12 marzo 2009
Walter Siti su Pier Paolo Pasolini
di Gianni Quilici
Sono rimasto stupito da ciò che ha scritto Walter Siti, curatore dell’opera omnia di Pasolini per i Meridiani, nell’ultimo dei due volumi (la poesia), che ha concluso la monumentale opera.
Pasolini –scrive in sintesi Siti- è stato lo scrittore dell’imperfezione per il suo inconcepibile pressappochismo, gli sbagli delle citazioni, la bulimia intellettuale, l’esibizionismo, il plagio e oltre, per l’ambizione sfrenata a pensare in grande con decine e decine di piani di lavoro, per il numero di libri pensati, prefigurando addirittura raccolte di raccolte, non buttando via niente, sapendo che anche l’opera finita non esaurisce e può sempre fecondare scritti futuri ecc, ecc. Conclusione: “pochi suoi testi hanno vinto il confronto con la storia - pochi si reggono se eliminiamo gran parte del contesto,come bisogna pur fare con i classici”.
Ora quelli che descrive Walter Siti sono sicuramente dati di fatto, che egli ha verificato sui dattiloscritti e nei libri di PPP e sottintendono –credo- un’ambizione che non si pone limiti (“non temere di essere ridicolo: non rinunciare a niente” ha scritto PPP).
Ma è questa ambizione sfrenata, uno dei quid più profondi e radicali della personalità pasoliniana:
il desiderio di vivere all’estremo e insieme di rappresentarsi, di vivere, cioè, due volte (nella vita e nella rappresentazione) o forse tre, attraverso la sua opera riflessa negli altri, o addirittura quattro, nel desiderio di immortalità. (si legga la bellissima poesia, nell’ultima pagina del libro Teorema). E c’è un’altra poesia del 3 marzo 1949, pubblicata sulla rivista Poesia e, un po’ diversamente, nei “Meridiani”, che ben rappresenta ciò che vado dicendo.
Ciò che non esprime muore.
Non voglio che nulla muoia in me.
La mia ambizione è dissiparmi
Fino allo splendore della pazzia
(e la mia ambizione è risparmiare…
non perdere una lacrima …) (…)
Dico questo, perché ciò che mi infastidisce nell’intervento di Walter Siti, sommariamente accennato, non è soltanto la mancanza di generosità, ma l’aver eliminato nel ritratto di PPP il cuore e l’intelligenza, abilissima certo, ma anche luminosa.
Ed allora ho pensato di rispondere a questa sensazione fastidiosa non in astratto, ma ragionando su un’opera precisa di PPP.
Gennariello
Ho riletto a distanza di anni da Lettere luterane, la prima parte Gennariello, che è l’inizio di un trattato pedagogico, che andrebbe letto e studiato nelle scuole, innanzitutto dagli insegnanti.
Il primo aspetto che colpisce in questo trattato, e che invece manca molto a Walter Siti, è la cordialità con cui l’autore si rivolge a questo giovane immaginario, che chiama Gennariello, un tono non solo affettuoso, ma complice, di chi, pur essendo diverso, per età e cultura, tuttavia vuole farsi capire e dialoga, un dialogo di tipo socratico, anche se il dialogo è di PPP con un immaginario ragazzo, ossia con PPP stesso.
E questo dialogo ha la forma –ecco il secondo aspetto- di una narrazione. PPP non racconta soltanto, scusate il bisticcio, quando racconta, ma, anche quando fa il critico, almeno a partire dalla metà degli anni ’60, sia esso letterario ( Descrizioni di descrizioni), che sociologico (il Pasolini luterano e corsaro). E perché è narrativo? Perché conduce la critica, cioè il ragionamento, come se fosse (ed è) una scoperta, un continuo disvelamento di livelli.
Questa narrazione tuttavia nasconde, ecco il terzo livello, la poesia, per il grado di temperatura con cui la svolge. Si intuisce che PPP potrebbe facilmente far scaturire versi dalla prosa, perché è anche il cuore che la scrive. Anche nel Gennariello ci sarebbero esempi, che per ragioni di spazio elimino.
Ma se scrivessi “un cuore soltanto” sbaglierei, perché il cuore di PPP è piegato ad un’intelligenza vivissima; con un risultato (soltanto superficialmente) paradossale: che non è essa meno cuore, ma più cuore, perché più vero. Perché non è soltanto l’intelligenza brillante, colta, che troviamo da molte parti, ma diventa in PPP spesso un’intelligenza impietosa, quindi feroce contro il senso comune solidificato.
