19 marzo 2013

“Quintetto di Buenos Aires" di Manuel Vàsquez Montalbàn

di Mirta Vignatti

Direi subito che lo spunto della ricerca del cugino argentino desaparecido incaricata dallo “zio d'America” di Pepe Carvalho (il plot del romanzo) credo vada inteso come un pretesto, un buon espediente perché il bravo detective (e Montalbàn attraverso lui) possa regalarci una sua visione di Buenos Aires e di tutti i nodi della complessa, recente storia argentina. E la percezione che ci viene offerta di Buenos Aires, -con tutti i suoi contrasti, le sue zone d'ombra, i fervori delle notti di tango (lontano da ogni luogo comune), le trame occulte e i giochi di potere- è davvero strabiliante. 
Il mai troppo rimpianto V. Montalbàn è riuscito proprio là dove altri sarebbero naufragati nello stereotipo e nel simil-turistico. Credo che a lui interessasse catturare l'anima di una città senza eguali al mondo, fatta di miseria e nobiltà, dove umiliati e offesi vivono gomito a gomito con ricchi privilegiati, delinquenti, intellettuali, mestatori, artisti, truffatori, spacconi e gradassi. Dove i nervi scoperti di un passato che fa ancora male sono lì, e c'è chi fa finta di niente. E ci riesce perfettamente, inventandosi una trama che cattura dall'inizio alla fine, con grande perizia e con stile.
 La scrittura di Montalbàn è come sempre fulminante, portata naturalmente sui registri del cinismo e del sarcastico, ma sa arricchirsi con virate poetiche: “Una mattina mia madre mi diede un pezzo di pane che sembrava appena sfornato, o forse sono io che me lo immagino appena sfornato, e un pugno di olive nere, molto saporite, di quelle olive rugose che chiamano aragonesi. Ricordo quei sapori, la gioia della mia libertà in strada, lo sguardo protettivo di mia madre. Se potessi tornare a quella mattina. Quella sarebbe la mia vera patria. La mia Rosebud. Ricordate il film Quarto potere?” Per poi riprendere subito il tono a lui più congeniale, quando l'ispettore Pascuali irrompe nell'appartamento di Pepe Carvalho: “Mandato di perquisizione” chiede Carvalho senza troppa voglia. “Ce l'ho qui appeso” dice Pascuali toccandosi la patta.
Così procede il romanzo. Tra colpi di scena, battute fulminanti, personaggi indimenticabili, ricette che a saperle eseguire ci sarebbe da leccarsi i baffi. E come scenario Buenos Aires, con il suo karma da scontare, tra santità e lussuria, tra violenza e giochi sporchi di corpi separati, relitti ancora non a perdere di uno dei peggiori regimi militari che il mondo possa ricordare. Ma la naturale leggerezza cui è portata la scrittura di Montalbàn non si perde nei drammi dei desaparecidos, e sul finire ci regala una scoppiettante scena che sembra presa di peso da un film di Almodòvar, con un'agnizione finale in un ristorante di estremo lusso (e ce ne sono a Buenos Aires, magari a poche centinaia di metri da baracche fatte di pancali e lamiere), che non ci risparmia camerieri tramortiti a padellate e appesi ai ganci della ghiacciaia e lì lasciati a congelare. E in quei passi qualcuno potrebbe anche ricordare alcune scene de “La grande abbuffata” di Ferreri. Così come potrebbe pensare a una telenovela proprio lì dove, nel finale, la vicenda scivola volutamente nel melodramma, quasi nel feuilleton. (Non a caso Almodòvar).
E' questo un libro che mi sento di consigliare a tutti: si sovrappongono ai fatti narrati (naturalmente avvincenti essendo la trama di genere poliziesco) fatti assolutamente veritieri della storia argentina degli anni tragici 70-80 che magari non tutti conoscono a fondo. C'è una commistione tra fiction e storia reale veramente ammirevole; c'è l'immagine di una grande maledetta splendida e misera città quale è Buenos Aires, splendidamente descritta (viene voglia di pensare a un bel viaggio...) e c'è il concetto reiterato da Montalbàn che l'Argentina non è solo “tango, Maradona e desaparecidos” (e non è neanche Leonel Messi, Belén Rodriguez e papa Bergoglio, aggiungerei io).
Manuel Vàsquez Montalbàn, “Quintetto di Buenos Aires”, Feltrinelli 2010.

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