09 marzo 2009
"La conquista della malaria" di Frank M. Snowden
di Luciano Luciani
Malaria deriva da “mal aere”, termine che si trova usato per la prima volta nel 1404 dal veneziano Marco Cornaro per indicare l’aria cattiva che si formava alla foce dei fiumi ed era spesso accompagnata “da molta febre”. A Mantova, invece, molti decessi annotati nei registri necrologici a partire dal XV secolo utilizzavano le dizioni generiche di ”febri maligne”, “febre brutta”, “febre cativa” o termini più precisi come “febre terzana” o “febre quartana” ed è solo nel 1571 che malaria entra nel dizionario etimologico italiano per la sua presenza nella Idropica, commedia di un poeta ferrarese, Giovan Battista Guarini (Ferrara 1538 – Venezia 1612).
Certo è che nel quadro relativo alla descrizione e alla classificazione delle malattie che nel corso dei secoli hanno reso il Bel Paese un po’ meno tale, la malaria è sempre apparsa presente sin dall’antichità e in forma tenacemente endemica nelle zone paludose della penisola. Sempre imponenti le sue proporzioni che contribuivano in larga misura agli elevatissimi tassi di mortalità, soprattutto infantile che continuavano a caratterizzare negativamente il nostro paese.
Poco prima della faticata unità d’Italia la malaria appare ancora come un temibile flagello capace di condizionare pesantemente la vita degli uomini e l’economia. Si prenda il caso della Maremma toscana: qui, secondo una stima fatta nel 1844 dal Salvagnoli - Marchetti, la percentuale dei malarici sul totale della popolazione era del 54% a Orbetello, del 59% a Grosseto, del 66% a Gavorrano, del 70% a Santa Fiora.
In alcune zone del Meridione il morbo arrivava a rappresentare tra il 20 e anche il 30% delle cause di morte: è il caso di alcune aree della Calabria come Rossano, Paola, Nicastro e di alcune zone della Sicilia come Sciacca e Piazza Armerina. Né le cose cambiarono granché all’indomani della sospirata unità che svelò la vera realtà delle condizioni socio-economiche del Paese che scontava secolari negligenze nel controllo dei flussi delle acque correnti e nell’imprevidente disboscamento di vaste plaghe collinari e montuose.
A chiamare in causa le responsabilità degli uomini e delle classi dirigenti fu Carlo Cattaneo: lo storico milanese fin dal 1863 evidenziava come la struttura del terreno, anziché essere il prodotto di circostanze transitorie ed occasionali, appariva invece il risultato di uno strettissimo intreccio con le vicende storiche di lungo periodo come dimostravano appunto le aree malariche dalle Maremme toscane alla Campagna romana, alla inospitali terre paludose della Sardegna, il cui degrado era in buona parte dovuto alla trascuratezza e alla insipienza umane. Ancora nel 1878 il termine ‘malaria’ stava a indicare un certo tipo di febbre ricorrente caratteristica di una malattia ben definita: in un testo di Guido Baccelli, La malaria di Roma leggiamo che all’indomani di Porta Pia, nel Lazio, è un flagello che colpisce ogni anno da cinquemila a diecimila persone, specialmente nell’Agro Pontino e nell’Agro Romano. I dati che riguardano quest’ultima area risultano davvero preoccupanti negli anni 1888/1889/1890 quando ammontano a 5005 i casi di individui colpiti da febbri, pari al 21,6 dell’intera popolazione della zona; negli anni 18991/1892/1893 scendono a 2880, il 12,1 della popolazione; nel 1894/1895/1896 risalgono al 16,1 con 4132 casi e ridiscendono al 7,4 nel 1897/1898/1899 con 2200 casi.
Intanto, la scienza muoveva faticosi, ma sempre meno incerti, passi in avanti, individuando non più nell’aria, ma nell’acqua il veicolo della malattia. Come è noto, solo alla fine del XIX secolo il suo agente eziologico venne individuato nel plasmodium e ne furono scoperte le origini anofeliche: si cominciò così a fare definitivamente giustizia delle vecchie teorie che ne attribuivano la causa essenzialmente ai ‘miasmi palustri’, ovvero l’aria malsana che esalava dalle acque stagnanti delle paludi.
