico e testo verbale e, attraverso questa, giungere a tratteggiare pagine talmente poetiche da reggersi da sé, è il comune denominatore della linea degli scrittori d’arte. Certo, non è l’unico modo della parola scritta di avvicinarsi all’arte. Ci sono molti e collaudati modi di scrivere sulle opere. C’è quello rigoroso e documentato della prosa scientifica e accademica, rifluito in manuali, monografie, articoli e contributi di corto e ampio respiro; ed è questo un tipo di prosa esplorativa e chiarificatrice; solidamente positivista, trapuntata d’erudizione e d’intelligente senso della storia. Il suo raggio d’azione storicizza, razionalizza, squadra, scolpisce, colloca fenomeni e personalità in un ordito fittamente elaborato di trame che aggiungono, via via, argini al grande letto della storiografia. Parallelamente, corre la prosa dei giornalisti d’arte di solida formazione umanistica, con scritti tutt’altro che riducibili alla compilazione di un giornale di bordo della mondanità artistica, delle mode, delle Biennali, dei ‘casi’. E c’è poi il territorio dell’arte di scrivere d’arte, come recita l’eloquente titolo di una raccolta di interventi incentrati su uno dei maestri assoluti della scrittura d’arte del Novecento: Roberto Longhi. Nel panorama della critica italiana del secolo scorso, esiste tutta una linea di autori, tesa tra Longhi e Flavio Caroli - passando per Francesco Arcangeli, Giovanni Testori, Roberto Tassi e altri - che è possibile stringere come una costellazione di pleiadi. Le loro pagine rifulgono di una rara tenuta e bellezza di stile: sono pagine sorrette e nutrite da un’incessante esercizio dell’occhio sopra l’oggetto d’arte poi volto in scrittura: ossia, incorporato e sciolto entro un processo di trasmutazione della forma artistica in sostanza verbale. Questa capacità di restituire a parole l’opera d’arte, facendola rivivere in pagine capaci di reggersi da sé, senza più il sostegno dell’oggetto artistico, è stata definita da Longhi stesso come “equivalenza verbale”. Su questa via di ricerca, il lavoro dell’intelligenza critica sull’opera e le percezioni tuffate nell’inchiostro della penna trascinano con sé la scoperta, nella storia intima di questi critici-scrittori, di una vocazione, ossia della presa di coscienza di una latente inclinazione alla scrittura letteraria e poetica.


Dopo la lettera dell’Aretino a Tiziano, almeno altri due campioni testuali ci possono aiutare a ricostruire il solco genetico della scrittura caroliana e ad averne, durante la lettura, un quadro più consapevole del suo valore e della sua continuità con la tradizione italiana della scrittura d’arte. Rimanendo nell’orbita dei pittori veneziani, cade in taglio la pagina longhiana sul San Giorgio del Carpaccio, pittore narrativo: “E il San Giorgio? An onta di malori innumerevoli rimane ancora un quadro supremo; non però di piana decifrazione. Che mai, infatti, di questa inscenatura arcaicamente profilata e stemmata che, in apparenza, vuol riportarsi ai vecchi esemplari di cinquant’anni prima, ai cassoni di Paolo Uccello? Solo chi conosca bene il Carpaccio sciolto e profondo può annuire all’astuzia culturale che qui evoca, attraverso la più vecchia ed araldica iconografia, l’antichità della favola cavalleresca […] Creò così, tra drago e cavaliere astato, questa specie di immane rosta in ferro battuto alla ribalta del quadro; al di là però, eccolo esplorare a fondo fino all’orizzonte il vasto palcoscenico naturale che gli è caro: prima il terreno stregato dove la morte espone lucida, tra i ramarri, le botte e i fili d’erba avvelenati, i suoi vari ‘memento’: le collezioni di teschi, il braccio che fu elegante, il lurido frammento di un eroe sfortunato, i resti della donzella dove la camiciola smangiata sul petto integro, la mezza manica sul braccio che riposa, il torso sfibrato come una corteccia dolce da masticare, si compongono nei segni di un affetto supremo; più lontano, i palmizi che sfilano lungo la città balconata donde gli abitanti, minutissimi, guardano alla rovescia il nostro stesso spettacolo; più in fondo ancora, sotto il cielo imbrattato di nubi, l’orizzonte marino con il veliero che s’incanta stupefatto sotto la rupe forata.”(5)


