13 gennaio 2014

“La muta" di Chahdortt Djavann



di Gianni Quilici

Compro istintivamente su una bancarella a Genova per solo 3 euro questo romanzo. Primo, perché mi interessa leggere l’altra letteratura, quella non occidentale e in particolare quella iraniana-persiana, che ci ha dato grandi e buoni registi e continua a darceli, come forse, oggi, nessuna nazione; secondo, perché è un romanzo di un’ottantina di pagine, che si possono leggere agevolmente, come non farò, tornando in treno a Lucca.

Lo leggo poi e consiglio vivamente di leggerlo. Per i contenuti, per lo stile.

La storia è atroce. Una donna è stata impiccata, “la muta”. In un primo momento doveva essere lapidata. L’altra, la nipote quindicenne, è in attesa di subire la stessa pena, riesce ad ottenere un quaderno ed una penna e racconta la storia della zia tanto bella quanto muta, uccisa sulla pubblica piazza per aver commesso adulterio...

Detto questo non voglio raccontare la storia, né si possono rendere, del resto, la forza e la bellezza espressiva del breve romanzo.

Primo, perché la “muta” e la ragazzina esprimono due personaggi emblematici della condizione femminile in uno stato di fondamentalismo islamico: un’oppressione estrema , che attraverso la negazione delle più elementari libertà giunge alla pena di morte, in alcuni casi, atroce, come la lapidazione.

Secondo, perché ambedue incarnano una rivolta altrettanto estrema, che dal mutismo arriva, attraverso alcuni passaggi, al delitto. Una rivolta, che rimane individuale e impotente, che non ha modo di contaminare altre donne e che viene punita sempre barbaramente.

Molto bella la pagina, in cui la ragazzina racconta la sua reazione quando apprende la notizia che la zia avrebbe dovuto essere punita con la lapidazione:

“…. Supplicavo Dio che ci fosse un terremoto, una guerra, che cadessero delle bombe, che annientassero tutta la città, tutto il paese, affinché la lapidazione della muta non fosse eseguita. Non sono capace di esprimere l’odio che sentivo verso mia madre, per la sua stupidità e la sua cattiveria; mio padre come faceva a tenerlo sotto controllo? Al posto suo, io l’avrei ammazzata di botte.”

E poi c’è lo stile, come scrivevo. Chahdortt Djavanni, nata in Iran nel 1967 e costretta a lasciare Tehran in fuga dal regime islamico e rifugiatasi in Francia, dove tuttora vive, finge ( e lo fa con maestria) che il romanzo le sia pervenuto dall’Iran da una giornalista in un pacco contenente il quaderno scritto in persiano con una calligrafia piccola e fitta, senza margini, senza cancellature, né rinvii, con insieme il dattiloscritto tradotto in francese. Ed in effetti questa ambiguità (chi lo ha scritto?) si moltiplica, perché in appendice La muta contiene pure una nota della giornalista e una del traduttore.

Ed è un’ambiguità che cresce, perché la scrittrice riesce a diventare verosimilmente l’io narrante della ragazzina, condensando in una sola unità psicologia e stile.
Perché lei, la ragazza 15enne, vede e sente, capisce e giudica: adora la zia con la quale, in qualche misura, si identifica; ha pietà per il padre buono, ma impotente; odia la madre conformista e cattiva; e prova repulsione nei confronti del mullah, che tuttavia è costretta a sposare, con una “confessione”, che ne accentua la complessità. Scrive, infatti, alla fine:
Poiché sto per essere impiccata, dirò la verità. Senza confessarmelo, mi era piaciuta la sensazione del sesso del mullah nella mia vagina. Una sera su due, quando nella penombra mi penetrava, tremavo di un piacere vergognoso e colpevole. Nascondevo sempre la testa sotto la coperta per non sentire il suo alito, mordevo il cuscino perché lui non sentisse me. Appena lasciava la stanza per andare a dormire nel suo studio, io mi rimproveravo. Mi disprezzavo. Lui aveva impiccato la muta. Mi sentivo sporca e colpevole, puttana. Il mio odio si ritorceva contro di me”.

Già in questa micro sequenza si coglie lo stile della scrittrice. E’ uno stile diretto, serrato, tagliente, che si incarna in una vicenda di amore e di odio, di vita e di morte, cioè dentro sentimenti forti e estremi. Chahdortt Djavann  trasformandosi nella  ragazzina ne mutua psicologia e linguaggio e, riuscendo in questo, la sua scrittura diventa stile.

Chahdortt Djavann. La muta. (La muette). Traduzione di Anna Maria Lorusso. Postfazione di Tahar Ben Jelloun. Bompiani.      





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