Forte di sempre più consolidate certezze scientifiche nell’ultimo trentennio del XIX secolo prese l’avvio anche un largo e vigoroso intervento riformatore Nel 1882 l’ufficio centrale del Senato del Regno pubblica la Carta della malaria in Italia, elaborata dopo accuratissimi studi e tenendo presenti un gran numero di osservazioni e ricerche. Secondo tale Carta soltanto 6 province erano interamente immuni dalla malaria, 13 contenevano territori con malaria debole o grave e 21 presentavano zone colpite diversamente secondo i luoghi da malaria debole, grave o gravissima. La malaria gravissima allignava in zone più o meno grandi di 21 province, di cui non meno di 10 facevano parte del Mezzogiorno. Nei quattro anni che vanno dal 1887 al 1890 la statistica delle cause di morte attribuisce alla malaria ben 68.838 vittime. Né erano migliori i Risultati dell’inchiesta istituita da Agostino Bertani sulla condizione sanitaria dei lavoratori della terra in Italia, Roma, 1890: in Italia su 8257 comuni soltanto in 2677 con una popolazione di 6.036.623 abitanti la malaria era completamente ignota. Così a questa “funesta infezione che è il mistero di tutta la nostra storia passata e di gran parte delle nostre condizioni presenti” (Nitti) risultavano esposti il 70% di tutti gli abitanti del Regno e l’80% degli abitanti del Mezzogiorno d’Italia (Campania, Basilicata, Calabria, Sicilia). Dal sud al nord: nel 1901 sono ben 2695 i casi di malaria rilevati a Mantova da un’apposita commissione.
“Quantunque la malaria sia una malattia mondiale, l’Italia ne è una figlia purtroppo beniamina. Si calcola che il numero dei colpiti nella penisola sia di circa 2 milioni all’anno, con circa 15 mila morti. Ed è una malattia lunga, che può continuare per anni. La perdita di lavoro e di produzione e le spese necessarie per questa malattia sommano a parecchi milioni. S’aggiungono… i danni indiretti: larghe estensioni di terreno restano incolte per opera della malaria, in altre plaghe la coltivazione, sempre per colpa della malaria. è fortemente imperfetta. E dal punto di vista della solidità nazionale, sappiasi che le regioni in cui più infierisce la malattia sono tra quelle che danno il maggior tributo alla emigrazione”: così, ancora nel 1913, Alessandro Canestrini.
Da allora per mezzo secolo malaria e società italiana si fronteggeranno con alterne fortune: una lotta che fece acquistare ai medici italiani una posizione di leadership mondiale in questo campo. Una guerra che sarà vinta definitivamente solo alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso perché quei medici e un pugno di uomini politici e amministratori intelligenti compresero che la malaria era insieme causa e conseguenza dell’arretratezza e del sottosviluppo. La storia, per tanti aspetti sorprendente, di quella mobilitazione che fu non solo scientifica, ma anche civile e politica e che nel secondo dopoguerra permise di sradicare la principale malattia endemica del nostro Paese, è raccontata in un documentatissimo libro di Frank M. Snowden, La conquista della malaria Una modernizzazione italiana 1900 – 1962: l’Autore, docente di storia contemporanea e storia della medicina all’università di Yale, non ci racconta solo la storia affascinante della dura battaglia intrapresa dalle migliori intelligenze di un intero Paese, il nostro, contro la malaria e di come questa mobilitazione rivestì un ruolo fondamentale nella promozione dei diritti delle donne, dei lavoratori e dell’alfabetizzazione su larga scala. Sembra indicarci anche, in maniera esplicita, che finché non si creeranno condizioni di disponibilità di mezzi tecnici, crescita umana ed economica, stabilità politica e un minimo di giustizia sociale sarà difficile non solo sconfiggere la malaria, ma anche le altre grandi endemie del nostro tempo come la tubercolosi e l’Aids.
Frank M. Snowden, La conquista della malaria Una modernizzazione italiana, Einaudi Storia, Torino 2008, pp. 319, Euro 25,00