Pagine di altrettanta abilità e profondità di osservazione fusa ad una fattura stilistica capace di venirci incontro in completa autonomia, tornano in Francesco Arcangeli, che fu, come lo stesso Caroli, allievo di Longhi. Tra le ‘pagine di galleria’, dove Arcangeli ha fissato pezzi di raffinata oreficeria critico-narrativa dedicati a grandi e piccole mostre, spicca una memorabile traduzione in parole della Battaglia di Montebello di Giovanni Fattori (Museo Civico Fattori di Livorno): “Nella Battaglia di Montebello il livornese risponde, dalle coste di un mare comunicante, alle marine di Palavas che Courbet dipinge, talvolta, entro la luce splendente che il suo occhio di medioeuropeo affissa nel Mediterraneo. Non indegnamente, il toscano moderno, non più sotto la luce zenitale di Piero, anzi entro l’ansia sospesa di una polvere di battaglia, concepisce un grande spento intarsio d’azzurri, di grigi, di verdi, agitato e compreso entro un’area ‘all’infinito’; dove sordi e pur solenni accadimenti - la tela, tre metri di largo - , dove giberne bandoliere casacche pantaloni dorsi di cavallo chepì si posano forti nel tramestio mortale, sotto un indimenticabile cielo di cenere.”(6) E ancora ai cieli dei pittori, a quella “storia naturale dei cieli” che la ricerca di Constable isolerà in brani di assoluta e poeticissima pittura, dedica pagine di raffinata scrittura Roberto Tassi: “Constable indagava il volto della natura, i giochi della luce, i cambiamenti d’atmosfera, conosceva la forma e la diversità delle foglie, il tipo di piante, come un naturalista; così le note che scriveva in margine ai suoi quadri nuvole, il cui stesso titolo di ’studi’ più che un significato di preparazione per quadri ’finiti’, che in realtà non faceva, avevano quello di documentazione scientifica […] ma ecco che l’obiettività cominciava ben presto a tralignare, quelle righe scritte sulla stessa base del grande foglio di carta sul quale nasceva l’immagine bellissima e vera di un cielo nuvoloso, mostravano subito il loro lato poetico, la sfumatura del sentimento. […] Egli sposa la vista dell’emozione, l’indagine alla fantasia, l’esperimento alla pittura, il distacco all’amore. Quelle note erano indicazioni scientifiche, ma davano anche il senso poetico del tempo; la pittura di Constable porta il sentimento dell’ora. E dopo di lui, a cominciare da lui, tutta l’arte del secolo è una grande poesia del tempo indimenticabile e fugace, dell’ora che ha in sé la sua eternità e subito passa. Essere fissati alla memoria, quindi alla morte, dell’attimo e rendere l’attimo eterno; essere piccoli, transeunti e assoluti. Quando la luce batte su un muro il tetto fa la sua ombra, o quando avvolge un albero l’ombra cade sul prato, quando è il momento della mietitura o quando dal sottobosco esce un capriolo, o si allontana sul mare un nembo di pioggia, o fioriscono i papaveri, la pittura indica questi attimi come una grande meridiana; tutto è sospeso e intoccabile; nasce il senso umano, irripetibile ed estremo della stagione e dell’ora.”(7)


Ma a questo punto, prima di introdurre la prosa di Caroli, sento di dovermi fermare per aprire un intermezzo a giustificazione dell’intelaiatura massiccia di citazioni che tramano questa recensione. La ragione di punta è senz’altro la necessaria centralità di essais testuali, organizzati in un reciproco dialogo capace di restituire il passo, la grana e la cifra di singolarità della scrittura d’arte. Un altro motivo di fondo è l’uso della citazione come mezzo per stimolare la ricezione del lettore, investendolo con punte acute di scrittura in grado di allargarne la biblioteca mentale, e, attraverso le note a piè di pagina, portarlo all’attraversamento della linea degli scrittori d’arte. La citazione, infine, o meglio lo spirito della citazione, compare qui secondo la lezione di Montaigne e di Walter Benjamin: come strumento conoscitivo orientato a gettare luce sulle grandi idee, nel rispetto storico della tradizione di pensiero e trapuntando il proprio testo di voci come “agguati” che lascino il destinatario spiazzato.