E perché questo? Perché PPP oggettivizza l’oggetto che analizza, lo mette staccato da sé, lo contempla per quello che è. In questo trattato sono i ragazzi, che lui conosce, perché li sperimenta quotidianamente. Ed infatti, leggendo Gennariello, sono rimasto sorpreso dalla novità, dall’articolazione delle analisi.
Per darne il senso, un esempio. PPP affronta con Gennariello il tema dei coetanei come educatori importantissimi nel loro rapporto e lo affronta sia orizzontalmente (li descrive) che verticalmente (li approfondisce storicamente). Ebbene, i giovani li divide in tre categorie: gli obbedienti, i disobbedienti e i colti. Degli obbedienti fa un elenco impressionante: i destinati ad esser morti, gli sportivi, i futuri executives, i comunisti ortodossi, i repressi non nevrotici, i teppisti, i fascisti, i cattolici attivisti ed infine i puri medi, tenendo presente due avarianti, dice lui, ancora fondamentali: i ragazzi borghesi e i ragazzi operai, i ragazzi del Nord e i ragazzi del Sud. Pasolini parlerà soltanto dei “ragazzi destinati ad essere morti”, perché poi verrà ucciso, ma già in questo capitolo non c’è nulla della mania classificatoria d’una certa sociologia americana. Tutt’altro. Viene fuori invece un tipo di adolescente, visto negli aspetti e nelle ragioni profonde del trauma.
Ecco, a mio parere, l’unicità di PPP è in questa sintesi di altissimo livello, in cui non si può separare il poeta dal narratore, l’intellettuale dall’esploratore.
Con un’aggiunta: la presenza del corpo. Per corpo intendo il suo corpo: la sua voce, la sua passione, la sua furia, i suoi traumi, il suo coraggio. Qui in Gennariello il corpo è una mescolanza tra paternità e fratellanza. Paterno in quanto superiore (conosce e non è conosciuto); fraterno, perché si pone accanto. Ma altrove la presenza corporea di PPP è disperata, furiosa, rivoltosa, esprime, cioè sentimenti diretti ed estremi. Si mette in gioco tutto, privo di mediazioni, se non quelli della razionalità comunque.
Ed è questa una differenza certa tra lui ed altri grandi artisti del secondo ‘900 italiano (Moravia, Fellini, Volponi ecc). Questo corpo disperato e furioso e tra virgolette profetico è il Pasolini che più manca e più è discusso.
Perché è quello che più pragmaticamente ci manca oggi. Pensiamo a cosa scriveva PPP nel marzo del ’75.
“Il primo dovere degli intellettuali, oggi, sarebbe di insegnare alla gente a non ascoltare le mostruosità linguistiche dei potenti democristiani, a urlare, a ogni loro parola, di ribrezzo e di condanna”
Che cosa avrebbe scritto PPP per Berlusconi, di un Presidente del consiglio che non solo non si è fatto (finora) processare dalla magistratura, ma che ha invece continuamente processato lui la magistratura?
Certamente non sarebbe stato sulla difensiva, come ha fatto gran parte dell’opposizione di centro sinistra, avrebbe smontato con le armi della semiologia questa recita mostruosa che ha tolto senso alle parole e al dialogo stesso. Altri comunque lo fanno e lo hanno fatto.
Ma PPP sapeva urlare, perché nel suo urlo c’era lo stile del narratore-poeta-intellettuale, con la sua immaginazione sociologica, le sue metafore illuminanti, con l’uso retorico e suggestivo della propria persona, con la passione e la lucidità di posizioni nette.
Qualcuno potrebbe dire: possiamo quindi santificarlo?
No: diversi film o libri di PPP li trovo a tratti volontaristici, più ideologici che intimamente vissuti o risolti; altri estetizzanti, cioè pieni di una passione che si contempla, che si vuole bene.
Ma non è forse così per ogni grande, che insieme a risultati compiuti ce ne siano di incompiuti? In PPP forse ancora di più, tanto è stata fluviale e versatile la sua opera. Un’opera che vuole fuoriuscire, nell’ultima parte della sua vita, dalle pagine stesse, diventare esempio, azione.
Walter Siti. Post-fazione a " Tutte le poesie (2 tomi)" di Pier Paolo Pasolini. I Meridiani. Mondadori.