di Gianni Quilici
Compro istintivamente
su una bancarella a Genova per solo 3 euro questo romanzo. Primo, perché mi
interessa leggere l’altra letteratura, quella non occidentale e in particolare
quella iraniana-persiana, che ci ha dato grandi e buoni registi e continua a darceli, come forse, oggi, nessuna nazione; secondo, perché
è un romanzo di un’ottantina di pagine, che si possono leggere agevolmente,
come non farò, tornando in treno a Lucca.
Lo leggo poi e
consiglio vivamente di leggerlo. Per i contenuti, per lo stile.
La storia è
atroce. Una donna è stata impiccata, “la muta”. In un primo momento doveva
essere lapidata. L’altra, la nipote quindicenne, è in attesa di subire la
stessa pena, riesce ad ottenere un quaderno ed una penna e racconta la storia
della zia tanto bella quanto muta, uccisa sulla pubblica piazza per aver
commesso adulterio...
Detto questo non
voglio raccontare la storia, né si possono rendere, del resto, la forza e la
bellezza espressiva del breve romanzo.
Primo, perché la
“muta” e la ragazzina esprimono due personaggi emblematici della condizione
femminile in uno stato di fondamentalismo islamico: un’oppressione estrema ,
che attraverso la negazione delle più elementari libertà giunge alla pena di
morte, in alcuni casi, atroce, come la lapidazione.
Secondo, perché
ambedue incarnano una rivolta altrettanto estrema, che dal mutismo arriva,
attraverso alcuni passaggi, al delitto. Una rivolta, che rimane individuale e
impotente, che non ha modo di contaminare altre donne e che viene punita sempre
barbaramente.
Molto bella la
pagina, in cui la ragazzina racconta la sua reazione quando apprende la notizia
che la zia avrebbe dovuto essere punita con la lapidazione:
“…. Supplicavo Dio che ci fosse un
terremoto, una guerra, che cadessero delle bombe, che annientassero tutta la
città, tutto il paese, affinché la lapidazione della muta non fosse eseguita.
Non sono capace di esprimere l’odio che sentivo verso mia madre, per la sua
stupidità e la sua cattiveria; mio padre come faceva a tenerlo sotto controllo?
Al posto suo, io l’avrei ammazzata di botte.”
E poi c’è lo
stile, come scrivevo. Chahdortt Djavanni, nata in Iran nel 1967 e costretta a
lasciare Tehran in fuga dal regime islamico e rifugiatasi in Francia, dove
tuttora vive, finge ( e lo fa con maestria) che il romanzo le sia pervenuto
dall’Iran da una giornalista in un pacco contenente il quaderno scritto in
persiano con una calligrafia piccola e fitta, senza margini, senza
cancellature, né rinvii, con insieme il dattiloscritto tradotto in francese. Ed
in effetti questa ambiguità (chi lo ha scritto?) si moltiplica, perché in
appendice La muta contiene pure una
nota della giornalista e una del traduttore.
Ed è un’ambiguità che
cresce, perché la scrittrice riesce a diventare verosimilmente l’io narrante
della ragazzina, condensando in una sola unità psicologia e stile.
Perché lei, la
ragazza 15enne, vede e sente, capisce e giudica: adora la zia con la quale, in
qualche misura, si identifica; ha pietà per il padre buono, ma impotente; odia
la madre conformista e cattiva; e prova repulsione nei confronti del mullah,
che tuttavia è costretta a sposare, con una “confessione”, che ne accentua la
complessità. Scrive, infatti, alla fine:
“ Poiché sto per
essere impiccata, dirò la verità. Senza confessarmelo, mi era piaciuta la
sensazione del sesso del mullah nella mia vagina. Una sera su due, quando nella
penombra mi penetrava, tremavo di un piacere vergognoso e colpevole. Nascondevo
sempre la testa sotto la coperta per non sentire il suo alito, mordevo il
cuscino perché lui non sentisse me. Appena lasciava la stanza per andare a
dormire nel suo studio, io mi rimproveravo. Mi disprezzavo. Lui aveva impiccato
la muta. Mi sentivo sporca e colpevole, puttana. Il mio odio si ritorceva
contro di me”.
Già in questa
micro sequenza si coglie lo stile della scrittrice. E’ uno stile diretto,
serrato, tagliente, che si incarna in una vicenda di amore e di odio, di vita e
di morte, cioè dentro sentimenti forti e estremi. Chahdortt Djavann trasformandosi nella ragazzina ne mutua psicologia e linguaggio e,
riuscendo in questo, la sua scrittura diventa stile.
Chahdortt Djavann. La muta. (La
muette). Traduzione di Anna Maria Lorusso. Postfazione di Tahar Ben Jelloun.
Bompiani.
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