In questa famiglia di prosatori, dunque, s’incunea la scrittura di Flavio Caroli. Chi si mette di fronte alle pagine di un critico d’arte arriva sempre, prima o dopo, a chiedersi: “Come ci parlerà dei dipinti? Con quale linguaggio avviterà nei nostri occhi i colori e le forme di quelle opere che il libro, per limitata economia di spazio e di costi, non è riuscito a riprodurre?” L’orizzonte di attesa del lettore di critica d’arte è in questo senso tra i più esigenti. Proseguendo l’esplorazione dei cieli nei brani paesaggistici, iniziata con l’epistola dell’Aretino fino a Tassi, troviamo, nel primo capitolo sul Romanticismo, la resa in parole della Veduta di Zurigo (1842) di Turner: “Ciò che era sottinteso nel dipinto giovanile [ il Ponte del diavolo, 1802] adesso è internato nell’occhio come una verità inevitabile. Le norme spaziali sono disciolte, liquefatte. Una sorgente luminosa sottile e obnubilata sparge cerchi concentrici di nebbia e candore; tinge di rosa e malva i tetti, i muri, i cieli, le montagne; trita le cose in una polvere alterna ma omogenea; allarga l’universo di uno splendore stupefatto e abbacinante, la luce primeva di una prima alba del creato.” Diverso registro ha la resa in trama verbale de Il mulino di Flatford da una chiesa sullo Stour dipinto da Constable nel 1811: “Il fiumicello segna una traccia prospettica ancora settecentesca. Ma il quadro è affondato nei più struggenti e sobri sentimenti ottocenteschi. Il pennello accarezza zolle madide di muschi e d’umidità, ‘sente’ un’acqua tersa e densa come vetro, restaura il vecchio rosso dilavato e scrostato dei muri, sintetizza con straordinaria modernità la macchia smeraldina di un albero, lo fa dialogare col verde pastoso di un pioppo, abbozza querce spiumate dal tempo, vede biaccose nuvole di gesso nel cielo limpido delle giornate inglesi spazzate dal vento dell’Atlantico.”


Questi esempi ci portano nel corpo vivo della narrazione verbale dell’icona pittorica. In questo ombelico di segni materici, nella cui cavità il codice linguistico della lingua pittorica diventa scrittura, Caroli buca l’immagine: rende leggibile ciò che già accade sotto i nostri occhi in figurazioni riconoscibili ma arcane, e che solo attivando la funzione poetica della lingua - quell’apparecchiatura incandescente fatta di metafore, aggettivi, frizione tra campi semantici anche distanti, incanto musicale della sintassi, guizzo visionario - possiamo accedervi, vedendola per la prima volta. L’esempio forse più calzante è la decifrazione caroliana del nuovo realismo de I mangiatori di patate (1885): “Van Gogh è già grandissimo quando dipinge quella specie di antro selvatico e caliginoso che contiene I mangiatori di patate. […] Non sa dipingere, Van Gogh, quando accumula i grigifumo dei Mangiatori. Meglio: non padroneggia la pittura come le molte mani dotate dell’Ottocento. Struscia col pennello terre ammorbate, verdi incupiti e marci, ‘lumetti’ gessosi di luci approssimative, appena memori di un lontanissimo Rembrandt. Appallottola la pittura con segno arrotolato e ritornante, impastando le psicologie (tuttavia, sublimi) con pochi tocchi rotanti di terra e nero. Ma che importa? Questo quadro è scavato nella pietra stessa dell’animalità umana, e in una tenue, dolcissima, tenerissima fede in qualcosa che ci salverà. Qui c’è lo strato basico dell’umanità, la sua divina semplicità, e c’è la più nobile, elevata, sacra certezza di un amabile riscatto.”


Chi si misura con le opere d’arte cercando di ricrearle in una equivalente tessitura di parole conosce bene la difficoltà di far aderire la forma della scrittura al linguaggio novecentesco della dissoluzione della forma: la ricerca astratta e informale. Come fare a trasferire la grammatica della “via astratta” e della contaminata materia informale con il sistema di segni della lingua italiana? Quali verbi e aggettivi, quali sostantivi e quali slogature sintattiche dobbiamo scegliere per nominare, fino in fondo, ogni minima fibra di questo linguaggio pittorico privato di referenti naturalistici? Come si fa a scrivere sulle tele di Kandinsky, di Pollock, di Burri, Fontana e Morlotti restituendone l’inaudita gestualità del processo pittorico, la qualità “organica” dell’immagine, gli spessori e l’attrito furente e abrasivo? E come farlo, soprattutto, senza tradirne il midolloestetico depositandovi sopra cattiva letteratura? A molti di questi interrogativi aveva già dato risposte la prosa critica di Francesco Arcangeli. I suoi contributi su Pollock e Morlotti sono tra i più alti toccati dalla prosa critica italiana affacciata sulla sperimentazione estrema dell’informale e dell’astratto. Scrive Arcangeli su Grande sacco (1952): “Per Burri non si tratta di incollare dipingendo, o di evadere o di riconfermare la pittura giocando; si tratta, prima, d’intendere la frusta bellezza della superficie d’un sacco, o il cupo brillare dei legni, o il rigido e opaco splendere d’una lamiera; e poi, cucendo sottilmente, calcolatamente bruciando e tingendo, e soprattutto alternando gli spazi di materia con gli spazi di pittura, dializzando i nei neutri d’un fondo con i neri brutalmente viventi e infetti di cenci e residui d’abbigliamento, dare a tutto questo una nuova e diversa vita; sottolinearne una cupa e vivente sostanza, o una incredibile possibilità di grazia. È soltanto issando sulla parete il Grande sacco del ‘52 (un’opera che a terra sembrava bruta materia, scoraggiante per la sua irrimediabile apparenza materiale), che ci si accorge di quanto le due sole brevi zone dipinte, un bianco e un nero più intensi, respingano sapientemente la grande superficie del sacco entro un velo di tono, malinconico e trattenuto. La materia compare, allora, vera ma altra da sé; affiora la bellezza della sua sostanza al di là della sua sostanza.”(8) E proprio a fianco di Arcangeli Flavio Caroli scrive le sue pagine sull’astratto e l’informale. L’ultimo esempio è quindi anche un confronto che mostra l’intima, connaturata e serrata continuità, da aria di famiglia, della tradizione italiana degli scrittori d’arte, da Longhi a Caroli. Ancora una volta, a distanza di anni e nel solco aperto da Arcangeli, un critico italiano si mette di fronte al Grande sacco di Burri, perché rimangono zone da esplorare: “E’ difficile immaginare lo scandalo che procurarono, al loro apparire, i suoi quadri, eseguiti con logore tele di sacco e poche, stemmanti campiture di colore. Eppure il Grande sacco possiede una scansione di spazi così solenne e misurata, così ampia e perentoria, di eguagliare non tanto una pur implicita devozione al ‘neoplasticismo’ di Mondrian, ma l’imposto spaziale di un affresco rinascimentale. E che dire di quella tela logora e ‘vile’, riscattata all’arte nella luce tonale di un pomeriggio che ha il colore del caffè tostato, e combina sinfonicamente note caramellate, e marroni di castagne bruciate, e squarci bianchi raccolti come uova minerali a contrappesare in alto una toppa quadrata come una forma aurea pierfrancescana, e il nero assoluto, tizianesco, che incombe su questo muricciolo consunto e perfetto, e la breve nota rossa, acutissima, caravaggesca, che solo un grande colorista avrebbe potuto immaginare così pura, per infondere vita e sacralità a questo paesaggio di morte? […] Se le slabbrature dei sacchi di Burri, come è stato detto, si trascinano memorie di un’antica professione medica dell’artista, la chirurgia di Burri è praticata sulla
stessa corteccia del mondo, in interventi supremamente lucidi che, per essere salvifici, sanno esprimere pietà tenera eppure impassibile. Se questi sacchi, come è stato detto, conservano la polvere e l‘indigenza del francescanesimo umbro, Burri è il più sontuoso, il più regale di tutti i monaci medievali.”

Poter scrivere così, internando la lingua verbale nell’esistenza materica di Burri, significa non allontanarsi di un millimetro dal fuoco creativo di questo artista. Significa accorgersi che la materia esiste e lungo i secoli, è impiegata dall’artista in maniera nuova. Così come inventivo e camaleontico deve essere il linguaggio della scrittura quando intende narrare l’essenza di una ricerca artistica, in sé considerata, trasfondendola in un nuovo ‘testo’.

Flavio Caroli, La pittura contemporanea. Dal Romanticismo alla Pop Art. Electa.



Note

(1) G. Patrizi, Et in Arcadia ego, in Narrare l’immagine. La tradizione degli scrittori d’arte, Donzelli, Roma 2000, p. 5

(2) F. Porzio, Francesco Arcangeli, in Cronache d’arte, Skira, Milano 2002, p.157

(3) V. Sgarbi, Vedere le parole. La scrittura d’arte da Vasari a Longhi, Bompiani, Milano 2005, pp. 42-43

(4 ) P.Aretino, Lettere, III, in Scritti scelti, a cura di G.G. Ferrero, Utet, Torino 1970

(5) R.Longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, in Da Cimabue a Morandi, Meridiani Mondadori, 1978, pp.638-639

(6) F.Arcangeli, “Macchiaioli”, in Arte e vita. Pagine di galleria 1941-1973, Accademia Clementina, Bologna, 1994, p. 563

(7) R.Tassi, La storia naturale dei cieli, in L’atelier di Monet. Arte e natura: il paesaggio nell’Ottocento e nel Novecento, Garzanti, 1989, pp. 35-40

(8) F.Arcangeli, Opere di Alberto Burri, in Arte e vita. Pagine di galleria 1941-1973,

1 commento:

Mirta Vignatti ha detto...

Ottima recensione. Grazie per il tuo contributo!!! Mirta Vignatti